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La nostra civiltà, e il Conclave
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Non è nuovo né originale notare che la deviazione dell’Occidente in corso da mezzo millennio interpreta sé stessa (si auto-celebra) come un processo di liberazione. Liberazione progressiva da Roma e dalla Chiesa (Lutero), dalla tradizione; dalla gerarchia e dai re; liberazione da ogni limite e costrizione interiore ed esterna. Con la democrazia, non sono più il monarca o i signori a darci la legge, ce la diamo «noi» a maggioranza, tutti uguali. Il diritto positivo ci ha parimenti liberati da un sistema giuridico che riconosceva il giusto come qualcosa a noi esterno: siamo «noi» a dire che cosa è legale e cosa non è, finalmente: e ordiniamo giusto ciò che è ingiusto, lecito ciò che è anormale. La realtà esterna ci obbligava, ci condizionava; la filosofia kant-hegeliana e marxista ci ha affrancato dalla realtà; ora sappiamo che il reale è solo proiezione del «nostro» io o meglio, che è nostra costruzione: non siamo più costretti a «contemplare» e scoprire la realtà qual è, ora la trasformiamo. Di conseguenza, non dovendo più riconoscere nessuna oggettività, ci siamo guadagnati la «libertà di coscienza».

Il processo di liberazione ha trionfalmente accelerato negli ultimi decenni. Con la «trasgressione» sistematica ci stiamo liberando dell’ultimo ceppo, la nostra natura. Uomo, donna? Non è un destino, è una libera scelta. Una fra tanti «generi»: e guai a chi biasima , non ci sono più invertiti, siamo tutti normali. Per legge positiva. Mamme a 60 anni? Omosessuali ma sposati e genitori? Oggi si può: uteri in affitto, impianti di ovuli, banche dello sperma. Lussuriosi ad 80 anni? Viagra e Cialis. Seducenti e mammellute a 70? Plastica facciale, labbroni, ed è fatta (i risultati non sono perfetti, ma la tecnica progredisce). Reni, cuori e fegati aspettano di esser trapiantati in voi che non volete morire, tant’è bello stare qui («Purtroppo c’è una lunga lista di attesa. Però posso darle l’indirizzo di una clinica in Bangla Desh...»).

Divenuti adulti, abbiamo smesso di temere le minacce celesti come quelle cosmiche. La libertà sessuale è ormai riconosciuta senza limiti, banalizzata e fruita sempre senza il fastidio dell’altro (o altra), grazie alla porno-produzione. Ormai, per avanzare ancora nella libertà, per sfondare nuove frontiere e tabù, bisogna scendere nel necroscopico, usurpare i diritti dell’obitorio, o del boia americano che inietta la pozione ai condannati capitali: eutanasia, estrema libertà! Effettivamente è difficile immaginarne una ulteriore. In complesso, il lungo cammino di liberazione ha una ferrea coerenza interna: la libertà che persegue è quella del proprio «io», un «io» mutevole e momentaneo, composto di desideri e avversioni. È la libertà concepita come obbedienza immediata ai propri impulsi primari.

