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Bandar di nuovo al comando. Ed altri misteri spiegati
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Ad aprile sembrava che fosse stato licenziato dalla poltrona di capo dell’intelligence saudita. Lo si dava in USA (dov’è di casa) per cure e un lungo periodo di riposo, ormai fuori dalla linea di successione al trono... Invece, eccolo di nuovo. Il principe Bandar bin Sultan bin Abdulaziz bin Saud – informa l’amico Wayne Madsen – è risalito in plancia. È riapparso come «consigliere del Re e suo inviato speciale», ossia plenipotenziario.

Bandar, si ricorderà, è l’uomo che chiese un incontro con Vladimir Putin prima delle Olimpiadi di Soci egli fece un’offerta impossibile da rifiutare: se cessava di appoggiare il siriano Assad, il Regno dei Saud avrebbe fatto grossi acquisti di armamenti Made in Russia. Se continuava, avrebbe avuto sorprese da terroristi islamici ceceni, che Bandar gli rese noto, obbedivano a lui, e che potevano rovinare con attentati le Olimpiadi invernali. Putin rifiutò.

Per coincidenza però, in quei giorni (il 28 marzo) il presidente Obama aveva incontrato il re Abdullah a Riyad e, a quanto pare, gli aveva chiesto la testa di Bandar. Motivo, le gravi divergenze sulla «manovra» dei ribelli islamisti lanciati congiuntamente da USA e Saudia contro la Siria. Ciò è stato confermato quando l’uomo messo a sostituire Bandar, il principe Mohammed bin Nayef, Ministro dell’Interno (più tardi sostituito da un viceministro della difesa, principe pure lui: Prince Khaled bin Bandar bin Abdul Aziz) , ha dirottato i fondi sauditi alla formazione di «islamisti moderati» preferiti dagli USA: la cosiddetta Armata Libera Siriana (FSA), messa insieme da ex dirigenti del regime di Assad passati dall’altra parte, e ormai ridotta a un’ombra dalla crescita e aggressività dei jihadisti più estremi e meno controllabili (da Washington).

I fulminei e clamorosi successi dell’ISIS contro il regime sciita di Al-Maliki in Iraq hanno evidentemente segnato una vittoria di Bandar, il loro burattinaio, e un’altra sconfitta di Obama e dei suoi fumosi tentativi di metter becco nella destabilizzazione medio-orientale, che è in mano ai neocon. Madsen ricorda che a febbraio, nella Conferenza per la Sicurezza di Monaco, era stato il senatore e candidato presidenziale rivale John McCain ad inneggiare: «Grazie a Dio per i sauditi e il principe Bandar». Attivissimo sul fronte neocon ultra-aggressivo, McCain nel 2012 era infiltrato in Siria attraverso la Turchia per farsi fotografare a stringere mani ai tagliagole salafiti di Bandar, «combattenti per la democrazia». È una amicizia che il clan repubblicano ha da lunga data: il principe nero è stato chiamato «Bandar Bush» tanto è intimo della famiglia presidenziale. Non c’è dubbio che abbia dato una mano all’auto-attentato dell’11 Settembre, come gerente di Al Qaeda.



L’attuale capo della CIA John O. Brennan, legato a filo doppio con la monarchia saudita ed ex Ambasciatore a Riyad, ha dato una mano alla risalita di Bandar-Bush alla posizione-chiave nella dirigenza saudita. C’è da amministrare la spartizione dell’Iraq in tre entità (kurdi, sunniti e sciiti), e da maneggiare il nuovo alleato del progetto, l’Islamic State e il suo Califfo: un alleato utile ma pericoloso, adesso fornito di 52 grossi pezzi d’artiglieria pesante, milioni di proiettili e 1500 Humvee corazzati presi, come preda di guerra, all’armata irachena che è scappata... tutta roba americana di prima qualità. Ci vuole il grande timoniere per mettere le redini a un califfato così ben armato, perché non devii in direzioni sgradite.

Bandar è insostituibile in questo. Sir Richard Dearlove, che fu il capo dell’MI6 (Servizi esteri di sua Maestà) dal 1999 al 2004, ha rivelato in una conferenza stranamente senza eco sui media alcune cose di quell’esperienza. E fra quelle, una frase che il principe Bandar gli disse «qualche tempo prima dell’11 Settembre»: «Caro Richard», gli disse Bandar, «è vicino il tempo in Medio Oriente quando si dirà “che Dio salvi la Shia”. Più di un miliardo di sunniti ne hanno abbastanza di loro». Una frase che sir Dearlove ha definito «agghiacciante».

