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Poteva essere la Fortezza Europa
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«Mentre le cattive notizie sulla crisi in Europa fanno i titoloni sui media americani, essi tacciono alcuni fatti: lUnione Europea, 27 Stati membri con mezzo miliardo di persone, è il più grande e ricco blocco economico del mondo. Produce circa un terzo delleconomia mondiale, quasi pari a USA e Cina messe insieme. LEuropa ha più aziende nella lista di Fortune 500 che USA, Cina o Giappone».

E’ una citazione da Thomas Geoghegan, avvocato del lavoro americano, con laurea in diritto ad Harvard, membro del partito democratico (si oppose a Rahm Emmanuel nelle primarie democratiche di Chicago, restando sconfitto). E’ l’autore di un saggio Were You Born on the Wrong Continent? (Siete nati nel Continente sbagliato?) dove ricorda agli americani alcune verità che anche noi europei dovremmo tenere a mente.

Thomas Geoghegan
   Thomas Geoghegan
Gli Stati europei spendono molto meno degli Stati Uniti per la sanità pubblica, danno assistenza sanitaria gratuita a tutti i cittadini (al contrario del sistema americano) e le prestazioni sanitarie sono regolarmente indicate ai primi posti nella graduatoria dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, mentre il sistema americano gestito da assicurazioni private (la riforma Obama non ha fatto che rendere obbligatoria l’assicurazione sanitaria) si situa al 37° posto nella graduatoria.

Nel consumo di energia, l’Europa è il doppio più efficiente rispetto agli USA, e la sua orma ecologica (ecological footprint, la quantità di risorse terrestri che una popolazione consuma) è la metà di quella americana, nonostante il livello di vita dei due blocchi sia praticamente uguale, e l’Europa sia ancora piena di industrie.

Il lavoratore americano, almeno prima della recessione, lavorava 1.804 ore l’anno (con punte di 2.300), mentre il lavoratore tedesco lavora(va) 1.436 ore l’anno: l’equivalente di nove settimane da 40 ore in meno all’anno. E tuttavia la Germania rivaleggia con la Cina come grande esportatore industriale. In USA, le pensioni medie non raggiungono il 39% dello stipendio, in Germania il 67%, ed anche se questa percentuale sta crescendo, i cittadini tedeschi ed europei in generale hanno notevoli risparmi in banca a fare da ammortizatori, il che non è certo il caso per gli americani, stra-indebitati.

Nel complesso, l’Europa è stata meno pronta degli USA a delocalizzare le produzioni in Cina e India, ed ora risulta meno deindustrializzata dell’America: un asso nella manica nella crisi attuale. Gli Stati europei hanno reagito alla crisi con provvidenze intese a mantenere i lavoratori nei posti di lavoro (casse integrazione, minori ore lavorate) evitandone il licenziamento immediato che è la pratica comune negli USA. Risultato, una minore disoccupazione e segni di ripresa economica, assenti in USA dove i disoccupati sono una piaga sociale, e vivono sotto le tende. In Europa, uno studente che si vuol laureare in una buona università non deve accendere un debito di 50 mila dollari – che poi pagherà per il resto della vita, riducendo il suo standard vitale – perchè le università sono gratuite o semi-gratuite. Eccetera, eccetera. (Why Germany Has It So Good -- and Why America Is Going Down the Drain)

Certo, c’è molto di idealizzato in questo ritratto d’Europa. Ma se l’Europa non è del tutto così, o non è più così, è precisamente nella misura in cui i suoi poteri forti eurocratici l’hanno voluta sciogliere nella competizione globale, coordinati dai poteri forti americani. Invece di farne la Fortezza Europa che potevamo essere, l’hanno esposta alla concorrenza cinese, e le sue banche si sono date alla finanza speculativa americana.

