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Cina, il pirata globale
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Il regime di Pechino ha cominciato il 2013 col seguente atto: ha (re)introdotto la tassazione su una lista di prodotti tecnologici importati, dalle installazioni per l’energia solare ai gasdotti al materiale ferroviario. Come hanno spiegato «più materiali nazionali onde sostenere l’industria cinese».

Questa è la definizione stessa del protezionismo. Quel protezionismo che viene escluso come sacrilego dalle eurocrazie europee, bancarie e industriali e dai loro maggiordomi economisti: la Cina lo fa, e lo dichiara persino. È giunta al punto di accusare l’Europa di dumping (vendita in perdita) di certi tubi d’acciaio che servono alle grandi caldaie. Di fatto, è la risposta ad una vaga minaccia della UE di aprire un’inchiesta sul dumping cinese nel settore dei pannelli fotovoltaici e suoi apparati connessi. I commissari eurocratici – quelli stessi così profondamente impegnati ad imporre austerità ai 27 milioni di disoccupati europei – si sono accorti che non solo la Cina è leader mondiale di mercato di pannelli fotovoltaici, ma che ne venda il 60% in Europa; e li vende sottocosto, perché profitta dei ricchi sussidi che la UE e i governi vassalli regalano a questa produzione di energia supposta «ecologica» (stranamente Pechino, la città più fumigante del pianeta, non adotta il fotovoltaico...). Su questi sussidi si dovrebbe aprire un capitolo: le spietate leggi del mercato e della concorrenza, da tutti predicate, qui non si applicano: si favorisce un prodotto che non è competitivo, perché piace ai «verdi». Ma di ciò un’altra volta.

Constatato che Pechino intasca dai prodotti fotovoltaici che svende in Europa 38,5 miliardi di dollari, la Commissione Europea ha aperto un’inchiesta per appurare se per caso i grassi sussidi pagati dai contribuenti europei per l’anti-economico settore, non vadano tutti a finire in Cina, affossando simultaneamente l’industria del fotovoltaico in Europa. Ma senza fretta. «L’inchiesta durerà 15 mesi, ma potremo prendere provvedimenti di difesa commerciale fra nove mesi, se le prove saranno sufficienti», fanno sapere da Bruxelles. (Solaire: les fabricants chinois visés par une enquête européenne antidumping)

Il regime cinese invece è stato rapidissimo nella ritorsione. Come sempre: la Cina è il campione della globalizzazione e del libero commercio, finché ne profitta (e ne ha profittato enormemente), ma non esita a proteggere la propria industria nazionale, violando le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) – l’organo-poliziotto che giudica e reprime i tentativi di protezionismo. Gli anglo-americani hanno fortemente voluto la Cina nel WTO, in nome appunto del libero scambio senza dazi; ciò ha de-industrializzato USA ed Europa, e industrializzato la Cina. Ci hanno sempre vantato i benefici della globalizzazione, senza rispondere alla domanda: perché ammettere nel mercato globale Paesi che praticano il protezionismo? Si è visto poi chi se ne avvantaggiava: le grandi corporation che approfittano di un costo del lavoro cinese dieci volte inferiore a quello dei Paesi sviluppati. È stato questo ad aver creato da prima la «macchina per concentrare ricchezza in alto» (nelle mani dell’1% straricco), che è diventato il capitalismo terminale.

Adesso, alcuni economisti americani, della Federal Reserve e di Yale, hanno dimostrato in un loro studio che l’aver ammesso la Cina nel WTO (e dunque nel libero scambio senza dazi) è costato agli USA quasi il 30% dei posti di lavoro industriali dal 2000 ad oggi. Si tratta non solo di posti di lavoro perduti (-20%), di posti di lavoro non creati (10%) e che ci si sarebbe potuti aspettare senza gli accordi con la Cina. (Study: Freer trade with China cut manufacturing employment by almost a third)

Non c’è dubbio che lo stesso tasso di perdite di lavoro (o peggiore) travaglia l’Europa, per le stesse ragioni. Bruxelles non ha ancora preso atto delle conclusioni americane. Eppure, proprio qui in Europa, c’è stato chi non ha certo atteso gli studi degli «esperti» di Yale e della Federal Reserve per spiegare che il liberismo cieco portava alla distruzione economica e sociale. Quell’uomo si chiamava Maurice Allais (1911-2010), francese, fisico, ingegnere e premio Nobel per l’Economia nel 1988. E il suo allarme fu assai precoce: risale alla metà degli anni ‘70. Vale la pena di rievocare i fatti.