Lo stesso Dearlove – parlava al Royal United Services Institute – ci ha tenuto a ricordare che un altro non nominato «che era allora capo dell’intelligence generale saudita, l’11 settembre letteralmente mi gridò dietro: “Per l’Occidente, l’11 Settembre è solo una puntura di spillo... ciò che questi terroristi vogliono è la distruzione della Casa dei Saud e rifare il Medio Oriente”». Essendo improbabile che l’ex capo dello spionaggio britannico si sia abbandonato a ricordi casuali, ha voluto dire due cose: che in Saudia non sono tutti contenti del gioco pericoloso di Bandar coi suoi tagliagole. E che la politica saudita del doppio binario – armare e pagare i jihadisti come utili strumenti contro l’Iran e la Siria all’esterno, ma perseguitandoli all’interno come potenziali sovversivi del corrotto sistema monarchico – Bandar è ritenuto dal re Abdullah il solo con il polso necessario per usare quel Frankenstein che ha creato. O forse Bandar ha fatto anche al Re il tipo di offerta che Putin rifiutò, diciamo che tiene la Casa in pugno con un ricatto?

Per ora, l’ISIL, poi IS, poi Califfato, da quando ha conquistato Mossul senza quasi colpo ferire, fa il suo diligente lavoro: ha mitragliato centinaia di cadetti sciiti dell’aviazione irachena presso Tikrit buttandone i cadaveri in una fossa comune, trucidato donne e bambini sciiti in villaggi a Sud di Kirkuk, fatto saltare con esplosivo moschee sciite a Mussul. Scrive Patrick Cockburn sull’Independent: «Nella città di Tal Afar, turcomanna e sciita, i ribelli dell’Isis si sono impadroniti di 4 mila case come preda di guerra. Essere identificati come sciiti o di una setta correlata, come gli alawuiti, in quelle zone è diventato così pericoloso come essere ebrei nelle parti controllate dai nazisti in Europa negli anni ’40». Sic: il paragone è d’obbligo ma discutibile. Uno migliore lo trova Cockburn quando parla del Califfato insediato nell’Iraq central come di «una sorta di Khmer Rossi islamisti, patologicamente assetati di sangue». Fra le stragi di sciiti, gli uomini del califfo hanno trovato il modo di massacrare 255 prigionieri sunniti, per motivi poco spiegati. I curdi, i separatisti coccolati dall’occidente, stanno faticando a contenere l’IS o Califfato dalla loro zona autonoma; la Jabhat al-Nusra, gruppo jihadista sunnita ma sgradita al Califfo (è pagato dal Katar non da Saudia), sta cedendo sotto le nuovissime artiglierie Made in USA dei guerriglieri rivali. Il Califfato s’è impadronito della quasi totalità dei pozzi petroliferi siriani, il che inquieta la Casa di Saud. Cockburn riporta di un anonimo «principe saudita che la scorsa settimana ha dichiarato di non voler più finanziare una tv satellitare basatain Egitto per il suo anti-sciismo pregiudiziale». Magari è troppo tardi.

S’intende che Bandar sta mantenendo fermo il suo scopo, eliminare il governo sciita di Maliki in Iraq, ed Assad in Siria, eliminando così i due alleati dell’Iran nell’area... poi, con il suo Califfo insediato a Baghad, eccitare alla rivolta la minoranza sunnita nella provincia iraniana del Kuzestan, centro della produzione petrolifera di Teheran — così consegnando alla casa dei Saud il controllo sulle altre riserve petrolifere del grande Medio Oriente. C’è da tenere impegnati i tagliagole per mesi, e distrarli dalla voglia di distruggere la casa dei Saud.

Califfo: «Allah mica ci ordina di combattere Israele»

Ciò spiega perché lo Stato d’Israele non sia per nulla preoccupato del Califfato trionfante. Il quale del resto, interrogato sul perché non proietti un poco del suo jihad a Gaza, dove gli ebrei stanno massacrando musulmani ed occupando Al Quds (Gerusalemme), ha ritenuto necessario postare sul suo conto Twitter la seguente spiegazione: «Nel Santo Corano, Allah non ci ha ordinato di combattere Israele o i giudei. Quando Allah parla del “nemico più prossimo”, parla degli ipocriti che sono più pericolosi dei non-credenti, e la prova è che Abi bakr Assidik ha sconfitto in primo luogo in rinnegati invece di liberare Al Quds. Nel Santo Corano, Allah ci chiede di combattere gli ebrei non prima che ci saremo liberati dei rinnegati e degli ipocriti».

