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Il grande business Global Terminator
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Le stragi che avvengono in Usa con armi d’assalto, preferibilmente nelle scuole, sono indotte dall’abuso di antidepressivi scatenanti? Per quante giustificazioni possa avere, questa tesi appare un ultimo alibi morale per negare l’abisso di male a cui l’America s’è consegnata. E fin troppo facile notarlo: il presidente Obama che vieta (finalmente) la vendita libera di armi d’assalto nei negozi, è lo stesso che ogni settimana decreta l’assassinio per mezzo di droni di persone a lui sconosciute in Waziristan o Afghanistan, sulla base di una lista di sospetti giudicati eliminabili (senz’altro giudizio) dalla Cia o da qualche altre agenzia. In suo nome ogni mattina impiegati pubblici davanti a un video fanno esplodere teste e saltare arti di gente a 10 mila chilometri di distanza, di cui hanno prima deformato la vita sociale, tanto che in quelle lontane regioni matrimoni e jirga (raduni di anziani) sono evitati perché l’assembramento scatena il dio cattivo che li spia e fulmina dall’alto, in arbitrio totale e inappellabile. Il tutto con piena soddisfazione del pubblico americano.

C’è di peggio. Si apprende adesso che ai più alti livelli del settore militare USA si sta valutando, come ipotesi operativa, sferrare un «primo colpo nucleare» contro la Cina, ossia immaginando il massacro di un miliardo e mezzo di uomini. Sotto quali psicofarmaci agiscono?

Il fatto merita di essere raccontato. Tutto comincia dalla scoperta che il regime cinese ha costruito «una Grande Muraglia sotterranea»: è questo il nome usato dal rapporto uscito dalla Georgetown University l’11 settembre 2011 (sempre un 11 settembre…) a firma Philip A. Karber (un «esperto di controllo degli armamenti in Asia») e collaboratori: «Strategic Implications of China’s Underground Great Wall».

In breve, vi si spiega che il Secondo Corpo d’Artiglieria cinese, l’unità responsabile dei missili strategici di Pechino, ha scavato una colossale rete di gallerie sotterranee, lunga secondo le valutazioni americane «tremila miglia» ossia 5 mila chilometri; da questo scarno dato, gli esperti della Georgetown cavano l’idea che in essi i cinesi possano nascondere lì 3 mila testate atomiche, ossia dieci volte di più delle circa 300 attribuite fino ad oggi alla Cina dall’intelligence Usa. Ragion per cui, Kraber e collaboratori deducono che Pechino ha sviluppato e dispone di una «capacità di primo colpo strategico».

Sulla base di questa ipotesi, che cosa fa l’amministrazione Usa? Nell’ultima legge di bilancio del Pentagono per l’anno 2013 (National Defense Authorization Act) dà istruzioni a STRATCOM, ossia al supremo comando operativo delle forze strategiche (missili atomici) , di valutare come distruggere con forze convenzionali od atomiche l’arsenale nucleare cinese come primo colpo preventivo del «primo colpo» cinese immaginato, e riferirne in un rapporto da stilare entro l’anno stesso 2013.

L’enormità della cosa è tale, che ne ha parlato ampiamente Russia Today.

La tv russa in inglese ha intervistato Jammes Corbett, un analista geopolitico residente in Giappone ed esperto delle situazioni asiatiche. Il giornalista: gli Usa hanno spostato nel Pacifico la maggior parte dei loro sottomarini balistici, stanno rafforzando continuamente la loro presenza navale, e adesso pianificano un colpo nucleare preventivo? Ciò non è d’aiuto in relazioni già abbastanza tese...

Corbett è d’accordo, ma aggiunge: «Penso sia da vedere come parte di una più vasta politica nucleare Usa che dura da decenni, che cerca di trovare ragioni per giustificare l’esistenza dell’arsenale nucleare americano e mezzi per creare nuove armi». Fra cui Corbett cita «la bunker buster atomica B61-11 da 400 chilotoni», creata per colpire le presunte installazioni dell’Iran; ora la retorica si sposta alla Cina; è un tentativo di silurare le nuove trattative START (di riduzione delle armi atomiche) prima che ripartano. C’è chi «cerca di indebolire la capacità del presidente di ridurre l’arsenale, ammesso che mai lo volesse».