Dopo questa breve ricognizione dei luoghi, appare più chiaro l’odio fremente che assedia oggi il Cattolicesimo, la voglia frenetica e massiccia di azzittire, infangare la Chiesa. Il fatto che essa si sia fatta sempre più piccina e accomodante verso «il mondo moderno», si sia pentita della sua passata intolleranza; tenda infinitamente la mano ai «fratelli separati», e si ingrazi in tutti i modi il popolo eletto rinunciando a dichiararsi il Novus Israel, e rinunciando alla dottrina della sostituzione; che si sia volontariamente spogliata delle pompe del sacro, di ogni pretesa di imperio e di dogma, e abbia messo tra parentesi la propria autorità ; che abbia cessato di minacciare le pene eterne anzi abbia rassicurato tutti sull’«amore» che ci salverà; benché la secolarizzazione abbia confinato sempre più, persino a norma di legge, la fede nella soggettività privata escludendola dall’agorà; tutto ciò, lungi dal placare l’odio degli uomini liberati, lo attizza, lo rende più frenetico. È persino comico vedere in questi giorni l’interesse spasmodico ancorché malevolo dei media per il Conclave, ossia l’elezione del Capo di una istituzione che dichiarano – ed è – in crisi epocale, in emorragia di fedeli, ormai insignificante e marginale nella secolarizzazione compiuta. Sono assetati di «rivelazioni», cercano di smascherare «intrighi», manovre, retroscena, assicurano che i cardinali esteri «vogliono sapere tutto sul dossier» Vatileak, come se qualcuno glielo nascondesse... lo scopo generale del tutto è dimostrare: vedete, non sono meglio di noi. Non agisce nessuno Spirito Santo, ma le fazioni, i partiti, le cosche. Sono solo «indietro di 200 anni», come disse Martini, il cardinale più amato da quelli che se ne infischiano.

Molto di più. Ciò che indispettisce gli uomini liberati è assistere alla successione nell’ultima (o penultima) monarchia per diritto divino rimasta nel mondo, per il resto totalmente affrancato. Peggio: alla trasmissione apostolica di una potenza trascendente ed efficace in un povero essere umano. Un flusso di grazia efficace, garantito dall’alto.

È qualcosa che situa l’istituzione molto più indietro di «200 anni». Molto più indietro, in certo senso, anche dei 2000 anni e più da che Gesù visse su questa terra. Qualcosa di tanto arcaico, che per trovarne le fonti bisogna risalire al di là della storia: a quel tempo che non si può più chiamare «storico» non già (non solo) perché non ne sono giunti fino a noi documenti e monumenti, ma perché il tempo era diverso di qualità; era radicalmente «l’altro» tempo, quello cui le fiabe alludono con «c’era una volta»; ma anche la Chiesa, quando narra i fatti – pur storici e documentati – del suo Fondatore, esordisce : «In quel tempo, Gesù...». In quel tempo, è il tempo di qualità non profana.

Sono tempi che ci sono stati. Tempi conclusi, cicli esauriti, tanto che già Servio, il commentatore dell’Eneide, ai tempi di Augusto, doveva rievocarli come antichissimi: «Fu consuetudine dei nostri antenati che il re sia anche pontefice e sacerdote». Il tempo dei re-sacerdoti. L’unione del potere temporale con l’autorità spirituale, ancora indistinti. Tempi finiti, eppure Servio avrebbe potuto scorgerli nel suo tempo, se avesse saputo analizzare l’attualità: il regnante princeps Augusto manteneva per sé, fra tutte le cariche, quella di Pontifex Maximus. La sola che non cedette mai, perché lo rivestiva della presenza viva della forza dall’alto nell’ordine del «nostro» tempo, la forza fondatrice di Roma, la cui interruzione avrebbe reso inefficaci i riti e i sacrifici. Era un influsso tanto necessario per i romani, che quando misero fine ai «sette re» e adottarono la forma politica delle repubblica, dovettero mantenere un «re dei riti»: il monarca senza più potere a cui restava innestata la forza dall’alto, per rendere validi i riti. E per la persona che incarnava il Rex Sacrorum era un immane sacrificio personale, perché doveva astenersi in modo assoluto dalle cariche civili, astrarsi da ciò che per un patrizio romano era tutto: la lotta politica, il consolato, le preture, l’Imperium. Era un re da burla ma un vero monaco, inviolabile, puro e passivo.

Su questa passività è difficile intendersi, oggi. Il potere, oggi si proclama tutto azione. Bisogna risalire ad un tempo altro, ancora più sprofondato oltre il nostro tempo storico; un tempo che era già infinitamente antico ai tempi dei sette re di Roma. Il tempo che il Libro del Principio e della sua Azione, il Tao The Ching, evoca con una specie di indovinello:

«Il popolo delle origini quasi non sapeva che ci fossero (i re)

I successivi (sovrani) furono amati ed esaltati

i successivi furono temuti

i successivi furono disprezzati

la loro slealtà distrusse ogni fiducia

I primi, gravi, riservati nel parlare

realizzavano perfettamente la loro funzione

e i diecimila esseri dicevano:

«Viviamo secondo la nostra natura».