Netanyahu può dunque con serenità, e fra gli applausi della sua gente che si gode lo spettacolo, devastare ancora Gaza. È la politica che le centrali israeliane chiamano «del tagliaerba»: ogni tre anni, passare sul milione e mezzo dei suoi prigionieri di Gaza il tagliaerba dei suoi bombardieri e delle sue bombe, onde rasare all’altezza auspicata la capacità combattiva della resistenza. Scudo di Difesa (2002), Piogge d’Estate (2006), Piombo Fuso (2008) , Colonne di Nubi (2012), ed oggi «Bordo protettore» (2014), la cadenza mostra la cura di uno scrupoloso giardiniere che ha in manutenzione un prato all’inglese.

Si tratta infatti di mantenere le capacità militari dei palestinesi a un livello insufficiente per rappresentare una vera minaccia per Sion, però sufficiente per strombazzare la menzogna che «Israele ha diritto all’autodifesa»; e sotto il fumo delle esplosioni, continuare a arraffare territorio, sloggiare abitanti dalle loro case, insediare colonie ebraiche, saccheggiare e derubare i palestinesi — adesso s’è visto, anche dei loro diritti sui giacimenti energetici scoperti off-shore dalla costa di Gaza (1).

La periodica e scrupolosa rasatura di Gaza serve anche al marketing dell’armamento israeliano e alla sperimentazione di nuovi strumenti. In 60 anni di occupazione, di omicidi mirati e di massacri all’ingrosso, Sion ha sviluppato un primato riconosciuto nella repressione di insurrezioni e nelle guerre a bassa intensità o nei conflitti asimmetrici. «Israele offre sui mercati globali un modello completo di guerra asimmetrica. Esporta missile Rafael provati per gli assassini mirati a Gaza, droni IAI, metodi di combattimento, muri di separazione Magal. Esporta anche esperti giuridici, esperti di amministrazione di popolazioni soggette sul modello dell’amministrazione civile israeliana in Cisgiordania»: sono parole di Yotam Feldman, giornalista già di Haaretz, che ha realizzato anche un documentario-inchiesta su questo speciale business mondiale: The Lab (Il Laboratorio).

C’è bisogno di mostrare la loro efficacia usando un poligono di tiro densamente popolato. Bombe al fosforo, DIME, bombe soniche che terrorizzano e non lasciano dormire (un attacco aereo ogni 4 minuti e 30, del resto...). Clienti come la Colombia, il Sudafrica, la Corea del Nord ma anche certi ricchi americani che stanno formando «gated communities» (città-condominii di privilegiati, piene di fiori all’interno, e protette da muri e da guardie armate contro il disordine plebeo statunitense all’esterno: delle piccole Israele, in fondo), osservano le operazioni periodiche con interesse commerciale. Ed Israele deve approfittare dei periodici attacchi su Gaza per mostrare l’efficacia dei suoi sempre nuovi strumenti. Per Feldman, la guerra perenne in Palestina è divenuta ormai «una necessità economica che fa parte del sistema di Governo israeliano». Da cui nasce la solita domanda.

Da dove vengono tutti quei razzi di Hamas?



Centinaia, centinaia di razzi. Di lunga gittata, pure. Tutti sparati senza risparmio su Israele che ha diritto alla legittima difesa, e quasi nessuno che colpisca un bersaglio. Chi glieli fornisce, ad Hamas? I nostri giornalisti chiedono agli ufficio stampa di Sion ed hanno la risposta: Teheran, Hezbollah...

Certo, come no. Parliamoci chiaro: a Gaza non entra nemmeno un chilo di cemento per riparare le case distrutte, Israele non fa passare i tondini di ferro per l’edilizia, fruga ogni camion di viveri e medicinali mandato dalla carità internazionale... e passano missili lunghi tre metri? Lanciarazzi tipo «Katiusha»? Tonnellate di esplosivi e materiali chimici necessari per creare i propellenti solidi dei detti razzi? Come arrivano in questo campo di concentramento sigillato?



I giornalisti non ce lo spiegano mai. Non dall’Egitto, che blocca oggi persino i medicinali. Dai tunnel che sboccano in Egitto, nemmeno a pensarci. Dal mare? Non fatemi ridere ché ho le labbra screpolate, come disse Walter Matthau.

Altrimenti, se prendete per buona la narrativa ufficiale, dovete giungere a una sola conclusione: vorrebbe dire che i rinomati mezzi di repressione, controllo e spionaggio israeliani, e che Israele offre sul mercato, non valgono un granché. Eppure il mercato mondiale continua a ritenere il know how repressivo giudaico perfettamente efficace, e ad acquistarlo. Come mai, se lascia passare persino gli «Organi di Stalin»?

Mistero.

