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Rieducare le maestre
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Un nostro lettore ci scrive:

«Gentilissimo Direttore,

mio figlio comincia l’avventura della scuola elementare. Dico avventura non a caso perchè l’inizio fa ben sperare...
I° ATTO: Qualche mese fa prima riunione con i genitori e i docenti. Un’intera mattina passata a sentirsi raccontare di come la riforma Gelmini peserà sulla crescita dei nostri ragazzi, di quante attività saranno tagliate per la riduzione degli organici, di quanto sia terribile il maestro unico. Siamo nella rossa Emilia, ma al termine della riunione ho capito davvero poco su quello che aspetta mio figlio.
II° ATTO: due giorni fa mia moglie assiste alla riunione che precede l’inizio delle lezioni. Anche qui tanta politica, tanta ideologia, tanto terrorismo sul maestro unico (mio figlio ne avrà almeno tre) e sulla fine del tempo pieno decretato dalla riforma Gelmini (tempo pieno che si farà regolarmente). Dulcis in fundo viene detto a chi, come noi, aveva optato per le 27 ore anzichè le 30, che così i nostri figli cresceranno diversi dagli altri, avranno meno possibilità di imparare, forse saranno discriminati.  Sì, saranno discriminati. Ma dai maestri stessi, che fanno di tutto per far aderire alle 30 ore. Alla fine rimaniamo gli unici a chiedere le 27 ore. Dopo breve resistenza capitoliamo a nostra volta, non senza aver espresso il nostro disappunto. Mi chiedo perchè non ci sia stata data la possibilità di fruire di un orario, previsto dal piano formativo e dalle leggi in materia? Sorge un’altra domanda a conclusione di tutta la vicenda:  E’ questa la libertà che propaganda la sinistra o come diceva Orwell "Gli animali sono tutti uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri"

Sarà davvero unavventura...

Cari saluti

F. Taddia»


Ringrazio il lettore per la sua testimonianza di prima mano: vediamo così «dal vivo» una casta inadempiente che difende con i denti i suoi nudi interessi corporativi, con arroganza ottusa, esercitando il suo potere miserevole sui più deboli – in questo caso i genitori – su cui esercitano argomenti ricattatori: per la riforma Gelmini «è in pericolo la crescita dei ragazzi», se non vedono l’insegnante per tre ore «cresceranno diversi dagli altri», «saranno discriminati»...

Crescere i ragazzi «diversi dagli altri», ossia meno conformisti, dovrebbe essere un fine dell’educazione; badare che «non siano discriminati» dovrebbe essere il compito degli insegnanti. Quanto alla minore «possibilità d’imparare» con 27 ore settimanali anzichè 30, tranquilli: nelle scuole italiane non si impara niente, come risulta da tutte le indagini internazionali.

Di fronte a questo atteggiamento, bisogna ripeterlo con fermezza: i maestri elementari, gli insegnanti come corpo (ossia salvo eccezioni) sono colpevoli del degrado della scuola italiana, sono loro che sfornano non solo analfabeti e ignoranti, ma bulletti, maleducati e viscidi vigliacchi in erba. In questi decenni del loro potere sindacalizzato, hanno dato un contributo decisivo alla inciviltà italiana.

E’ necessario ripeterlo, perchè questa resistenza sorda e ribellione aperta della casta delle maestre alla riforma Gelmini – anzi ad ogni riforma tentata da trent’anni – che cosa vuol dire, nel fondo? Che hanno preso possesso di un apparato pubblico come «cosa nostra», e lo manovrano non al servizio della popolazione, ma al servizio loro, degli insegnanti. Che  vogliono continuare a fare quello che sanno fare già (che è quasi nulla), senza cambiare nulla, perchè costa loro uno sforzo. Che non vogliono essere messi in discussione, nonostante i loro risultati fallimentari; non si riconoscono alcuna responsabilità verso la comunità nè verso se stessi. Per loro, tutto va bene così com’è, ossia disastrosamente, e loro sono solo vittime.

I tre insegnanti per classe sono una schifezza particolarmente ripugnante, perchè mentre serve solo a pagare tre stipendi, viene contrabbandanta con pretesti pedagogici. I risultati dicono il contrario. Ed è logico: con tre insegnanti per classe, ciascuno di loro si scarica della responsabilità complessiva, ossia della formazione – e soprattutto della formazione dei caratteri. Che importa a loro? Ciascuno di loro è lì per insegnare la sua materia...