È un indovinello, come oracoli e sfingi facevano «a quel tempo». È una guida che sarebbe utile persino ai cardinali nel Conclave. Vero è che viene da un’altra religio; ma piuttosto, da un tempo anteriore a tutte le religiones. La Chiesa è trapassata verso il 1500-600 da religione metafisica a religione devozionale, e fu una risposta giusta e necessaria al paganesimo rinascimentale; ma non sarebbe male, quando si deve scegliere il nuovo Pietro, ricordare che Cristo non scelse il primo perché poliglotta, perché robusto ed attivo, perché popolare, o intelligente, forse nemmeno perché santo.

Lo fece «pietra». Roccia destinata a sostituire la Roccia di Abramo, su cui era costruito il Tempio ebraico. Essere dichiarato «Pietra» non significa avere un mandato per muoversi, viaggiare, scrivere encicliche, intervenire. Significa che deve «stare», esserci. La vera forza dei Papi, il loro «mandato del cielo», è nell’incarnare pro tempore l’azione immateriale, per pura presenza, della trascendenza presente nel mondo. Questa gli viene trasmessa nel conclave. E senza questa, sarebbero vani i sacramenti; nulla l’Eucarestia; non ci sarebbe stato Padre Pio, né i santi oscuri che proprio ora, sulla loro croce, reggono il mondo e ne impediscono il collasso.

È quel che Lao Tze additava negli imperatori cinesi antichissimi, ideali: l’agire-senza-agire. Come dice in un altro passo, il 73: «Vi è un coraggio attivo che conduce alla morte / vi è coraggio non-attivo che conserva la vita (...) / La via del Cielo è: non combattere e vincere / farsi obbedire senza comandare / attrarre senza chiamare. / Calma, essa porta tutto a compimento./ La rete del Cielo ha maglie larghe / ma ad essa nulla sfugge».

È un vero peccato che si debba ricorrere a un testo («al» testo) cinese del sesto secolo a.C. , ma sono troppi i preti e i cardinali convinti che Cristo sia venuto ad abolire il sacro, il metafisico, ed aprire al moderno desacralizzato ( e alle sue «liberazioni»). Proprio ieri, nella mia chiesa, ho preso un quindicinale del Movimento Apostolico dove un sacerdote, che ce l’ha coi riti, rimproverava: «Non ci si converte al sacro, bensì al Santo, a Dio, alla sua Parola, ai suoi comandamenti e beatitudini»: come se le due cose fossero distinguibili, e l’una potesse stare senza l’altra. È da questa convinzione che vengono le ostilità pretesche per processioni, apparizioni, guarigioni ed immagini: «Non è una processione, un rito, una novena, un digiuno (sic) che attesta la nostra verità davanti a Dio», scrive addirittura il prete di cui sopra. Ecco, per questo celebrano messe brutte in chiese brutte, spoglie di statue, con il tabernacolo a lato: per allontanarci noi fedeli dalle «superstizioni» che sono i riti, la fede nel sacro; pensano di rendere a Cristo il servizio che Egli chiede, il denudamento da ogni ritum. Così, sono promotori della secolarizzazione; così, io temo, finiranno per soffocare lo Spirito. Solo ci conforta la promessa: su questa Pietra, le forze infere non praevalebunt.

Sono incredibili, questi preti benintenzionati, questi cardinali progressisti e pastorali che – non contenti che la Chiesa sia trapassata dal metafisico al devozionale – già vogliono toglierci anche le devozioni verso l’Altissimo. Dimenticano che loro stessi sono stati consacrati da un rito arcaico, che risale a molto, molto prima di Cristo stesso: «sacerdoti in eterno, secundum ordinem Melchisedek».