Da economista liberale quale allora era, Allais si rese conto a partire dal 1974 di una forte discontinuità dell’economia francese: la disoccupazione, che prima era sotto i 600 mila, sale a tre milioni. L’occupazione industriale, che nel ‘74 contava in Francia 6 milioni di addetti, cala rapidamente del 25%. Negli anni Novanta, solo il 16% della popolazione attiva, rispetto al 28% dei primi anni ‘70, è impiegato nell’industria. In compenso salgono i lavori marginali e precari: fino a 6 milioni, secondo i dati ufficiali.

Come scrisse Allais in un saggio pubblicato nel 1999 (Maurice Allais, «La mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance», Clément Juglar),

«Il 1974 appare come l’anno di rottura fra il periodo di prosperità continua 1950-74 e il periodo 1974-97 segnato da una crescita massiccia della disoccupazione, un calo notevole degli addetti industriali, e una forte riduzione della crescita».

Nota anche che il fenomeno non è specificamente francese ma tocca l’insieme della Unione Europea, che conosce all’incirca la stessa deriva, al contrario degli Stati Uniti di allora: era dunque una particolarità europea.

La crisi veniva allora spiegata dal pensiero egemone con la crisi petrolifera (il forte rincaro del greggio decretato dall’OPEC, il cartello del petrolio). Maurice Allais rifiuta questa spiegazione. Per lui, la vera causa è «la politica, attuata da Bruxelles a partire dal 1974, di liberalizzazione mondialista degli scambi esteri (...) i cui effetti sono aggravati dalla dislocazione del sistema monetario internazionale e l’instaurazione generalizzata del sistema di tassi fluttuanti». Sottolineò già allora che mettere in competizione i nostri salariati, che prendono fino a 20 volte di più, con i lavoratori dei Paesi emergenti, non può che condurre a una massiccia ondata di disoccupazione, dal momento che «un calo drastico delle paghe non è né possibile né desiderabile».

Un ragionamento di buonsenso: ma come si sa, non basta a convincere gli economisti di cattedra. Occorre una formula matematica, di quelle che loro amano, pensa Maurice Allais. Egli costruisce un modello matematico per spiegare le variazioni del tasso di disoccupazione. Egli presuppone quattro motivi principali: disoccupazione strutturale (dovuta a un costo troppo elevato del lavoro in rapporto alla produttività), disoccupazione dovuta a innovazioni tecnologiche, disoccupazione congiunturale, e disoccupazione dovuta al libero-scambio. Il modello, sviluppato nel 1994, sarà in grado di prevedere esattamente l’evoluzione della crisi occupazionale dei quattro anni seguenti, comprovando al sua attendibilità. Per farla breve, il modello di Allais conclude che il 30% del sotto-impiego per il periodo 1995-97 è sì strutturale (scarsa produttività rispetto al costo), ma per il 61% è dovuto al libero scambio.

«I Paesi a basso salario sono oggi abitati da miliardi di uomini e la loro competizione in un mondo di libero-scambio non può che portare inesorabilmente, nei Paesi sviluppati, che a un livellamento dei salari verso il basso e a una esplosione di disoccupazione e precarietà del lavoro (sous-emploi)».

Ma perchéè gli Stati Uniti conoscevano una evoluzione (allora) meno drammatica? Semplice, risponde: perché i governi «USA hanno scelto la via della regressione salariale, mentre l’Europa ha preferito la disoccupazione di massa». Come dimostra un libro allora uscito di un economista americano, Adrian Wood, che mostrava come il commercio mondiale libero aveva penalizzato duramente i lavoratori americani poco qualificati, appunto in concorrenza diretta coi non-qualificati cinesi pagati 20 volte meno. Ma quello americano era un «vantaggio» temporaneo: ben presto, la concorrenza salariale si è estesa ai lavori qualificati, fino ai più alti.

Tant’è vero che oggi, nemmeno i super-laureati di Harvard e di Princeton o Yale riescono a pagare, con i salari post-crisi che ricevono per il loro PhD, i prestiti che hanno ricevuto dalle banche per conseguire la laurea nelle costosissime e pregiatissime università: 24 mila dollari in media. Molti hanno fatto default, cessando di pagare il debito; e siccome le banche avevano «cartolarizzato» i prestiti studenteschi (ossia li avevano trasformati in titoli che avevano spacciato ad altri come «sicuri», contando che gli studenti con lauree di prestigio sarebbero diventati ricchi debitori, e dunque i titoli davano un interesse certo), oggi sta scoppiando la bolla studentesca: gigantesca (mille miliardi ) come quella dei mutui sub-prime. L’America scopre ora che ci sono non solo proprietari di case sub-prime, ma anche lauree sub-prime, ossia che costano più di quel che rendono... Ma la causa è sempre una: la competizione con iper-laureati, poniamo, indiani, che s’accontentano di meno. (La bolla universitaria)

