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La Casta fa ammuina. Sull’abisso
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Non si sa da dove cominciare, ma cominciamo da qui: «Fra gli onorevoli gara di parole a chi taglia di più». Calderoli: tagliamoci un 5% sugli stipendi. Larussa: togliamoci una mesata. Rotondi: no, tre mesate. Gasparri: tre mesi di stipendio e riduzione delle spese del palazzo del potere. Bossi: tagliamo gli stipendi anche ai giudici.

Che commozione: sembra la replica di quei giorni di maggio 1789, i primi passi della Rivoluzione Francese, quando l’alto clero e i nobili, entusiasti dei tempi radiosi incombenti, rinunciarono  volontariamente ai propri privilegi fiscali. «Tutti uguali, anche davanti alle imposte!». Oggi: tutti uguali davanti ai sacrifici! E’ la Casta che fa ammuina, naturalmente. I tagli degli stipendi ai parlamentari, d’accordo, ma i tagli alle case regalate, ai fondi neri piazzati nello IOR, le «consulenze», i costi dei parlamentini incistati in ogni ASL e in ogni provincia, Comune, consiglio di zona, di questi non si parla.

Luca Ricolfi, su La Stampa, valuta in 4 miliardi i costi diretti della politica: il taglio del 5% proposto da Calderoli racimolerebbe un 200 milioni, l’1% della finanziaria che sta per abbattersi su tutti noi.

«Ma a fronte dei costi diretti di 4 miliardi, la politica ci costa 80 miliardi l’anno» in malgoverno, spreco di risorse pubbliche, corruzione e clientele.

Prendiamo Angelo Balducci, il culandrone, grand-commis e cameriere vaticano messo a dirigere il  Consiglio Superiore dei Lavori pubblici – ente di palese inutilità anzi dannosità, visto come ha controllato i grandi appalti – dal ministro Matteoli, che insiste («Lo rinominerei, nessuno aveva il suo curriculum»). Quando è stato arrestato come capo-cricca dell’edilizia-Scajola, Balducci ha detto: «Corrotto io? Non ne ho bisogno, guadagno 2 milioni di euro l’anno». No, non di stipendio, bisogna essere giusti: di consulenze. Come quella saltata fuori nel 2006 dalle intercettazioni del procuratore Woodcock: Balducci aveva un conto corrente presso lo IOR (fu lui stesso, il culandrone, ad ammetterlo), quando risultò che Balducci il culandrone grand-commis aveva fatto un bonifico di 280 mila euro a tale monsignor Franco Camaldo, cerimoniere di Sua Santità. A che fine?, chiese il procuratore.

«Questa fu la spiegazione di Balducci», leggo da La Stampa: «Siccome monsignor Camaldo, suo fraterno amico, era stato truffato nel corso di una spericolata operazione immobiliare, ed era giù di morale, lui aveva deciso di aiutarlo con un prestito di 280 mila euro a fondo perduto».

«Camaldo diede una risposta ancora più sorprendente: aveva partecipato a una operazione per comprare a Marino, nei Castelli romani, la villa principesca che era appartenuta a Carlo Ponti e Sofia Loren per farne la sede di una associazione massonica, ma il tutto si era rivelato una truffa e perciò era ricorso a Balducci».

Che rete di commoventi amicizie: Balducci regala 280 milioni al monsignore, il quale voleva aprire una sede massonica, un evidente regalo ad amici fraterni; anzi a veri Fratelli. Da questo episodio si capisce perchè il presidente della Authority per la Privacy, Franco Pizzetti, appare alquanto renitente a spogliarsi del 5% del suo stipendio: «Sono 12 mila netti al mese, ma non posso avere altri incarichi». Balducci poteva avere altri incarichi. Ma ha poi ragione Matteoli che lo stima, «nessuno aveva un curriculum come il suo»?

Sul culum nessun dubbio, a Balducci piacciono «uomini maturi e pelosi» (e giurerei che piacciono anche all’amico monsignore); ma chissà quanti invece hanno lo stesso curriculum delinquenziale pubblico: per ora hanno scoperto lui, ma altri ci sono. Lo ha detto la mogliettina di Scajola, ferita negli affetti: «Mio marito AL MOMENTO sta zitto per non creare problemi a persone molto più coinvolte di lui in questa vicenda».

