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Inconscio e peccato
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«A due ulteriori e contrastanti ricadute della dottrina agostiniana si può sommariamente accennare. Una la si intravede, per opposizione, nella filosofia illuminista e più ancora nel positivismo. Puntando sulla perfettibilità della natura umana, sullideale di continuo progresso, queste correnti di pensiero non poterono che rifiutare il pessimismo agostiniano. Laltra, la scorgiamo in controluce nella scoperta fatta da Freud di unoscura zona della personalità che sannida al fondo del nostro animo, sottratta al controllo consapevole e che il medico viennese battezzò inconscio’. Forse Agostino è stato il primo a intravedere il torbido magma che sannida nel cuore di ogni essere umano. Che lui labbia chiamato peccato e Freud inconscio cambia di poco la sostanza delle cose (Corrado Augias - Remo Cacitti, ‘Inchiesta sul Cristianesimo’, pagine 231-232)».

Il fatto che sarebbe rimasta qui la valutazione di analogia peccato/inconscio, considerato un fatto non controverso, è in realtà la base dell’errore scientista della psicanalisi. Il postulato di fondo relativo alla scoperta del cosiddetto inconscio (o Es, per usare terminologia freudiana o nietzscheiana) ed alla possibilità di radicare in esso i processi latenti ed inconsapevoli, ma vivi, che si esternano attraverso manifestazioni nevrotiche di vario genere, porta a ben vedere all’azzeramento di ogni valorizzazione etica della vita.

Il male non esiste in sé, il peccato tanto meno, si determinano soltanto meccanismi compensativi di riparazione tra il proprio sé ed il mondo esterno (super-io o come si voglia definirlo), determinati da quell’istinto di sopravvivenza, libido (pulsione) che tende, al fine di scaricare le tensioni nascoste, al massimo piacere, nel ritorno, però, della perenne insoddisfazione umana («frastuono delleros»), a sua volta compensato dalla cosiddetta pulsione di morte (stando all’ultimo Freud), tendenza allo stato inorganico (principio del Nirvana), uno stato di costanza in cui cessano tutte le tensioni dell’uomo.

L’essere umano, così come appare agli occhi della psicanalisi (malgrado il superamento delle conclusioni del suo inventore), è individuo essenzialmente vulnerabile a patologie imposte dalle convenzioni esterne. Il peccato non si identifica con un evento cattivo (ossia contrario al sommo Bene e perciò stesso capace di innescare nel suo artefice un circolo vizioso di prigionia alla continua erronea, e perciò inutile e senza tregua, ricerca del Bene rifiutato e perduto), quanto piuttosto in una dicotomia tra l’essere ed il dover essere (imposto dalla legge morale esterna, coincidente con le sovrastrutture famigliari, o sociali in genere, se seguiamo l’impostazione marxiana di Fromm).

Come accadde già con la psicologia di Nietzsche, una psicologia del profondo, intesa come signora di tutte le scienze, unica strada per i problemi fondamentali della vita, il vero protagonista dell’esistenza non è la coscienza personale (il proprio io), ma il Sé interno ed occulto, l’Es, dominatore tiranno delle decisioni e determinazioni, frutto della dialettica fondamentale di hegeliana memoria, che materialisticamente e quasi meccanicamente annulla ogni trascendenza.

In quest’ottica il cristianesimo e la sua morale sono nichilismo passivo e morte dell’anima. Il filosofo citato (Nietzsche) viene completamente assorbito da Freud, che ne condividerà appieno le conclusioni. Ne La morale sessuale civile e la nervosità moderna (1908), e nelle Cinque conferenze sulla psicoanalisi (1909), si trova questo brano, che ci ricorda la concezione nietzschiana dei cristiani nevrotici ed esauriti: «La nevrosi sostituisce nella nostra epoca il convento nel quale solevano ritirarsi tutte le persone che la vita aveva deluso o che si sentivano troppo deboli per affrontarla».

Freud pensa di poter portare la coscienza dell’umanità verso una nuova era (postcristiana). La finalità della psicoanalisi è infatti far riaffiorare nella coscienza il crimine originale (l’uccisione del Padre, espiata dalla morte del Figlio, secondo la legge del taglione;espiazione che porta alla sostituzione del Padre con il Figlio e del perpetuarsi del parricidio attraverso la consumazione dell’Eucaristia), non però nella maniera proposta dal cristianesimo, nelle pieghe del quale tale verità apparirebbe sotto forma di sintomo e di allucinazione, ma ad un livello superiore, in cui la psicoanalisi supera il cristianesimo, perché, si eviterebbe, attraverso il raggiungimento della consapevolezza, il ritorno del rimosso, foriero di sintomi nevrotici ossessivi, rilevabili soprattutto nella celebrazione degli atti liturgici; questa operazione consentirebbe di portare a compimento la morte di Dio nella coscienza.