Fatto sta che Maurice Allais comincia a raccomandare dagli anni ‘80 che l’Europa adotti «la preferenza comunitaria», ossia protegga i beni prodotti all’interno del vasto mercato europeo ma non quelli prodotti fuori. «Il vero fondamento del protezionismo, la sua primaria giustificazione e maggiore necessità, è la protezione indispensabile contro i disordini e le difficoltà di ogni sorta generati da tutti i mal-funzionamenti dell’economia mondiale», scrive.

«La liberalizzazione degli scambi non vale che all’interno di associazioni regionali, dotate di mercati comuni instaurati in quadri politici comuni. È nell’interesse di ogni associazione regionale proteggersi di fronte ad altre, per mantenere attività industriali la cui scomparsa – giustificata da circostanze del tutto temporanee – si rivelerebbe in avvenire fondamentalmente nociva».

Profezia nella profezia: i vantaggi che le multinazionali hanno perseguito delocalizzando in Cina ed India si rivelano del tutto temporanei, sia perché i salari stanno là velocemente crescendo, sia perché hanno ceduto know-how che i cinesi sono stati lesti a copiare, facendo concorrenza sleale alle grandi corporation. In USA, si nota persino una certa tendenza alla reindustrializzazione, ossia a rimpatriare i lavori espatriati in Cina e India (specialmente nell’India che ha troppe altre inefficienze). In Europa, i cervelli eurocratici non hanno ancora preso atto; come mostra l’azione del tecnico Monti da loro imbeccato, stanno praticando adesso (col solito ritardo culturale e mentale), la strada della regressione salariale già praticata invano in USA, dopo aver provato la disoccupazione di massa con gli esiti che vediamo sotto gli occhi: una grande depressione ed esplosione dei debiti pubblici dei Paesi che l’austerità doveva rimettere in riga.

Risultato: in pochi mesi, sono saliti a 27 milioni i disoccupati e «scoraggiati» in Europa. Una epocale tragedia di massa di cui Mario Draghi (probabilmente a nome dei rettiliani) ha appena dichiarato che si lava le mani, perché «non c’è molto che la politica monetaria possa fare», visto che la disoccupazione in Europa è secondo lui «strutturale», ossia dovuta a produttività scarsa rispetto al costo del lavoro. (Mario Draghi has saved the rich, now he must save the poor)

Come abbiamo visto, un Premio Nobel di nome Maurice Allais ha già smentito questa diagnosi, auto-assolutoria dei poteri finanziari, dal 1994. Inascoltato già allora dai politici e media francesi, e sì che di premi Nobel in Francia non ne esistono poi tanti.

Oggi, a governare sono ideologi anti-nazionali che si cooptano fra loro, ed escludono accuratamente i cervelli – perché i cervelli sono pericolosamente «competitivi» per le loro poltrone. Draghi ha dato tutto alle banche, «strutturalmente» insolventi, con un prestito di un trilione di euro all’1%, ed ora nega agli Stati prestiti all’1% per un programma di rilancio economico. L’euro deve restare forte. I debiti pubblici vanno mantenuti e serviti, e bisogna rientrare dal debito a tutti i costi (1). E la globalizzazione deve continuare.

Fino alla morte, la Grecia insegna




1) Si sarà notato che il premier del Giappone Shinzo Abe, trovandosi con un debito pubblico pari al 220% del colossale PIL, invece che rientrare dal debito, ha deciso di farne ancora un altro po’, per rilanciare l’economia a forza di spesa pubblica. Insomma, chiede altri denari ai famosi mercati. «E come avrà reagito il mercato alla terribile notizia che il debitore pubblico più grande del mondo continua a spendere? Bene. «I bond giapponesi sono rimasti stabili, con il benchmark a 10 anni del governo giapponese al tasso dello 0,83%». Il mercato vuole crescita. Quella che non si ha in Europa (...). Che strano. Pensavamo che i mercati quando il debito su PIL è alto e si annuncia più spesa per investimenti entrassero in una crisi di panico. Che non sia così? (Professor Gustavo Piga, nel suo blog). Ecco cosa significa avere un governante politico che sa usare la sovranità monetaria, invece di un «tecnico» imposto dai creditori.


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