« Lapertura totale degli scambi con Paesi a salari bassissimi e con una produttività media che aumenta più di quella europea», hanno scritto il demografo e storico Emmanuel Todd e il banchiere Hakim El Karoui (francesi entrambi) «ha trascinato continuamente verso il basso i salari europei» negli ultimi 20 anni, proprio come quelli americani. Per contro la libera circolazione dei capitali (su cui un tempo l’Europa manteneva un controllo pubblico) alla ricerca per di più di altissimi rendimenti, «ha spinto le imprese a delocalizzare nei Paesi a bassi salari ed alta crescita. Questa è la vera causa della crisi, quella taciuta, che oggi compare brutalmente nella sua espressione finanziaria». (L'Europe, la burqa et la crise)

In che senso? I mercati a cui ci si è stoltamente affidati non prestano più volentieri agli Stati europei. E’ cresciuto enormemente il debito pubblico e quello privato, in questi anni, ma per un motivo preciso: compensare la stagnazione dei salari delle classi medie e popolari europee. Non ti aumentiamo lo stipendio, ma in compenso ti facciamo credito per comprarti l’auto, la vacanza alle Maldive, la casa che non ti puoi più permettere. E’ lo stesso per te, lavoratore europeo.

Non è lo stesso, perchè sul debito pubblico e privato si pagano interessi. E quegli interessi divorano la crescita; si produce e si lavora, in sempre più gran parte, non per aumentare il benessere, ma per le banche. Proprio come gli americani.

In Italia, come viene ripetuto, l’indebitamento della famiglie è basso rispetto agli altri Paesi europei. Basso sì, fino a un certo punto: ma sono 610 i miliardi di debiti delle famiglie italiane. Di cui 479 miliardi solo per i mutui-casa: l’interesse che le famiglie pagano su questo colossale pseudo-investimento screma l’1,4% del prodotto interno lordo. Il credito al consumo screma anche di più, quasi il doppio.

Persino nel 2010 di crisi, secondo l’Istat, gli italiani hanno fatto nuovi debiti al consumo per 110 miliardi di euro. Il che significa (gli interessi qui sono più alti) che ogni anno le famiglie pagano alle banche 35 miliardi di interessi. Soldi sottratti alla cosiddetta crescita. In tutto, la scrematura per i debiti privati taglia il 4% del prodotto interno.

E l’Italia sta bene in confronto agli altri, i debiti delle famiglie solo solo il 39 % del PIL; pensate alla Francia, con il 50% del PIL, ai tedeschi indebitati dal 60% del loro gigantesco PIL, agli inglesi, i più americani di tutti, con debiti privati pari al 100 % del PIL.

Ecco perchè le banche si arricchiscono su popolazioni che impoveriscono, ecco uno dei motivi per cui non possiamo competere coi cinesi (che, al contrario, risparmiano il 30% del loro reddito). Ecco da dove viene l’atonia dei consumi interni europei, che aggrava la crisi. E per giunta, i mercati ora fanno i difficili, non prestano più volentieri.

E nella logica americana e globale hanno pure ragione, perchè vedono che l’Europa non ha un progetto d’uscita dalla crisi, non avrà crescita forte nel futuro prevedibile. Esigono un rientro immediato dai debiti, politiche di rigore essenzialmente sui salari: e i poteri forti eurocratici obbediscono, sostenuti per di più dalla Germania che si è data a competere con la Cina come esportatore globale, dell’Europa se ne infischia, e non vuol pagare per le cicale del Club Med. Ovviamente, il rigore decretato in Eurocrazia non farà che rendere la recessione eurpea «non più lunga, ma senza fine», dice Emmanuel Todd.

Eppure, aggiunge, la soluzione è lì da vedere: il blocco continentale con 500 milioni di consumatori-lavoratori, con un buon potere d’acquisto (nonostante tutto) con ancora una quantità di industrie di tutto rispetto, che ancora produce quasi come Cina e USA messi insieme, ha ancora un buon margine di autosufficienza. Potrebbe ancora diventare la Fortezza Europa. Con «una regolamentazione continentale degli scambi commerciali attraverso un protezionismo ragionevole», dice Todd (per pagare i telefonini made in Taiwan e le valigie Made in China un po’ meno, ci giochiamo il lavoro e il futuro di figli e nipoti) per aumentare i salari e la domanda interna continentale. Un controllo pubblico sull’euro, esattamente come fa la Cina sulla sua moneta, che manipola per rendere concorrenziali le sue esportazioni. Il protezionismo aggressivo e predatorio della Cina è condonato dal consenso globale dei poteri forti globali; un tentativo europeo di protezionismo ragionevole avrebbe contro tutti, banchieri centrali, mercati, speculatori, ed anche Berlino.