In Jung è possibile rinvenire ancora più forte l’influenza del monismo di matrice cabalistica presente in Nietzsche. Il cosiddetto «processo dindividuazione», terapia utile, secondo Jung  a superare l’io cosciente, aspetto limitato di una realtà più ampia (analogamente a quel che accade tra l’Ātman indiano rispetto al Brahman, se volete), definito (Selbst), raffigurato mediante «limmagine archetipica» della quaternità, (come superamento della Trinità, sommità del bene, al di là di cui vi è il male: sembra un po’ il paradosso orientale dell’essere/non-essere, che tanto piacque a Guenon) sintesi degli opposti; anche per Jung, come per Freud, l’io è sottomesso a forze possenti e autonome nascoste nell’inconscio.

Percepire contemporaneamente la propria ombra e la propria luce, è l’unico modo per raggiungere il centro: la contemplazione degli opposti che rivela all’uomo il carattere illusorio del reale. L’introspezione ci fa dunque arrivare all’assunzione dellinconscio nel conscio, unione di razionale ed irrazionale, di bene e di male, unica vera possibilità per avere consapevolezza del reale, passando per la malattia della cattiva coscienza (a ciò sarebbe ostacolo imperioso l’avvalersi della confessione cattolica): vale a dire redenzione che passa per il peccato.

Il carattere soprannaturale della vita cristiana viene relegato, agli occhi della psicoanalisi, a fenomeno sempre potenzialmente patologico, proprio in vista del carattere utopistico delle richieste evangeliche (in particolare quelle relative all’amore verso il prossimo e alla vita sessuale), le quali innescherebbero un senso di frustrazione permanente che sfocia in nevrosi.

Anche agli occhi del tanto amato Fromm (il quale pretendeva di insegnare Larte di amare, prescindendo dalla Grazia divina), una religione che si ritenga depositaria dell’unica Verità deve ritenersi un fenomeno di narcisismo collettivo (confronta E. Fromm, «Grandezza e limiti del pensiero di Freud»).

L’errore di fondo, come anticipato in premessa, consiste nell’adulterazione del concetto di inconscio. La Tradizione cristiana e la Sacra Scrittura ci parlano del cuore, insegnando le verità profonde sottese alle vibrazioni esistenziali dello stesso. L’evidente lacerazione interiore dell’essere umano, diviso in se stesso, al punto da manifestare questa scissione estrema tra corpo ed anima al momento della morte (e comunque con lo sperimentare costante sulla propria pelle del principio di entropia), è un’evidenza nota sin dal racconto di Genesi 3.

Il peccato fa entrare nel mondo separazione/dicotomia tra Dio e l’uomo (Dove sei?) e tra l’uomo e la donna (la donna che mi hai posto accanto…); tra questi ed il creato (cacciata dall’Eden). La divaricazione esistenziale della molteplicità è Babele dello spirito: moltiplicazione dei pensieri, logismoi, separazione tra mente e cuore, razionalità dispersiva e non spiritualizzata.

Qui si presenta oltremodo necessaria la pratica di una preghiera interiore, possibilmente continua (invocazione al Nome di Gesù, per esempio). Attraverso di essa, infatti, è possibile aprire uno spazio tra il nostro io freudiano ed i nostri pensieri automatici (strettamente correlati con il nostro Es), perché possa operarsi il setaccio e la trasformazione interiore del cuore.

Questo processo di guarigione generato dalla Grazia dello Spirito provoca la vera inabitazione della Divina Trinità nell’anima: il nous viene gradatamente liberato dal male (primariamente interiore e secondariamente anche fisico, se vi è fede totale, e se questo, secondo la volontà di Dio, è il meglio per l’anima: se la conversione è autentica di solito è così, a meno che l’anima non si sia offerta vittima di espiazione con Cristo Gesù), la sua percezione si affina, e diviene meno turbata e meno dispersa, avvicinandosi all’impassibilità totale. Iniziamo ad acquisire «il nous di Cristo» (1Corinti 2:16), rinnovando radicalmente la nostra mente.

Questo è il percorso di guarigione totale che la psicoanalisi non può conoscere ed al quale non può accedere; esso parte da un presupposto fondamentale: debbo riconoscermi peccatore. Non esiste un inconscio occulto che resista a tale manifestazione di umiltà. Il cristiano che vede, senza bluffare, alla luce del Vangelo e dell’insegnamento perenne della Chiesa, la propria povertà, i propri limiti, i propri errori, è immune da nevrosi o frustrazioni e riesce perfino a vincere la subdola tentazione narcisista.

Questa è la vera vittoria: dominare se stessi, senza avere dicotomie interiori, ma vivendo in perfetta coincidenza tra l’essere, il voler essere ed il dover essere.

«frate Leone, scrivilo, questa è la perfetta letizia. Ascolta frate Leone: dominare se stessi e accettare di buon grado, per amore del Redentore, rimproveri, punizioni e sofferenze è il dono più grande e il massimo beneficio spirituale che Dio possa concedere ai suoi fedeli (da I Fioretti di San Francesco)».

Stefano Maria Chiari



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