Al momento; ma se parla, chissà quante persone risulteranno «coinvolte», e a quali livelli. Capite che è facile, per i parlamentari come per i grand commis, rinunciare al 5% dello stipendio (lo stipendio vero e proprio è di 5 mila, ma non si contano i 10 mila di ammenicoli). Ci sono tante altre occasioni, altri «incarichi». Gasparri non è in consigli d’amministrazione di misteriose telecom israeliane? (1)

Dunque distogliamo lo sguardo dal teatrino: lorsignori faranno pagare tutto ai cittadini, specie ai privati (i pubblici dipendenti sono già sul piede di guerra: e non hanno sul collo, loro la competitzione mondiale). Devono mostrare alla Merkel che anche noi facciamo l’«austerità»; non proprio come i francesi (che taglieranno una novantina di miliardi), ma un 25 miliardi in due anni. Eppure proprio noi, più che la ben governata Francia, avremmo parecchio grasso da tagliare: 60 miliardi solo di costo della criminalità e corruzione alla Balducci-Scajola. Ma tagliare lì è impossibile: quelle, sono le spese necessarie alla Casta. Dunque, «riforma delle pensioni», eccetera.

Ma sì, facciamo vedere alla Merkel qualche taglio (più o meno, come i greci hanno fatto finta di avere i conti a posto). Perchè la Merkel vuole che tutti i membri dell’eurozona applichino il «rigore», smantellino lo Stato sociale, rientrino subito subito nei parametri di Maastricht, riducano il debito e il deficit rispetto al PIL. Ma subito, adesso, perchè i mercati dubitano della capacità degli Stati europei di sobbarcarsi anche i costi del salvataggio della Grecia, ossia in realtà delle banche.

In realtà il salvataggio è fallito, i mercati esigono il 7% per i BOT greci; d’accordo, meno del 18% che pretendevano una settimana fa, ma comunque impagabile per la popolazione di Atene. Le Borse che festeggiavano lunedì, sono crollate venerdì. La speculazione ha capito che la cosa non regge.

Mettere i conti «a posto» per convincere i mercati che i BOT  di tutti gli Stati europei sono solvibili, è una «razionalità» germanica, ossia wagnerianamente, grandiosamente pedante ed ottusa. Giusta in teoria. Ma oggi, in piena depressione, significa ridurre i salari, dunque i consumi privati, e in complesso soffocare il motore della crescita, il solo che – se funziona – rende possibile «servire» i debiti. Persino la Germania ne soffrirà: il rigore indurrà greci, spagnoli, italiani, francesi a comprare meno BMW e VW. Peggio: il rigore blitz mette in pericolo la solvibilità del debito privato, che in certi Paesi è pari o superiore al debito pubblico.

Apparentemente, la Germania vuole spingere tutti gli europei a diventare (come appunto la Germania) un Paese che taglia il potere d’acquisto dei suoi salariati per essere il secondo esportatore mondiale. Tutti esportatori, nessun importatore, questo pare essere il sogno; e chi non è capace, via dall’euro.

L’utopia tedesca pare essere, dunque, la «cinesizzazione» della manodopera europea: a forza di tagli allo Stato sociale e moderazione salariale, far convergere i salari e lo status dei lavoratori nostri con quelli cinesi. Una strategia grandiosa: una replica della strategia hitleriana di conquista armata della Russia, che finì come sappiamo a Stalingrado.

Non possiamo diventare competitivi «come i cinesi». Per molti motivi, che vanno dalla demografia calante alla de-industrializzazione già troppo avanzata, passando magari per quell’inceppo che i cinesi non hanno, lo Stato di diritto e un vago ricordo di essere cittadini, e non sudditi-schiavi di una cricca maoista. Per noi italiani, con l’aggiunta di una enorme casta strapagatasi, che certo non dimagrirà, e dunque in proporzione peserà ancor più sulla fragile economia. Ma ci tenterà, la Germania, perchè la Germania è seria, è razionale, e quando abbraccia un’ideologia, non la abbandona nemmeno quando i mongoli sono a cento metri da bunker.

Ha «ragione», bisogna convincere i mercati a comprare i BOT di tutti i vari Stati europei; ha ragione se la razionalità unica è quella dei «mercati». Sono loro che esigono tagli alle spese sociali e ai salari, perchè è il capitale che deve avere di più, è il capitale che deve avere tutti i diritti di creditore privilegiato. Il fatto che con le loro pretese i mercati si taglino il ramo da cui raccolgono i frutti, non entra nella «razionalità», e non viene preso in conto.

Sì, hanno «ragione» i mercati: abbiamo vissuto troppo a lungo sopra i nostri mezzi, arraffando i prestiti che i «mercati» stessi ci facevano per  mantenere i nostri livelli di consumo compensando la storica diminuzione dei salari in Europa, in avvicinamento a quelli cinesi. Nel 2005, il debito totale europeo (debito pubblico, più debito delle famiglie e delle imprese) era il 250% del PIL – anche se in proporzioni diverse tra debito pubblico e debiti privati, Stato per Stato. Nel 2010, il debito totale è il 300% del PIL: è cresciuto molto più di quanto sia cresciuto il PIL, ossia l’economia. Fra otto anni, sarà al 400%, fra 15 sarà oltre 5 volte il PIL. E i «mercati» pretenderanno sempre gli interessi sui nostri debiti, anzi aumentati, perchè si avvicina il rischio-Paese, l’insolvenza, e il rischio sistemico, l’insolvenza globale dell’Occidente tutto, che è sconfitto dalla storia perchè non  è diventato cinese.