Melchisedek. È qualcosa che avvenne tantissimo tempo fa. Forse duemila anni prima di Cristo, ma forse molto prima, posto che le date abbiano un senso: siamo qui nel tempo «altro», qualitativamente altro, che siamo costretti a chiamare preistoria. E che era invece, forse, la a-storia.

Anche gli eventi sono confusi dalle memorie. Sappiamo che un benestante dell’epoca, ricco di greggi e schiave, servi e mercenari armati, mentre sedeva davanti alla tenda nei pressi delle querce di Mambre, nell’ora della canicola, «alzò gli occhi ed ecco: tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro e si prostrò fino a terra».

Perché quei tre erano Uno, il Signore. Non è chiaro se prima o dopo, Abramo s’era assoggettato a «Melchisedek re di Salem», che l’aveva benedetto con un sacrificio di pane e vino: a questo personaggio infatti «Abram diede la decima di tutto», dunque si fece suo vassallo. Ai tre in cui riconobbe l’Uno, ugualmente Abramo si diede vassallo: mandò a far ammazzare un vitello per il loro pasto, e mentre mangiavano restò in piedi, come un servo, per servirli.

  
Di quei tre e del loro pasto, molti molti secoli dopo, Andrej Roubliev, il santo pittore di icone, fece il ritratto: tre antichissimi giovani alati, di cui mise in rilievo l’altissimo silenzio, il sovrano «puro esserci», la serena presenza reale che sa «farsi obbedire senza chiamare»: la «calma che porta tutto a compimento», per dirla col cinese. Sul tavolo, lungi dall’esserci il vitello, non c’è che un calice colmo di vino (o di sangue?).

Ma chi era Melchisedek che offrì pane e vino? Lo si dice Sacerdote dell’Altissimo. Era forse il vicario dei tre che sono Uno? Guénon ha scritto che Melchisedek significa «re di giustizia», e la Salem su cui regna significa Pace. Sicché è «Re di pace e di giustizia», ossia dotato di potere temporale (giustizia) e dall’autorità spirituale (pace) che sola rende legittima la prima. Il re sacerdote. Cristo, non ce lo dimentichiamo, è il Re e il Sacerdote. Ed è anche la Vittima che il Sacerdote che è lui stesso sacrifica compiendo l’ultimo sacrificio di sangue, anzi l’ultimo sacrificio umano lecito.

Melchisedek
Melchisedek   
E se i preti oggi possono celebrare l’Eucarestia, ossia ripetere validamente con sacrificio di Cristo, è perché loro sono ordinati «secondo l’ordine di Melchisedek». E se possono consacrare in qualunque luogo del mondo anziché solo sulla Roccia del tempio in Jerusalem, è perché Cristo non solo è Re dei tre mondi, sacerdote, Agnello, ma anche il Tempio: «Distruggete questo Tempio, e in tre giorni lo rifarò». E dovunque venga evocato dagli ordinati secondo il ritum, viene sgozzato nel Tempio, sulla Roccia che è Pietro.

I Papi ultimi hanno cambiato molte cose, alcune essenziali. Paolo VI depose il triregno, e fu una consapevole secessione dalla funzione regale sul cosmo, la civitas, e il mondo superiore; la funzione per cui i bizantini dipingono Cristo come Pantocrator, autocrate di Tutto: governante il mondo fisico, animico, spirituale. I tre regni. Dico «consapevole» Paolo VI, perché imbevuto di ideologia fra il maritainiano e il modernista, volle ostentatamente rinunciare al «potere temporale», ormai ridotto al minimo politico, l’indipendenza sovrana del Vaticano. Agì quindi in base a suoi privati sentimenti, e convinzioni democristiane del tutto transeunti, non capendone le profonde risonanze ed ultime conseguenze nell’invisibile, e nell’aldiquà. Anche mostrò una non netta distinzione tra la persona privata e la funzione. Da allora però nessun altro pontefice ha più posto sulla sua testa la corona, la tiara. È più «spirituale», ma una grande attività, viaggi, udienze e un infaticabile scrittura di encicliche, non sembrano aver impedito la vasta apostasia contemporanea.

