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La Siria, ecco perché c’è fretta
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«Non si sa se i colpi di mortaio (in territorio turco) sono stati sparati dalle forze del regime siriano, oppure dai ribelli che combattono per rovesciare il presidente Bashar al-Assad... »: parole del New York Times, mica dell’agenzia di stampa di Assad. (Turkey Strikes Back After Syrian Shelling Kills 5 Civilians)

Teniamole presenti, dato che i nostri media stanno continuamente ripetendo che è stato l’esercito siriano a tirare i colpi di mortaio sulla cittadina turca di Akçakale, uccidendo cinque persone. Perchè sembra sempre più chiaro che invece sono stati i cosiddetti «ribelli», nella speranza di attrarre un intervento turco sul territorio siriano, onde creare una zona-cuscinetto a loro favore. Il 5 ottobre, la TV tedesca (di Stato) ZDF ha detto, nel programma Heute in Europa: «Ieri sera la Turchia s’è vendicata degli attacchi dei RIBELLI in Siria che avevano prima attaccato un villaggio confinario turco». (Heute in Europa - VIDEO)

Akcakale è diventato da tempo, per volontà del governo turco, un centro di transito per i rifornimenti e le armi dei «ribelli». (Syrian Troops, Rebels Clash Over Key Border Crossing With Turkey)

Secondo il giornale turco Yurt, l’arma assassina sarebbe addirittura un mortaio NATO, di cui il governo turco (membro della NATO) avrebbe fatto omaggio ai ribelli.

Di fatto, dopo i tiri di mortaio, Erdogan ha chiesto ed ottenuto dal parlamento turco l’autorizzazione a fare operazioni belliche oltreconfine – però «se necessario»; l’opinione pubblica infatti è energicamente contraria all’intervento.

Un classico «false flag» non del tutto riuscito?

Gennadi Gatilov, il vice-ministro degli Esteri di Mosca, aveva subito invitato la Turchia a «esercitare la massima moderazione» dal momento che (testuale) «elementi estremisti dell’opposizione siriana possono deliberatamente provocare conflitti trans-frontalieri a loro vantaggio». (Russia warns Turkey, Syria over tensions near border)

Gatilov non ha avuto bisogno di fare uno sforzo speciale di immaginazione complottista. Probabilmente, gli è bastato leggere il memorandum emanato dalla Brookings Institution (lo storico think-tank ebraico-americano) nel marzo 2012, a firma di tali Daniel Byman (j), Michael Doran (j) e Kenneth Pollack (j) dove si invitava la Turchia a minacciare Assad «di una guerra su molti fronti», e di «alimentare l’opposizione siriana in modo continuo di armamento e addestramento», perchè «tale mobilitazione può convincere i capi militari siriani a cacciare Assad per salvare se stessi». (Saving Syria: Assessing Options or Regime Change)

A dire il vero, programmi per provocare un cambio di regime in Siria sono stati elaborati in USA da un ventennio. Bisogna capire come mai i vecchi progetti sono stati rispolverati con tanta fretta. La risposta è nella scoperta, avvenuta nel 2010, di un enorme giacimento di gas naturale nel Mediterraneo orientale, grosso modo di fronte ad Israele, ma anche a Libano e Siria. A un centinaio di chilometri da Haifa e a tre cinque chilometri di profondità, il campo ha ovviamente suscitato l’appetito di Israele di accaparrarselo in esclusiva, escludendo i poveri palestinesi di Gaza che avrebbero una legittima pretesa sul giacimento (per questo Gaza è definitivamente condannata alla pulizia etnica), e gli altri interessati: il campo subacqueo, definito «un nuovo Golfo Persico» per la sua ricchezza, sta fra Grecia (eliminata dalla competizione dalla UE), Cipro (eliminando come la Grecia) Siria e Libano (da eliminare), e dalla Turchia, che è il caso di associare all’impresa perchè è troppo grossa per eliminarla.

La carta qui sotto indica l’estensione del bacino gasifero, detto Levant o Levantine Basin dagli esperti petroliferi. Israele l’ha ribattezzato Leviathan – nome del mostro biblico venuto dal mare – e l’ha dichiarato sua «Exclusive Economic Zone».



Anche il Libano ha rivendicato parte del giacimento come giacente nella sua Exclusive Economic Zone, inviando precise mappe all’ONU per sostenere la sua pretesa. Hezbollah, che fra l’altro è un grande partito libanese, ha dichiarato che il campo di Tamar (che gli ebrei stanno perforando e comincerà a futtare a fine 2012) appartiene al Libano. Il ministro degli Esteri israeliano Lieberman ha risposto, come al solito: «Nemmeno un pollice» ai libanesi.

