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Putin sorpreso: c’è un doppio Obama?
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John Kerry è l’uomo che il presidente Obama s’è scelto come nuovo segretario di Stato, ossia ministro degli esteri. Lo scorso fine settimana, in Turchia, Kerry ha partecipato ad una riunione di ribelli e loro finanziatori (detti «Amici della Siria») annunciando il raddoppio degli aiuti militari ai ribelli anti-Assad, consistenti secondo lui in 127 milioni di dollari di «armi non letali». Ha citato razioni K, visori notturni, giubbotti anti-proiettile, ed autoblindo, come questa:
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Il 19 aprile, davanti alla commissione esteri del Senato americano, Kerry ha caldeggiato «un intervento in Siria, altrimenti il Paese rischia di spaccarsi in enclaves» (intervento a cui si sta opponendo energicamente il capo del Pentagono, Chuk Hagel), tuttavia nella palpabile consapevolezza che i «ribelli» non sono uniti e fra essi primeggino gli islamisti fanatici.

Ciò ha lasciato interdetta la diplomazia del Cremlino. Ad Oslo, il 21 marzo, in colloqui d’intesa fra russi e americani che avrebbe dovuto portare ad un negoziato diretto tra il regime di Assad e i ribelli (almeno quelli più ragionevoli), lo stesso Kerry aveva detto: «Il mondo esige che si fermino gli ammazzamenti. E noi vogliamo vedere Assad e l’opposizione siriana sedersi al tavolo per la creazione di un governo di transizione sulla base della cornice che è stata approntata a Ginevra». A riportare questa importante dichiarazione è stato l’autorevole Boyrouth Conflicts Forum, che vi ha aggiunta la notazione che questa notevole asserzione di Kerry «non era stata pubblicata da nessun grande giornale occidentale» ( were not published in any mainstream western newspaper).

Sembrava la conclusione felice di un intenso lavorio diplomatico di Mosca, che mirava appunto ad un negoziato tra siriani – quelli al potere e quelli in lotta – in qualche modo garantito dalle due potenze. Gli americani sembravano aver abbandonato la proposta che Assad sparisse, abbandonando unilateralmente il potere, prima di negoziare con lui; ed avevano chiesto al Cremlino di organizzare una delegazione per il negoziato, composta da personalità del regime Assad, mentre gli americani mettevano insieme la delegazione dei ribelli. I russi l’hanno fatto, riuscendoci dopo settimane di pressioni, promesse e alchimie interne al potere che proteggono. Infine, i russi hanno fornito la lista della «loro» delegazione agli USA... e non ne hanno saputo più niente. Nessuna risposta, nemmeno un «Ricevuto, grazie». E dopo un mese, l’annuncio del raddoppio degli aiuti militari ai ribelli.

Che cosa è successo?

Sarebbe facile sospettare le pressioni della Israeli Lobby sul governo americano. Ma non pare che sia questo il caso. DEBKA File, vicina ai servizi sionisti, parlando della visita di Hagel in Israele, dopo l’attentato islamico di Boston, ha scritto: «Stati Uniti, Israele e l’Arabia Saudita, ancorché pienamente coscienti della minaccia di un Iran nucleare, sono stati forzati ad accorgersi della fiorente presenza di Al Qaeda in Siria, nel Sinai e in Iraq e la minaccia che pone per Israele, Libano e Giordania. E tutto ciò pesa nei giochi di potere attorno alla guerra civile siriana».

Una presa di coscienza che non pare isolata. Se c’è un neocon sfegatato e fanaticamente, questo è il commentatore ebreo americano Daniel Pipes: uno che ha sempre caldeggiato le soluzioni più brutali nei rapporti col mondo islamico: ancor oggi proclama che il presidente Obama deve «ordinare alla forza militare USA di distruggere la capacità nucleare dell’Iran», e all’interno degli Stati Uniti organizza una rete di delazione contro i docenti universitari che, nei campus americani, gli vengono segnalati come filo-palestinesi (a questo scopo ha creato un sito, Campus Watch, dove segnala i nomi dei colpevoli). Ebbene: questo Pipes, sul Washington Times dell’11 aprile, propone che gli Stati Uniti si schierino militarmente a fianco di Assad , per distruggere i ribelli islamisti di Jabhat al-Nusra. (PIPES: The argument for Assad)

Sì, avete capito bene: Pipes vuole che gli USA scendano in guerra – come al solito – ma non contro, bensì a fianco di Assad. Perché «se il regime siriano cade oggi, vinceranno le peggiori canaglie». E ciò finirebbe sarebbe una minaccia esistenziale per Israele; che dalla destabilizzazione avrebbe più rischi che vantaggi.

Fatto singolare, è la stessa posizione che Vladimir Putin fa presente da sempre alla Casa Bianca: Mosca non sostiene Assad, fra l’altro, perché la disfatta del suo regime aprirebbe a rischi terroristici di tipo ceceno, che finirebbero per coinvolgere anche gli alleati di Washington nell’area, Israele compresa. «Dobbiamo convincere il presidente Obama che Assad è il suo migliore alleato», confidava tempo fa un diplomatico moscovita.