E infatti ce lo meriteremo. Perchè abbiamo accetatto la «razionalità» dei «mercati» come unica possibile, senza accorgersi che, sotto il dominio del «mercati» – che indebitano e traggono interesse dalla carne umana – gli Stati saranno sempre deficitari, nella misura in cui sono ancora umani. La loro razionalità è quella della macchina a vapore, che consuma risorse naturali e rigetta nell’ambiente (gli ecologisti ce l’hanno insegnato) i residui della combustione, per lo più come inquinanti. Così funziona la partita doppia del capitalismo indebitatore: a destra, profitta di risorse umane e naturali che «mette al lavoro», a sinistra rigetta i residui: tanto per fare un esempio, la manodopera  immigrata che ha obbligato a «importare», sottopagata e sfruttata, per poi abbandonarla perchè conviene delocalizzare in Cina e in India, quella manodopera resta in carico allo Stato, come residuo, per lo più in condizioni socialmente disastrose, e con entropia aumentata, che si manifesta in degrado sociale, fino alla delinquenza.

A destra, l’azienda licenzia, non assume donne (cadono in maternità, le str…), seleziona, e così diventa concorrenziale ed efficiente; a sinistra, lo Stato si deve occupare dei disoccupati, degli immigrati clandestini, e delle donne in maternità, come degli handicappati, dei vecchi, dei malati; e in più, dare un’educazione ai bambini improduttivi perchè diventino adulti produttivi, e quindi mantenere scuole e università, docenti e professori, magari anche ricercatori. Lo Stato, contrariamente all’azienda, non può espellere bambini, incapaci e disoccupati; anzi, a questi deve dare la cassa integrazione. A destra, il capitale utilizza terreni agricoli, carburanti, acque potabili, e le restituisce come contaminanti: allo Stato, che deve purificare le acque, ripiantare foreste e depurare terreni.

A destra, i profitti privati. A sinistra, le «perdite» sociali. A destra, i profitti privatizzati, a sinistra, le perdite socializzate. A questo punto, i «mercati» intervengono a far la lezione agli Stati: se non siete capaci di fare profitti, almeno riducete le vostre perdite. Fate meno infrastrutture, meno scuole, meno ricerca; anzi, privatizzatele, datele a noi, per pagare i vostri debiti. Altrimenti, non compriamo più i vostri BOT. O meglio: li compriamo, se ci pagate un interesse più grasso...

Tutto è molto razionale, e porta alla morte. Tutto è molto razionale finchè non si torna a capire che lo Stato non è un’azienda, e la sua razionalità non è quella aziendale, ma vitale e umana. Qualcosa, cioè, che non viene contabilizzato, ma che si paga in altro modo: in generazioni senza conoscenze nè autonomia, in immigrati strappati dai loro legami sociali e dalle loro tradizioni, in competenze perdute, in lauree inutilizzate, in avvenire chiuso per una gioventù «libera» di consumare – a credito – ciò che non è più in grado di guadagnare.

Il pericolo è estremo, perchè adesso i «mercati» vogliono dimostrare quel che la loro ideologia sostiene da un secolo: che gli Stati non servono più, che sono un ostacolo alla libera circolazione di uomini-merci-capitali, che tutta la loro attività può esere privatizzata – ossia contabilizzata in termini di perdite e profitti. E il bello è che i politici, proprio loro, da noi votati, condividono questa ideologia: almeno non si facessero strapagare. Invece, privatizzano noi cittadini.

Al di là delle ammuine, è questo il punto. E’ stata dimenticata la dottrina dello Stato, e della sua economia, «economia politica». Perciò non si parla nè di protezionismo, nè di mantenere le competenze entro i confini insieme alle industrie, nè di fare default, ossia di far pagare ai creditori i debiti che ci hanno fatto fare.