Ma quali materie, per favore? Alle elementari, i saperi da trasferire ai ragazzini sono mediocri, se non minimi; un po’ di geografia, pillole di storia, l’aritmetica, un minimo d’italiano. Gli insegnanti elementari, per lo più, trasmettono i luoghi comuni dell’epoca – il patrottismo risorgimentale la maestrina della penna rossa di De Amicis, il culto dello stato e l’orgoglio nazionale quelli del fascismo, oggi i luoghi comuni racimolati a casaccio dai rotocalchi, dala TV, e dai giornali della «sinistra», l’Espresso e Il Manifesto che sono la «formazione» degli insegnanti d’oggi.

A quanto mi dicono parecchie mamme, per esempio, le maestre d’oggi parlano molto dei «dinosauri» e dell’uomo «che discende dalla scimmia», nel senso che impartiscono un evoluzionismo da quattro soldi, di cui loro stesse sanno poco, e senza rigore.

Lo sanno benissimo, che il loro mestiere richiede conoscenze modeste, per non dire mediocri. Perciò, in perfetta malafede, in combutta coi loro referenti sindacali, si sono inventati sistemi per «qualificare» il loro lavoro, renderlo più autogratificante con complessità fasulle. Essenzialmente, le maestre d’oggi devono essere laureate (in una università italiota) e studiano (si fa per dire), anzichè geografia, italiano ed aritmetica, una pseudoscienza che chiamano «pedagogia». Da maestre elementari, sono diventate «pedagoghe».

Adesso aspetto a piè fermo le proteste dei lettori che mi vorranno dimostrare che la pedagogia, insegnata nelle nostre pseudo-univerità, è una scienza vera, e che quindi le maestre elementari sono delle scienziate.

Mi basta replicare: guardate cosa hanno fatto queste scienziate, dei vostri figli. Guardate come tutta questa pedagogia, questa scienza, sforna analfabeti dopo cinque anni di presunti studi, con tre insegnanti per classe.

La pedagogia dovrebbe insegnare ad insegnare: vi pare che lo faccia, dai risultati? Ma c’è di peggio.

Leggo sul giornale un caso esemplare. Riguarda la preside della scuola romana  Pisacane – il suo nome è Nunzia Marciano – scuola in cui gli alunni sono al 97% immigrati, perchè la preside «prende tutti», in chiara obbedienza al luogo comune vigente del multiculturalismoscemo, col risultato che le mamme hanno ritirato i pochi figli italiani, perchè non riescono, con tanti stranieri che rallentano il gruppo, ad imparare nemmeno quel poco.

Ebbene: la preside Nunzia Marciano era già salita all’onore delle cronache qualche mese fa, perchè aveva proposto di cambiare il nome della scuola. Non più «Carlo Pisacane»,  eroe risorgimentale del luogo-comune di ieri, che non dice nulla ai bambini d’oggi (e nemmeno agli adulti), bensì «scuola Tsunesaburo Makiguchi».

Tsunesaburo Makiguchi. E chi è?, hanno chiesto esterrefatti tutti. E’ stato un grande pedagogo giapponese, ha risposto ineffabile la preside Nunzia, felice di poter dimostrare la sua scienza.

Ora chiedo: in base a quale pedagogia una maestra, divenuta preside, può ritenere che «Scuola Tsunesaburo Makiguchi» possa avere un significato esemplare, più che Carlo Pisacane? Che sia meglio comprensibile ai bambini e ai genitori musulmani, peruviani, moldavi, romeni, bengalesi che affollano la sua scuola?

Voglio dire: c’è esempio più chiaro che la casta miseranda delle maestre è diventata ermeticamente chiusa al mondo, totalmente auto-referenziale? Anche ammettendo che la pedagogia sia una scienza (e non una materia universitaria inventata, come «scienza del turismo» o «di comunicazioni sociali», di cui i nostri atenei traboccano), essa è – nel caso ipoteticamente migliore – una scienza «ausiliaria». Qualche trucco del mestiere che serve – si spera – a loro per insegnare meglio, non l’oggetto dell’insegnamento. E’ come se il personale di un teatro pretendesse: basta col mostrare quel che succede sulla scena, con tutti questi attori che recitano questo Shakespeare, questo Pirandello o questo Camus; bisogna rappresentare il tecnico delle luci mentre manovra i fari, gli operai che tirano le corde dei sipari, il pompiere di sorveglianza, i facchini che portano i bauli con gli abiti di scena; questo conta; questa sì è «cultura»...