Un argomento a cui l’attentato di Boston, commesso dai due fratelli ceceni Tsarnaev, ha dato una indubbia conferma. Barak Obama ha fatto sapere di aver ringraziato Putin per telefono «per la sua cooperazione nelle indagini sulle bombe di Boston». Diventa sempre più evidente che gli americani non avrebbero cavato un ragno dal buco, senza le preziose informazioni ed allerte dello FSB (ex Kgb) riguardanti i fratelli Tsarnaev. Anche l’FBI ha riconosciuto che già nel 2011 «un governo straniero» aveva sollecitato informazioni su Tamerlan Tsarnaev, abitante in USA, segnalandolo come «seguace dell’Islam estremista», che nel 2010 aveva compiuto un viaggio «nella regione di quel Paese dove si era unito a gruppi clandestini». Così, lacunosamente, l’FBI. DEBKA File, servizi israeliani, è più esplicita: «L’intelligence russo chiese all’FBI nel 2011 di tener d’occhio il fratello maggiore Tamerlan Tsarnaev, dati i legami di Tamerlan con gruppi terroristici islamici in Caucaso. Di fronte all’indifferenza dell’agenzia USA al loro allarme, i russi hanno messo i due fratelli sotto sorveglianza stretta, di sicuro pedinando a vista Tamerlano durante i sei mesi del suo soggiorno in Daghestan e Cecenia l’hanno passato, e probabilmente anche in America. Al suo ritorno (da quelle aree così significative, ndr.), Tamerlan non è stato inserito nella lista FBI delle persone da sorvegliare», conclude DEBKA con evidente disapprovazione. «L’agenzia russa era dunque la sola ad essere in possesso della vera intelligence per identificare i terroristi che hanno commesso l’attentato (...) la “cooperazione” russa all’inchiesta americana è stata dunque inestimabile». Fra le segnalazioni di gran valore, c’erano i videoclips che Tamerlan Tsranaev aveva postato sul web col proprio nome, provenienti da gruppi estremisti ceceni; materiale la cui detenzione è vietata dall’FSB. (US-Russia reset on pause: US general)

Tale sprezzante negligenza dell’intelligence anti-ceceno-russo stupirà meno, se si ricorda che la guerriglia cecena contro Mosca, lungi dall’essere bollata come «terrorismo islamico», ha avuto sempre forti sostegni a Washington: dove è stato costituito un American Committee for Peace in Chechnya (ACPC), i cui membri non suonano sconosciuti ai lettori più avvertiti. Si va da Richard Perle (il consulente J del Pentagono sotto Rumsfeld l’11 settembre, che preparò la guerra all’Iraq) ad Elliot Abrams (J), da Frank Gaffney (J) a Michael Ledeen (J), più Kenneth Adelman (J), ambasciatore all’ONU che annunciò che l’invasione dell’Iraq sarebbe stata «una passeggiata», Midge Decter, direttore della Heritage Foundation e biografo di Rumsfeld, Bruce Jackson già vice-presidente della Lockheed Martin, a James Woolsey, ex capo della CIA e neocon d’onore.

Obama ha ringraziato Putin al telefono, dicono i giornali americani. Ma il Cremlino, in un comunicato ufficiale, precisa che la telefonata «è stata un’iniziativa della parte russa» – Obama non l’ha fatta – e che «entrambi i leader hanno espresso l’auspicio di una stretta collaborazione tra i servizi russi e americani nella lotta contro il terrorismo globale». Un auspicio che, in realtà, i russi sembrano i soli a sostenere.

La politica costante di Obama (o chi per lui) è di negare a Mosca ogni riconoscimento e legittimità delle sue aree di influenza e dei suoi interessi; ad ogni aiuto e offerta di collaborazione la Casa Bianca oppone sgarberie umilianti ed atti ostili. Una posizione resa esplicita nell’allarmante audizione davanti alla commissione senatoriale del generale Philip Breedlove, il gallonato appena messo da Obama al posto di Supreme Allied Commander Europe (SACEUR) della NATO in Europa (la successione si situa nel rimescolamento ai vertici dei comandi USA seguito allo scandalo Petraeus).

«La Russia – ha detto Breedlove – resterà la prima causa di preoccupazione nella regione fino al 2020, sia per la sua posizione geografica, la sua forza militare, e la sua aspirazione ad esercitare un’influenza regionale. Gli USA e la NATO continueranno ad assicurare i nostri alleati, e i partner che vivono nella auto-dichiarata “sfera di influenza privilegiata” russa, della nostra risolutezza».



Il generale ha aggiunto che la Russia è un «aspirante superpotenza» e che per questo «abbiamo messo in pausa il “reset” con Mosca. Ci sono stati cambiamenti politici in Russia per cui abbiamo molto rallentato...». Dopodiché, Breedlove ha precisato – bontà sua – che la Russia non va considerata «un nemico» bensì «un partner»...

Intanto, il 12 aprile, il Congresso USA ha pubblicato una lista di nomi di personalità russe a cui è vietato l’accesso sul territorio americano, e confisca degli eventuali beni da loro posseduti in USA, come punizione per la morte di Sergey Magnitsky, un avvocato moscovita morto nel 2009 in un centro di detenzione russo, prima del processo in cui era imputato. Una violazione dei diritti umani che la pura vergine dell’Occidente non intende tollerare.


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