Il presidente è impotente davanti al complesso militare industriale? Corbett indica le varie provocazioni contro la Cina (fra cui quelle di Tokio per le isole contese) e sorvoli ad alta quota di aerei spia, come manifestazioni di questa volontà degli interessi militari-industriali di tenere alta la tensione, non necessariamente come una politica della Casa Bianca.

Del resto, è l’ultima reincarnazione di una lunga tradizione di allarmismo strumentale, nota come «Red Scare», «Paura dei Rossi», dove «think tanks» pagati dalle industrie delle armi ingigantirono sistematicamente la pericolosità militare sovietica. Il più noto di questi pensatoi, il Committee on the Present Danger, è riuscito a influenzare la politica di riarmo di quattro presidenti, da Eisenhower a Carter, da Reagan a Bush padre e figlio (Kennedy fu il solo a non voler stare al gioco al gioco...), ed è ancora attivissimo nella «guerra al terrorismo» islamico, rimpolpato da noti neocon, e collegato con pensatoi ebraici come l’American Enterprise Institute, l’American-Israeli Public Affairs Committee e, come per caso, la Boeing . Una scorsa alla voce di Wikipedia consentirà di osservare il gran numero di nomi di tipo J fra i membri vecchi e nuovi del Committee.

Donald Rumsfeld, lui stesso proveniente da ditte di armamento (Gilead Sciences, General Instruments) e fautore di un potenziamento senza limiti della forza armata, imbarcò nel Pentagono una gran parte di questi colleghi d’allarmismo in vista dell’attentato dell’11 settembre e della guerra conseguente all’Iraq: fra di loro spiccava Richard Perle.

Prima la «paura» agitata era quella dell’Urss, poi fu Saddam (le sue famose armi di distruzione di massa), poi «AQIKEW» (Al Qaeda in the Entire World) poi l’Iran «nucleare». Ma il pericolo cinese è sempre stato tenuto di vista almeno come spauracchio di riserva.

John Laughland, saggista inglese e giornalista dello Spectator di Londra, ha ricordato che il 19 aprile 2001 ha partecipato ad un seminario sulla Cina durante il quale un «esperto di alto livello, direttore di uno dei think tanks più celebri di Washington nonché membro di gruppi consulenti del Pentagono» raccomandava un attacco preventivo (first strike) contro la Cina. Laughland gli parlò a quattr’occhi in margine al seminario, e gli disse con umorismo britannico: ma avete pensato che col vostro attacco potete ammazzare uno o due milioni di cinesi, ma ne resterebbero comunque 998 o 999? Al che il personaggio, senza affatto cogliere l’humor, aveva risposto con mortale serietà: «John, se lanciamo un attacco nucleare contro la Cina, ne liquidiamo molte centinaia di milioni, mica uno o due».

La cosa è ben nota a Pechino. Difatti il fisico americano d’origine cinese Hui Zang di Harvard, che studia per gli Usa i programmi nucleari cinesi, sulla natura e lo scopo della «Grande Muraglia Sotterranea» ha espresso un parere contrario a quello di Karber: «Una spiegazione ben più plausibile per la vastità del reticolo sotterraneo cinese... è che la Cina vi ha traslocato i suoi missili di terra per proteggerli da un attacco nucleare preventivo»: così il dottor Hui sul Bulletin of the Atomic Scientist del 16 gennaio 2012.

La sua valutazione si accorda con la politica e la dottrina nucleare cinese di sempre. E dimostra che la minaccia è sentita da parte americana, piuttosto che il contrario, come del resto dimostra tutta la dottrina militare Usa almeno dal 2001 e i suoi sviluppi. Mosca condivide la stessa preoccupazione di Pechino, e accelera la collaborazione militare fra i due Paesi. Il presidente, anche se volesse un appeasement, è giudicato «impotente di fronte al complesso militare-industriale».