Sorprendentemente, nel luglio 2011, Frederick Hof, il diplomatico americano responsabile per gli affari siriani e libanesi, ha dichiarato che l’Amministrazione Obama appoggiava la richiesta del Libano. Ciò può spiegare la furia con cui Netanyahu ha fatto pressioni aperte e arroganti ai miliardari ebrei in USA perché appoggino (pagando il necessario) l’elezione del repubblicano Mitt Romney. Sheldon Adelson (j), l’ottavo individuo più ricco d’America, il re dei casinò di Las Vegas, ha subito obbedito versando milioni al candidato desiderato. Non a caso Mitt Romney ha subito dichiarato che, quando entrerà alla Casa Bianca, armerà di tutto punto i ribelli siriani.

Il regime siriano può rivendicare una parte del giacimento. Ma non è solo questo. Israele, accaparrandosi il campo Leviathan, mira non solo a raggiungere l’autosufficienza energetica, liberandosi dalla dipendenza dal gasdotto egiziano (da cui lo Stato sionista riceve il 40% del suo gas) ormai nelle mani poco amichevoli della Fratellanza Musulmana, ma gli è nata la voglia di diventare «una potenza esportatrice di gas naturale» lucrando le royalties che spettano ai Paesi dove transitano i gasdotti, oltre che i profitti della vendita diretta del gas all’Europa – il secondo mercato di consumo energetico del mondo. Per raggiungere i suoi scopi, ha bisogno che sia completato il gasdotto «Arabian Gas Pipeline». Eccolo:


(CLICCARE PER INGRANDIRE)
Questa seconda mappa precisa meglio il «problema» che la Siria rappresenta per le voglie israeliane e turche:



Israele vuol far passare il gas fino alla Turchia (centro di smistamento per l’Europa), e deve farlo passare completando la pipeline nei 230 chilometri mancanti, in territorio siriano. Ma né Turchia né Israele vogliono che il regime siriano, filo-Teheran e sostenuto da Mosca, abbia la sua parte di royalties. Il regime deve cadere ed essere sostituito non da un altro regime, ma da «ribelli» come in Libia (1), ossia da un failed state troppo instabile e caotico per esigere la giusta quota dei profitti comuni. Si deve ricordare che gli Stati Uniti si sono comportati allo stesso modo coi Talebani in Afghanistan: prima li hanno corteggiati, guadagnandoli al progetto di costruire il lunghissimo gasdotto dal Mar Caspio al Pakistan. I petrolieri texani, capeggiati dalla UNOCAL e dalla Enron, ricevettero col tappeto rosso i capi talebani nel 1997, come ricorda questo articolo della BBC: Taleban in Texas for talks on gas pipeline.

Erano i tempi in cui l’America dichiarava ufficialmente il regime talebano «una fonte di stabilità nell’Asia centrale». Quando però i talebani chiesero troppo, «Al Qaeda» fece saltare le Twin Towers e l’America – aggredita e ferita come sappiamo – fu costretta a invadere l’Afghanistan e a rovesciare il regime per catturare Osama bin Laden... lasciando a capo del nuovo governo il signor Karzai, un ex funzionario della Unocal.

Ma questa è un’altra storia. Torniamo alla Siria. Un altro motivo per sbatterla fiori dal gioco, e con urgenza, è che esiste un progetto di gasdotto che porti il gas dall’altro giacimento gigante, il South Pars Field che si trova in Iran, attraverso l’Iraq oggi governato da sciiti, quindi amici di Teheran, fino al porto di Banias in Siria. A questo, si aggiunge il progetto di un oleodotto da Kirkuk a Bania.



Due progetti che contrastano fortemente con gli appetiti israeliani (e turchi), fornendo un’alternativa al loro sperato semi-monopolio di fornitori di gas all’Europa – ventre molle di questa titanica battaglia condotta con tutti i mezzi su un’area vastissima, dall’Asia centrale alle nostre coste. La Russia mantiene il punto, sostenendo la Siria e mantenendo una sua flotta da guerra nel suo porto di Latakia. La Cina sta appoggiando, molto meno efficacemente e cercando di non farsi vedere, il regime di Teheran, con cui ha firmato un contratto ormai dal 2004 da 120 miliardi di dollari per l’esplorazione del grande giacimento iraniano, che comprende la fornitura di 10 milioni di tonnellate di gas liquefatto iraniano per 25 anni. Un «regime change» a Teheran, accanitamente perseguito dai sionisti e dai loro complici in USA, sicuramente non è visto bene da Pechino, e nemmeno un regime change in Siria, che sarebbe il preludio a quello iraniano.