Questa è la scuola italiana: un teatro dove non si rappresenta più Shakespeare, perchè gli insegnanti rappresentano se stessi: come sindacalisti, come «pedagoghi», come precari, come scioperanti, come anti-Gelmini, come «docente triplo», come «operatori del tempo pieno». E come laureati con tesi su Tsunesaburo Makiguchi.

Tutto questo pedagogismo pretenzioso, d’accatto e in malafede, creato per ottenere «punteggi» e conquistare un gergo «scientifico» da usare per intimidire in sede di «trattativa sindacale» o coi genitori, è precisamente quello che ha ridotto la suola allo stato di inadempienza educativa e morale disastrosa che vediamo oggi.

In questa manfrina trentennale è andata perduta la funzione cruciale, insostituibile, dell’insegnante elementare: precisamente, la capacità di educare.

Le conoscenze da trasmettere sono, come ho detto, semplici e scarse, elementari appunto. La cosa principale che i bambini apprendono da un insegnante delle prime scuole sta in tutt’altro. Mi è difficile definirlo.

Direi, tentativamente: nella «presenza» di un adulto che non è nè il papà nè la mamma – uno dei pochi adulti con cui uno scolaro ha a che fare con la sua età – e che imprime la serietà della vita, e accende fuochi nelle menti, imponendo la sua esperienza vissuta di adulto – meglio se istruito.

Perchè dico questo? Perchè ricordo un mio parente, maestro elementare, che ho chiamato sempre lo zio Dino. Ora non c’è più, e mi spiace di non potergli chiedere come e cosa insegnava. Essenzialmente, lo zio Dino era stato un soldato. Era stato chiamato e richiamato in non so quali e quante guerre d’Africa (aveva conquistato sul campo il grado di ufficiale), che verso i trent’anni, lui – come molti della sua generazione – doveva aver sofferto problemi di reinserimento. Come si dice, per servire lo Stato in armi, aveva perso  molti treni, molte possibili carriere civili. Allora però lo Stato pensava a questa generazione a cui aveva chiesto molto; aprì per essa un ingresso facilitato in un lavoro statale. Zio Dino diventò maestro elementare, e lo fece per quarant’anni. Non so nemmeno se avesse il diploma magistrale; un diploma doveva averlo, a quei tempi bastava.

Me lo ricordo segaligno, militaresco coi suoi baffetti, lievemente ironico; parlava un buon italiano perchè era toscano (tutti gli insegnanti dovrebbero essere toscani), e del suo lavoro di maestro non diceva nè bene nè male. Si capiva che non gli pesava e non lo preoccupava: sapeva le cose che doveva insegnare, e che non erano molte. Ma posso provare a immaginare me, bambino, in classe, davanti a una simile «presenza». Un adulto che ne aveva viste tante, che aveva combattuto in Africa, che aveva marciato con gli zaptiè e con gli ascari, che conservava una foto di lui cotto dal sole, in calzoni corti militari e stivali, smagrito ed esausto, ma sempre lievemente ironico. Io credo che, bambino, avrei accettato l’autorità di un simile maestro vissuto, la sua disciplina. Storia, geografia, aritmetica, insegnava quello che lo Stato gli aveva ordinato di insegnare, luoghi comuni vigenti compresi. Non doveva cercarsi una «qualificazione» con Tsunesaburo Makiguchi.

I genitori d’oggi, essi stessi moralmente sfatti e intellettualmente degradati da un cinquantennio televisivo, e dalla mala educaciòn dell’individualismo edonista (da quattro soldi) vigente, non sono purtroppo in grado di concepire, e perciò imporre agli insegnanti il rigore formativo e la responsabilità educativa necessaria; anche loro, dopotutto, sono prodotti della scuola di manica larga in una società di manica larghissima, dove il cattivo esempio viene dall’alto, dal basso, da destra e da sinistra.

A questo – ai contenuti – un tempo, provvedeva lo Stato. L’interlocutore oggi più assente: decaduto, morto, disprezzato come educatore (in un Paese che intende la libertà come «fare ciascuno ciò che vuole») il suo spazio vuoto è stato occupato dalle caste «statali».



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