La militarizzazione della mentalità americana, ad un tempo massiccia e capillare, è una evidenza patologica che intacca la psicologia profonda di una popolazione degradata, impoverita e aggrappata all’unica potente industria rimasta non delocalizzabile, quella che non ha un «mercato», ma un solo cliente, il Pentagono. La nuova dottrina bellica, ora che le «guerre» sono esclusivamente contro sub-avversari sub-statali e infinitamente meno armati, che subiscono una superiorità assoluta del nemico, è quella dei «zero morti dalla nostra parte, più morti possibile dall’altra»: che rivela in sé una psicologia da assassino più che da soldato. Cina, Russia e il resto del mondo con lo sguardo lucido (non noi europei, dunque), l’hanno vista all’opera nel trattamento dell’Iraq «liberato da Saddam»: gli americani l’hanno raso al suolo. Tutto, metodicamente: centrali elettriche, depuratori d’acqua, ponti, porti ed aeroporti, ospedali, officine meccaniche, fattorie d’allevamento, siti archeologici e musei, ed en passant, tutte le Convenzioni internazionali che fissavano qualche limite alla barbarie della guerra.

Questa criminalità come metodo è diventata parte legittima del business americano. Impiega migliaia di addetti e paga migliaia di salari, l’assassinio è oggi una specialità professionale ed un’attività quotata in Borsa. Il vecchio mestiere del mercenario non è più marginale, ma la lucrosa attività di grandi ditte con insegne sui grattacieli: Military Professional Resources Inc, Erinys, Aegis, e la celebre Blackwater, poi ridenomintasi Xe Services LCC e da due anni Academi (sic) per sfuggire alla cattiva stampa dei 195 «incidenti» (leggi: assassinii immotivati) accumulati fra il 2005 e il 2007 per lo più in Iraq , ma sempre Blackwater: ossia una multinazionale molto redditizia. Ha un miliardo di dollari di contratti con lo Stato americano. Nel 2006 (non è facile trovare dati più recenti) Blackwater aveva dispiegato nel mondo 23 mila «addetti». La sua cifra d’affari era aumentata dell’80 mila% dal 2001 al 2006: una crescita assai invitante per gli investitori finanziari, un business più profittevole e permanente delle telecom o di Facebook.

In Usa, l’uccisione è diventata una solida branca del terziario avanzato, la fornitura dei servizi di «termination» mirati o a pacchetti, con tutti i servizi ausiliari connessi: addestramento di irregolari o satelliti, affiancamento e rinforzo di milizie qaediste o altrimenti impresentabili, conduzione di affari sporchi di sangue in cui è inopportuno che il governo appaia ufficialmente, trame nell’ombra, putsch da terzo mondo, logistica, security, gestione di campi di prigionia eccetera. Un florido terziario letale in perfetta consonanza con gli strumenti simmetrici innovativi forniti dal complesso militare-industriale per i nuovi conflitti asimmetrici contro inermi, che richiamano fin dal nome il delitto: droni «furtivi», droni predator, droni «reapers», cioè falciatori; spesso, il software è quello stesso dei videogames, con la differenza che qui i cadaveri di donne e bambini sono veri.

E infatti, «dai tardi anni ’90 l’esercito (Usa) ha destinato decine di milioni di dollari ad un centro della University of Southern California, The Institute of Creative Technologies, allo specifico scopo di creare partnership con l’industria dei videogiochi e Hollywood», ha scritto il giornalista Nick Turse, nel suo saggio The Complex: How the Military Invades Our Everyday Lives.

Nel 2003, la NBC riferiva: «I videogames sono viste dai gallonati come un modo ottimo per indurre gli adolescenti ad arruolarsi. Giochi come “America’s Army”, sviluppato dall’esercito, e “Guard Force”, sviluppato dalla Guardia Nazionale con il sostegno tecnico della Rival Interactive di Alexandria (Virginia) possono essere scaricati o ritirati gratis negli uffici di reclutamento».