Fatto sta che bisogna aspettarsi qualunque provocazione. C’è un ronzare di «false flag» nella zona del Leviathan. Chissà se lo è anche l’enigmatico evento avvenuto il 5 ottobre: un drone «alieno» ha sorvolato parte del territorio israeliano per mezz’ora buona, ha sorvolato, sembra inosservato, la cittadina ebraica di Beersheba e la base aerea israeliana di Nevatim prima di essere abbattuto da due F-16 ebraici. Il drone alieno doveva essere piuttosto grosso, è descritto come «un elicottero senza pilota».

Il sito vicino al Mossad Debka File l’ha subito dichiarato «un atto di belligeranza dell’Iran contro obbiettivi militari di USA e Israele». La prova? Il luglio scorso «il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah dichiarò: «Il movimento di resistenza sorprenderà Tel Aviv in una guerra futura»... Ciò basta a Debka per concludere: «Con l’appoggio iraniano, (Hezbollah) ha comprovato questo, molto probabilmente in cooperazione con il suo alleato palestinese, Hamas». E così, tutti e tre i nemici che Israele vuole distruggere sono indicati come colpevoli (Hezbollah ha smentito di aver qualcosa a che fare con questa storia). Debka accusa anche i militari israeliani che non sono stati capaci di neutralizzare immediatamente l’oggetto nello spazio aereo più sorvegliato e sigillato del mondo.

«La missione del mezzo può essere stata quella di registrare le segnature elettroniche del sistema di difesa aerea attorno al reattore nucleare di Dimona e la stazione radar americana a X-band nel Nege, collegata con la stazione gemella in Turchia. Insieme, questi sono gli occhi avanzati dello scudo israelo-americano contro l’attacco d missili balistici iraniani».

E non basta. Debka continua: «Se avesse avuto armi a bordo, sarebbe finita in un grande disastro, realizzando il peggior incubo di Israele: un velivolo iraniano che ci sorvola con una bomba atomica a bordo». Tremate, tremate, israeliani, e poi: bomb Iran! Le allarmistiche frasi di Debka configurano un classico caso di «stress post traumatico», indicato da Gilad Atzmon come la tipica psichiatria sionista: ci si fa traumatizzare da un evento ipotetico che può avvenire nel futuro, onde avere il motivo per prevenirlo aggredendo preventivamente il potenziale colpevole con bombardamenti soverchianti. «Israele minacciata nella sua stessa esistenza» e via lamentando. Potrebbe trattarsi di un altro false flag israeliano?

Quanto all’Iran, l’agenzia Farsi si limita ad intervistare il sottocapo delle Guardie della Rivoluzione, per fargli dire che l’incidente dimostra che il sistema di difesa antimissile israeliano «non funziona». Teheran non conferma né smentisce; probabilmente le fa piacere che si creda che, nonostante l’embargo crudele, il sabotaggio economico contro la sua moneta, gli assassinii dei suoi giovani scienziati condotti scientificamente dai sionisti, il Paese ha sviluppato capacità tecnologiche così ragguardevoli. Ma è anche vero che nel dicembre 2011 gli iraniani intercettarono e fecero atterrare il super-drone «invisibile» americano RQ-170 manovrato dalla CIA sul suo spazio aereo, e potrebbero averne imparato qualche segreto.





1) A proposito, non si vorrebbe fosse sfuggita la rivelazione fatta dal libico Mahmoud Jibril, che è stato Primo Ministro ad interim della Libia dopo il rovesciamento di Gheddafi: intervistato ad una TV egiziana, Jibril ha asserito che Gheddfi è stato ucciso da un agente segreto francese, mescolatosi alla folla che aveva catturato il dittatore e lo stava malmenando, con un colpo di pistola; l’agente agiva su ordini espressi di Sarkozy, desideroso di chiudere per sempre la bocca al dittatore sui cordiali rapporti «d’affari» che l’avevano legato a Sarkozy in passato. In particolare si tratterebbe di 50 milioni di euro, provenienti dal colonnello libico e «riciclati attraverso conti bancari panamensi e svizzeri», per la campagna presidenziale di Sarko nel 2007, eludendo così la legge francese che limita i finanziamenti ai politici. Del resto Saif al-Islam, figlio di Gheddafi, aveva già minacciato di rivelare gli aiuti libici alla campagna de francese: «Abbiamo tutti i particolari, siamo pronti a svelarli». La circostanza della liquidazione è stata di fatto confermata da Rami El Obeidi, già responsabile dei rapporti internazionali del Consiglio di Transizione libico: ha detto di sapere che Gheddafi in fuga era stato localizzato da un sistema di comunicazione satellitare proprio mentre parlava al telefono col presidente siriano Assad. I sistemi di comunicazione satellitare non erano certo accessibili ai libici che stavano malmenando il colonnello. (Gaddafi was killed by French secret serviceman on orders of Nicolas Sarkozy, sources claim)


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