Oggi, con l’ultimo Benedetto XVI abdicante, ma Papa emerito, si pone un problema difficile in base ai tempi nostri. Curiosamente, è un problema analogo (o identico) a quello che affronta il regnante Dalai Lama: ha recentemente rinunciato al potere temporale per restare autorità spirituale, pura presenza dell’Alto nel Mondo fra i tibetani. Ma quando morirà, la sua successione è tutt’altro che assicurata. Il bambino che sarà scelto in base ai segni che mostrerà, dovrebbe essere cercato in Tibet e solo in Tibet. Perché? Lo ha spiegato Marcos Pallis, lo scalatore anglo-greco che visse molti anni lassù: «Se si chiedesse a un tibetano di spiegare questo particolare carattere della sua patria, per lui la spiegazione è semplice come il fatto stesso: “Il Tibet è stato, in un senso molto speciale, la sede o se si preferisce il centro, dove si è manifestata quella divina funzione o quel divino aspetto noti come ‘Pietosissimo Signore e Buon Pastore’”». Si allude qui al voto del Bodhisattva, che ogni monaco principiante deve fare: non entrerò nel Nirvana finché l’ultimo filo d’erba non abbia raggiunto l’illuminazione. La presenza del Dalai Lama, conclude Pallis, «è ricordo del voto (del Signore della Compassione) nonché garanzia vivente del suo adempimento finale». I rossi , odiosi materialisti cinesi anti-religiosi hanno occupato, distrutto, profanato il Tibet, voluto soffocare ogni spiritualità ; ma – non praevalebunt. Cinesi mandati a stabilirsi in Tibet contro i tibetani, tendono a convertirsi al buddhismo tibetano...

Ai caporioni rossi non deve piacere. Anche i nostri concittadini ormai «globalizzati» sono profondamente irritati da tutto ciò che avviene ancora in Vaticano. Come dicevamo all’inizio, veniamo da mezzo millennio di civiltà che si è descritta come progressiva liberazione da ogni legame, gerarchia, autorità, e persino condizione di fatto. La Chiesa fra loro è l’ultima, minuscola fiammella di una immensa civiltà, che esisteva perfino «prima dei tempi», e aveva della liberazione l’idea esattamente opposta a quella vigente: non obbedire ai propri impulsi primari, ma imparare a vincerli. I desideri nascono da una nostra radicale «mancanza» (penìa), disse Platone; da un «difetto perenne di limite», per Plotino. Cercare di soddisfarli è «aumenta solo la sete», disse Buddha, e fa perdere nel Samsara, la ruota affannosa dell’esistenza; dove «tutto scorre» dicevano i greci, segnatamente Eraclito, e non c’è stabilità. Ciò che noi oggi chiamiamo «liberazione» è, per tutte le religioni e le tradizioni di «quei tempi» antichissimi, un mettersi sotto l’imperio di Kali, non a caso chiamata in sancritto Pashupati, «Signora degli esseri inceppati». Esseri legati, anzitutto, sono gli animali senza ragione, che non sanno emanciparsi dagli istinti e dalle pulsioni. Ma lo sono gli uomini quanto più si credono liberati. La liberazione, per le civiltà di quei secoli e millenni, era l’ascesi: nello yoga, lo scopo finale del dominio del corpo e della psiche, si chiama moksha, liberazione. E liberazione e risveglio promette Buddha a chi segua il suo metodo: «Liberato io sono, monaci, da tutti i legami terreni e non terreni. E voi anche siete liberati dai legami terreni e non-terreni. Andate dunque e vagate per la felicità dei molti».