Nel 2009, il Christian Science Monitor rievocava: «Il 1999 fu per le forze armate l’anno di reclutamento peggiore degli ultimi trenta; il Congresso reclamò «nuovi, innovativi approcci, più aggressivi». Specialisti del settore privato furono chiamati ad assistere e consigliare, fra cui la grande agenzia di pubblicità Leo Burnett... per coltivare la fedeltà dei teen-agers. Parte del successo nel reclutamento post-11 Settembre è stato il videogame gratuito «American Army»: scaricato 40 milioni di volte, è entrato per questo nel Guinnes dei primati».

L’industria di Hollywood e degli effetti speciali s’è buttata spontaneamente nel nuovo business dell’ammazzamento virtuale, in cerca di profitti. Sperimentati agenti della Cia o d’altre agenzie militari hanno fornito i soggetti e le trame. Invariabilmente, i cattivi da spiaccicare con mitragliatore a laser sono barbuti, turbantati islamisti o iraniani. L’ex direttore della Cia William Colby, giunto alla pensione, è andato a lavorare per la ditta di videogames Activision.

L’ex Marine di origini iraniane Amir Hekmati, che fu arrestato in Iran durante una visita a Teheran nell’agosto 2011 come spia, ha confessato fra l’altro di aver lavorato per una ditta di videogames, Kuma Games di New York, che sotto contratto della Cia sviluppa giochi da distribuire alla gioventù medio-orientale: fra essi «Assault Iran» e «Kill Osama Bin Laden», «Fallujah police station raid», «Uday and Qusay last stand» (come stanare ed uccidere i figli di Saddam) e il recente «Fall of Sirte: Gaddafi last stand». Il tutto in arabo, parsi, urdu. (www.kumawar.com)

«I videogames sono il mezzo di propaganda ideale», ha scritto Foreign Policy, la rivista del Council on Foreign Relations, nel maggio scorso: «i consumatori americani hanno speso in videogames 25 miliardi di dollari nel 2010, mentre i giocatori nel mondo hanno giocato per 3 miliardi di ore a settimana». Ammazzando e spiaccicando cattivi, sempre barbuti o nazisti. (Couch of duty)

Michel Bauch di Lew Rockwell.com li definisce «la preziosa macchina lava-cervelli del governo, come già è avvenuto per l’industria del cinema. Il tipico scolaro americano va a scuola dove ogni mattina impara come è grande ed eroica l’America e quanto è pericoloso il resto del mondo, poi torna a casa e passa ore davanti al video impegnato in giochi come “Strategy 2012” (uno dei tanti giochi di guerra) che veicola ai vostri figli le informazioni che il governo vuole imprimergli».

Non che Hollywood resti indietro. Da sempre intimamente associata al Pentagono e all’idealismo bellicista di cui deve convincere gli americani, e renderli sempre più patriottici e paurosi del mondo esterno, ha dato da ultimo una precisa «rotazione» alla sua produzione, rendendola sempre più aderente alla nuova «etica» (chiamiamola così): Zero Dark Thirty, che è stato appena nominato per 5 Oscar, mette in scena una glorificazione della Cia e dei suoi mezzi senza scrupoli (tortura eccetera) nella «guerra al terrorismo», con un’esaltazione francamente nazistoide delle pratiche più ripugnanti. Sono innumerevoli i film americani dove i combattenti Usa sono dipinti come «sporca dozzina» che combatte senza regole, delinquenti comuni glorificati, col sottinteso che la guerra «noi la facciamo così», e che i soldati migliori sono i pregiudicati per assassinio, stupro, infanticidio. Di recente la tv ha rimandato il film «Bastardi senza gloria» di Quentin Tarantino: soldati americani nella seconda guerra mondiale che, per essere ebrei, si propongono di assassinare quanti più soldati tedeschi possono, e lo fanno, con i metodi più brutali e odiosi. Un’abiezione rivoltante (1).

Con questa misura di full immersion metà onirica metà reale nel crimine violento, nella caccia al nemico, nel tiro a segno contro vittime umane, a che scopo dare la colpa agli psicofarmaci, se qualcuno sbava di applicare quel che ha imparato con il suo Bushmaster Remington semi-automatico calibro 5,56?