Le banche non vogliono perdere la scrematura che estraggono dal lavoratore-consumatore indebitato, anche se ciò taglia il ramo su cui sono sedute. Le aziende vogliono che i consumatori abbiano credito per vendergli ciò che non si può permettere, anche se questo soffoca il loro futuro. La Germania sorvola sul fatto che il 63% del suo commercio estero è rappresentato dagli scambi con l’Europa, e vuole conquistare il mercato-mondo, con un euro che si rafforza sempre più e stroncherà le sue ambizioni globali. Tutti poi vogliono l’Europa aperta e liquida, perchè sperano un giorno a l’altro nell’apertura del grande mercato del consumo cinese.

Queste è l’illusione delle illusioni globali.

Da due anni, la Cina (per dirigismo di Stato) ha scelto di dedicare tutto all’investimento in beni capitali (fabbriche, immobili) a detrimento dei consumi interni. Nel 2008, la formazione di capitale fisso (ossia di investimenti industriali) in Cina ha rappresentato il 70% della crescita, nel primo semestre del 2009 il 90%, mentre nel periodo di boom precedente alla crisi le altre economie emergenti come la Cina hanno dedicato agli investimenti industriali il 35-45%. Il che significa che la Cina produce sempre più in un mondo che ha meno sbocchi per i suoi prodotti (causa crisi in USA ed EU, suoi clienti tradizionali) e corre sull’orlo di una crisi di sovrapproduzione.

Anzi, peggio: ha insistito, aprendo a tutto spiano i rubinetti del credito, sovvenzionando ogni tipo d’investimenti. L’espansione del credito (per ordine di Stato) è stata del 32% in Cina nel 2009, e nell’aprile del 2010, è ancora aumentato del 22%. La redditività degli ultimi investimenti è dimezzata: ci vuole più capitale per avere lo stesso rendimento di prima. Ciò prelude nei prossimi anni a una catena di fallimenti di imprese cinesi poco redditizie (anche per mancanza di sbocchi) una pressione al ribasso sui salari per acquistare competitività in mercati dove i consumi sono comunque calati, un rallentamento della crescita con possibile reessione.

La Cina insomma ha fatto il contrario di USA ed Europa, ma come in un’immagine allo specchio: nella stessa logica globale, con la stessa espansione del credito – USA ed Europa per finanziare super- consumi, Cina per finanziare una sovrapproduzione. Il rischio è che le due crisi, di Cina e Occidente, entrino adesso in risonanza, aggravandosi l’una con l’altra. Deflazione e pressione sui salari possono congiungersi e rafforarsi a vicenda: amara conclusione del globalismo. (La Chine (2009-2010), autre forme de fuite en avant sur un plan économique)

L’Europa-fortezza potrebbe in parte escluderci da questo esito. Ma per far ciò, occorrerebbe volontà e lucidità politica, e una cooperazione fra governi che non si vede all’orizzonte. Anzi.

Uno dei guru del Financial Times, Wolfgang Munchau, raccomanda come successore a Trichet alla poltrona della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. E’ ovvio, i globalisti lo apprezzano fin dai tempi in cui, funzionario del Tesoro, salì sul Britannia per svendere le imprese pubbliche italiane ai poteri finanziari globali. Goldman Sachs lo conosce come dipendente di prestigio. Con lui, nessuna fortezza e nessun dirigismo sociale. I media italiani, 24Ore in testa, si esaltano: allestero danno ragione a Draghi, il nemico di Tremonti...

Thomas Geoghegan
   Maurice Allais
E’ morto, all’età di 99 anni, Maurice Allais, il solo Nobel francese per l’Economia. L’ho intervistato, anni fa. Era quasi la sola voce che si opponeva autorevolmente alla globalizzazione che metteva in concorrenza salari europei e cinesi, si era battuto invano per mantenere la «preferenza comunitaria», il germe possibile di una Fortezza Europa. Propugnava un «protezionismo illuminato». Nel 2007 aveva scritto un sagggio dal titolo inequivocabile: La Mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance, La Mondializzazione, distruzione dei posti di lavoro e della crescita.

I politici francesi ne salutano il feretro con parole alate: il loro Nobel nazionale! Di fatto, da quando aveva espresso le sue posizioni antiglobaliste, nessuno lo invitava più in TV nei dibattiti. Era diventato una non-persona.



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