Per di più, questi voluminosi strumenti di morte e di lancio mica giungono ad Hamas. Giungono nelle mani di gruppuscoli più estremisti, contestatori di Hamas, e che Hamas non può sconfessare (né ammazzare) perché oggi è troppo debole politicamente all’interno: presa nella sua propria trappola dell’estremismo (con cui contestò a suo tempo l’OLP), non può permettersi di essere meno massimalista a parole dei suoi ragazzi che accusano di essere molle con i giudei... e sparano i loro razzi e razzetti senza risparmio. E nemmeno siamo sicuri che non siano lanciati da «fuori» Gaza, e non da dentro. In fondo, chi è che ci dice che questi razzi vengono da oltre il Muro? Giornalisti — Guido Olimpio, Maurizio Molinari, Cuffaro, eccetera.

Se vi è venuta in mente il sospetto seguente: Israele stesso passa quei razzi e razzetti agli ingenui combattenti adolescenti di Gaza, magari facendoseli pure pagare, dissociatevi da voi stessi. È un pensiero malsano ed antisemita.

Tutt’al più, Israele profitta di queste tremende aggressioni (oltre 1200 razzi!, sta dicendo indignata Radio 24...) per mostrare agli acquirenti l’efficacia del suo sistema antimissile Iron Dome: un apparato americano da loro migliorato, che è costato un occhio della testa e sulla cui utilità gli esperti avevano molti dubbi.



Invece avete visto come funziona bene: 1200 lanci, e un solo morto ebreo. Quasi tutti intercettati, i razzetti, da missili Patriot costosissimi (100 mila dollari l’uno). Ma quando c’è da esercitare il diritto di autodifesa, non si bada a spese.

E infatti ecco la notizia: «Un panel del Senato USA ha approvato un finanziamento per rafforzare il sistema missilistico Iron Dome. Israele riceverà 621 milioni di dollari a cominciare dall’anno fiscale 2015, compresi 351 milioni di dollari per l’Iron Dome a breve gittata che è stato messo alla prova negli scorsi otto giorni del conflitto fra Israele e Hamas... La Casa Bianca aveva stanziato 176 milioni di dollari per finanziare il sistema, ma il Senato ha raddoppiato la cifra proposta dal presidente. Il finanziamento è parte dello stanziamento (americano) di 3,1 miliardi di dollari annui per l’assistenza militare ad Israele». Così Arutz Sheva, l’organo dei fanatici coloni giudei.

Così avete capito tutto: sì, Iron Dome costa effettivamente un occhio della testa. Ma è mica Israele a pagarlo. Lo paga il contribuente americano, come al solito. Poi Israele lo mette sul mercato a profitto, e siamo sicuri che andrà (è il caso di dirlo) a ruba.




1) Cito da Pepe Escobar, «Sangue in cambio di gas: perché Bibi sta punendo Gaza». qualche passo: «C’è un diffuso sussurro nelle strade arabe che dice (che l’assassinio dei tre giovani israeliani) sia stato un false flag. Le prove, tuttavia, puntano alla forte tribù Qawasmeh nella regione di Hebron – la quale è storicamente conosciuta come antagonista di Hamas e usa attaccare i coloni israeliani. C’è anche la possibilità che i rapitori volessero usare gli autostoppisti come merce di scambio per la restituzione di prigionieri palestinesi. (...) Bibi e l’intelligence Shin Bet sapevano fin dall’inizio che i ragazzi erano morti – e chi era responsabile, ma Bibi semplicemente non poteva sorvolare sulla possibilità di sfruttare l’accaduto – durante le tre settimane di folle ricerca – come motivazione per perseguire Hamas nella Zona Ovest e a Gaza, un’operazione già pianificata da tempo. (....) In tutti i modi possibili a Gaza deve essere impedito di accedere ai giacimenti Marina-1 e Marina-2. Questi verranno inghiottiti da Israele. Da ogni punto di vista, e anche in pratica, Israele controlla tutte le risorse naturali palestinesi – acqua, terra ed energia. Ecco il «segreto» dell’Operazione Proteggi Sionisti, scusate, Barriera Protettiva: senza schiacciare Hamas, che controlla Gaza, gli Israeliani non potranno trivellare la costa. Per Bibi, così come per il Knesset, la possibilità che i Palestinesi abbiano accesso alla loro ricchezza proveniente dal gas è un confine invalicabile. L’UE potrebbe essere parte del gioco. Nessuno a Bruxelles lo vuole ammettere, ma è facile ipotizzare una «strategia» circa questo impossessarsi dei giacimenti palestinesi, che aprirebbe le porte in futuro ad una minore dipendenza dell’UE dalla Gazprom e ad un acquisto del gas israeliano (rubato)».



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