Una infinita filmografia americana suggestiona gli spettatori a identificarsi con il delinquente braccato, ingigantisce la paura profonda dell’americano per lo sconosciuto, lo straniero, «l’alieno», e la sua determinazione ad usare la violenza preventiva per conseguire una sicurezza che gli sfugge sempre . Radicata fin dall’inizio della storia americana e nella sua coscienza pesante di sensi di colpa rimossi (lo sterminio dei pellerossa era giustificato con gli stessi pretesti della «guerra agli islamisti», e prima ai nazisti e ai rossi), questa paura radicale è profondamente omogenea al cosiddetto «individualismo» americano: un individualismo spaventosamente irreggimentato, ultra-conformista, dove non si esprimono idee «diverse» senza rischi di delazione; uno Stato policè al massimo grado, che l’opinione pubblica richiede sia sempre più occhiuto e repressivo, sospettando che l’ordine americano è qualcosa come una pentola pronta ad esplodere se non fosse per la repressione e l’auto-repressione continua. È un carattere che noi europei non chiameremmo mai «individualismo» bensì standardizzazione. Ma è quella specie di individualismo fatto di una solitudine immedicabile (quella dei quadri di E. Hopper), di mutismo, dove lo sconosciuto che ti viene incontro sul marciapiede può essere il tuo omicida, perché tu faresti lo stesso se potessi. L’individualismo delle cittadine con i sorveglianti armati ai cancelli, perché il mondo appena fuori è abitato da zombies, da terroristi o da folli strafatti di crack, e la civiltà è solo «dentro», fuori bisogna andare armati (esattamente come per i Marines, il rapporto con il mondo fuori non è che uccisione).

È l’individualismo dell’individuo veramente e finalmente ridotto a se stesso, atomo senza reti sociali, senza servizio sanitario, senza la minima sicurezza che avrà anche domani il suo lavoro, senza appoggi spirituali né morali quando è debole, malato e sofferente. È l’individualismo di colui che sa che a Wall Street trionfano «individualisti» che non esitano un attimo a distruggerti il lavoro e il fondo-pensione se gli conviene; e tu sei solo di fronte alle forze del mercato e della speculazione, invitato continuamente a «darti da fare», a «farti valere», ad essere ottimista, produttivo pieno di energia.

È il tipo di individualismo che ha spinto gli americani a fare tutti ugualmente incetta di armi d’assalto (vendite aumentate di colpo del 60% ) svuotando le armerie in previsione del giro di vite di Obama. È il grado zero primordiale dell’individualismo: «Io» e la mia Glock, io e il mio M-16, io e il mio Uzi, istanza ultima ed unica che calma la mia individualissima paura, la mia viltà fondamentale che non conosce quiete, e conferma estrema del mio Io in pericolo per la sua stessa sopravvivenza. Io e il mio arsenale privato, sempre tentato di liberarmi dalla compressione sociale e da me stesso con una follia di raffiche nelle scuole, nel posto da cui mi hanno licenziato, e così farla finita con quelli che odio, che non mi rispettano, che mi hanno gettato nel novero dei falliti e dei vinti.

Notoriamente Hollywood è la fabbrica dei sogni pre-confezionati per questa massa spaventata di individui che mangiano cibi pre-cotti e vestono abiti pre-confezionati, e sarebbero incapaci di concepire sogni propri. Qualche sera fa rivedevo il film-culto Terminator (continuamente riproposto in tv) e per l’ennesima volta ho constatato che il sinistro allucinante robot biologico assassino impersonato da Schwarzenegger soddisfaceva, oniricamente, l’aspirazione più profonda dell’americano anonimo. Ah, se potesse essere così, lui! Un essere senza coscienza e senza dolore, dotato di enorme schiacciante volume di fuoco, insensibile indistruttibile e massacratore senz’anima! Allora solo l’americano medio si sentirebbe sicuro. Avrebbe finito di tremare, di temere di ammalarsi perché non ha l’assicurazione, di essere licenziato con una settimana di paga, di farsi sequestrare il SUV e la villetta perché non riesci a pagare la rata del mutuo, e il vicino ti spia e ti denuncia perché bevi una birra per strada.