Nel 1596, dopo decenni di guerre civili e di salari ai mercenari, la monarchia francese aveva accumulato un debito di 200 milioni di «livres», mentre gli introiti di Stato a malapena giungevano a 10 milioni annui. Il ministro di Enrico IV, il celebre Sully, mise tutti i creditori della corona, francesi e stranieri, davanti all’aut-aut: accettare una riduzione dei rimborsi, o perdere tutto. Accettarono, perchè dopotutto avevano già lucrato abbastanza interessi da coprire il credito, e ricevere qualcosa era meglio che niente. I cantoni svizzeri, che pretendevano 36 milioni di livres, si contentarono di 16. La famiglia bancaria Rucellai, che avanzava un milione, si contentò di 300 mila. Liberata dalla macina da mulino del debito, l’economia di Francia tornò a prosperare, e i creditori a bussare alla sua porta ad offrirle denaro.

Oggi, l’eurocrazia non ha tanto fegato regale, perchè non si vuole sovrana. E’ comodo, comandare senza sovranità. La BCE non stampa denaro, se non per le banche private, senza pretendere che estendano il credito, nè nazionalizzarle. La Germania da una parte ha un interesse oggettivo a mantenere la zona euro – perchè è una zona in cui esporta senza dover temere le svalutazioni competitive dei suoi concorrenti, Francia, Italia e Spagna, che sono anche i suoi mercati – ma allo stesso tempo rifiuta di contribuire alla solidarietà europea, mentre impone a tutti le stesse regole di «austerità».

Di fatto, la Germania ci comanda, senza però essere sovrana su di noi, ossia senza responsabilità: perchè, se così fosse, almeno ci manderebbe i suoi funzionari statali che sono meglio dei Balducci, ed estenderebbe su di noi le sue normative, più semplici, trasperenti, favorevoli all’economia e alle imprese delle nostre.

Sicchè, almeno, sapremmo di essere governati da stranieri, e – pur stando meglio che sotto gli Scajola, i giudici, i faccendieri nostrani – saremmo persino capaci di ribellarci per riconquistare l’indipendenza nazionale.

Le cose sarebbero più chiare, e razionali.




1) Si veda il mio «Ritratto di Gasparri tra i sayanim», Effedieffe, 16 maggio 2007. Maurizio Gasparri, l’ex ministro delle telecomunicazioni, risulta direttore di una società israeliana di telecomunicazioni, la Telit. Uno sguardo al management della Telit: nonostante la sede a Trieste, è integralmente israeliana. Il presidente si chiama Avigdor Kelner, un colonnello dell’armata
israeliana che è stato ai vertici della Azorim Investment, una immobiliare sionista, ed è nel board della Ben Gurion University. Oozi Cats è il direttore esecutivo, Avi Israel il direttore finanziario, Inbal Barak-Etzion la sub-direttrice finanziaria; poi ci sono una sequela di direttori non-esecutivi. E lì, tra un David Denholm (ex banca Warburg) e un Andrea Giorgio Mandel-Martello (altro Warburg), fra un Davidi Piamenta (che viene dalla Israeli Air Force), un Yossi Moskovitz e una Ali Ronnen, compare effettivamente la faccetta di Maurizio Gasparri. Quasi unico goy fra tanti eletti.  Come direttore, ma attenzione, «non esecutivo». E' importante: infatti la didascalia che accompagna la foto non fa che prendere le distanze da se stessa. Si sforza di dire: sono qui, ma non ci sono.«Mister Gasparri non è attualmente direttore o partner, né è stato direttore o partner negli ultimi cinque anni di alcuna azienda o compartecipazione». Ma allora perché sta lì, con foto, tra i direttori Telit? A fare che? Apparentemente non fa niente, anzi nemmeno c’è fra quei colonnelli e aviatori di Tsahal. Ma si vede che a qualcosa serve pure un Gasparri. A che cosa? Il nome della Telit è saltato fuori nelle deposizioni di Marco Bernardini, agente del SISDE e principale testimone nell’inchiesta sulle intercettazioni Telecom. Bernardini ha detto che la notizia delle indagini della Kroll su Tronchetti Provera originava, attraverso una trafila di confidenti, da tale «Frascà, ex funzionario Telecom passato alla Telit, un’azienda rilevata dall’IMI, Industria Militare Israeliana». Che gli israeliani siano all’ascolto di telefoni e telefonini italiani risulta molto chiaro dalle deposizioni sullo scandalo Telecom. Fabio Ghioni, esperto informatico della sicurezza Telecom, racconta che Guglielmo Sasinini, ex giornalista di Famiglia Cristiana era diventato consulente-spia per Telecom. Sasinini, dice Ghioni, vantava «contatti diretti coi servizi segreti israeliani, di cui parlava come se fossero i suoi capi occulti» (interrogatorio del 13 marzo 2007). Sasinini e Tavaroli andavano spesso in Israele. E a questo proposito Ghioni pronuncia il nome della Converse Technologies, azienda israeliana che offriva a Telecom apparati per intercettazione. «Svolsi una ricerca su tale azienda e scoprii che era stata creata dal Mossad».



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