Il fatto è che il numero di soldati americani che usano l’arma per togliersi la vita è ormai superiore al numero di soldati che muoiono nelle guerre e nei conflitti innominati (l’America in armi è presente in 50 Paesi) in giro per il mondo. Per tragica che sia questa catena di suicidi, testimonia che le atrocità che hanno visto, o che hanno commesso, in Iraq ed Afghanistan, non possono superarle. Che la colpa continua a covare e marcire dentro di loro, che i troppi dispiegamenti in zona di conflitto, e l’insensatezza delle missioni, li ha usurati fino alla demenza. No, la guerra non è ancora un videogame. E no, non sono ancora stati resi dei perfetti Terminators come richiede il gran business del ventunesimo secolo.

Purtroppo, il suicidio fu il pentimento dell’Iscariota. Senza riscatto. Satanico. Un altro atto di violenza nella violenza generale di cui consiste ormai l’americanismo terminale, il cui satanismo evidente nel caos che espande attorno a sé. L’ultimo atto della guerra in Mali ha un’ovvia causa: l’America ha rovesciato Gheddafi, ed armato i ribelli, in gran parte «terroristi di Al Qaeda» riciclati e ridiventati alleati del caos, che ora i francesi si trovano davanti (ed anche loro colti da americanismo letale, si sono mossi a devastare); e del resto Al Qaeda stessa non fu promossa, armata, pagata ed addestrata dagli Usa in funzione antisovietica? La truppa d’élite del Mali, addestrata dagli Usa, è passata con armi e ottimo addestramento al nemico; un ufficiale addestrato dagli americani ha perpetrato il colpo di Stato che ha rovesciato il governo precedente, più o meno democratico, ponendo le condizioni che hanno fatto cadere metà del territorio nelle mani degli islamisti già «alleati». In Siria, l’opposizione al regime degli Assad, da principio politica e potenzialmente negoziale, è stata trasformata in una macchina di stragi con l’immissione deliberata di jihadisti esterni, che ora minacciano di sferrare un attacco a quel che resta dell’armata «libera» siriana, una guerra civile nella guerra civile, e già 60 mila morti e nessuna prospettiva di pacificazione.

Che bisogno c’è di presumere negli antidepressivi la causa scatenante delle stragi nelle scuole? Forse basta ed avanza l’esempio della pratica di termination agli alti livelli, quella specifica ideologia della cattiveria per cui i banchieri d’affari si pagano bonus miliardari mentre devastano e smantellano le società, la piccola proprietà, l’industria, le speranze. È in fondo la stessa ideologia della Blackwater applicata alla finanza, ai derivati e al trading ad altissima frequenza con supercomputer: guerra dovunque.

«Dai frutti li riconoscerete». Vale per l’America il detto con cui Isaia bollò coloro che dicono: «Abbiamo concluso un patto con la morte – con lo Sceòl abbiamo stretto un’alleanza – quando passerà lo straripante flagello non ci raggiungerà – perché abbiamo fatto della menzogna il nostro rifugio – e siamo riparati nella falsità» (Is 28, 15).

Mai si è vista, temo, una così massiccia, corale, convinta e organizzata adesione di un popolo, capi e gregari, all’opera di colui che fu chiamato «l’Omicida fin dall’inizio».





1) Impagabile il giudizio dato da Avvenire per il passaggio in tv di Bastardi senza gloria: «Tarantino reinventa la storia della seconda guerra mondiale. Film complesso ed acuto sotto molti punti di vista, ma la violenza esplicita ne consiglia la visione ad un pubblico preparato». Quanta delicatezza. Se gli assassini non fossero stati ebrei assetati di vendetta, il giudizio della commissione Cei competente sarebbe stato probabilmente: «Inaccettabile, abietto, rivoltante».


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