Un poeta tibetano contemporaneo, Nyoshul Kenpo, vede noi occidentali affamati di benessere e cercatori di piaceri «come chi lecca il miele sul filo del rasoio». Cristo ci aveva avvertito: «Chi fa il peccato è schiavo del peccato». Altro che liberato! Un essere inceppato siamo noi. Ciò che chiamiamo «io», e a cui dedichiamo tante cure, è un grumo di cose disparate e impermanenti: spesso, solo ed essenzialmente la nostra posizione nel mondo... quella che ci riconoscono gli altri, la nostra biografia, laurea, professione; magari, alla fin fine, la nostra carta di credito. È su questo che si fonda il nostro io. Se cerchiamo di esaminarlo più a fondo, vediamo un grumo di desideri insoddisfatti, di odi, repulsioni, invidie e paure: un Io con cui non vogliamo restare soli. Quando saremo vicini alla morte, sarà quello il nostro giudice e consuntivo; e la carta di credito non servirà più.

La tradizione che tanto irrita quelli che oggi si dicono liberati, insegnava – e insegna – a possedersi, padroneggiarsi; a sottoporsi volontariamente ad un ordine e a una legge. E dopo esser divenuti padroni del proprio Io, gettarlo: «Chi vuol salvare la propria vita la perderà». Gettarlo via, significa morire a se stessi. Tutto ciò era possibile solo se dall’alto soccorreva la Grazia, trasmessa come un fiume o catena lungo le generazioni. Significa rinunciare alla propria volontà per fare quella dell’Altro, come ha fatto Lui: «Sono venuto a fare la sua volontà», e altri infiniti passi di Giovanni: «Le parole che dico non le dico da me stesso... Io amo il Padre ed agisco come il Padre mi ha comandato».

Scandalosa liberazione, quella che consiste in una obbedienza. Benché Dio, Gesù non rivendica la sua «autonomia»; resta eternamente Figlio sottomesso. E comanda lo stesso a noi. Il Suo amore si esprime in ordini: «Fate questo in memoria di Me», «Voi siete miei amici, se fate quel che vi comando», eccetera. Ciò, perché non sono gli affrancamenti, la democrazia, le trasgressioni ma «la Verità vi farà liberi».

Se c’è una cosa in comune a tutte le tradizioni, è questa idea di libertà, contraria alla nostra; e i metodi accertati per conseguirla. «In una società autenticamente tradizionale – ha scritto Evola – l’elevazione spirituale dell’individuo è vissuta come l’unico scopo della vita cosciente di un essere umano. Ogni altra attività – politica, economica, scientifica, educativa, artistica – ruota intorno a tale principio e ne è la manifestazione». Ciò è stato per millenni, forse per decine di millenni, prima della storia. Migliaia di generazioni si sono dedicate, come alla cosa più importante, alla propria realizzazione spirituale. Al confronto di tanta costanza, l’attuale processo, detto di liberazione, che è il Moderno, è una anomalia breve.

Vediamo già che con l’affrancamento da ogni autorità e grazia divina (che si poteva piegare con la supplica) ci siamo messi nelle mani di forze meccaniche, sub-personali e feroci, come i «mercati» e la «concorrenza globale», l’economicismo come ultima istanza e «realtà» oggettiva indiscutibile. Il rifiuto di esser fedeli a re e a nobili ci ha portato dover obbedienza a economisti e burocrati, i mostri freddi. Eterogenesi dei fini, volendo esser più liberi siamo finiti schiavi.

L’ipertrofia dei nostri Io che abbiamo tanto accanitamente perseguito ci ha fatto non ad personalità forti e singolari, ma a diventare nullità standardizzate, vili, continuamente sedotte da ogni suggestione di massa, e facilissime prede di ogni schiavitù mentale: coca, porno, slot machines. Altre schiavitù.

La crescita della libertà e del benessere che la tecnica ci ha elargito, e che la democrazia di massa ha in qualche modo distribuito, e che ci ha fatto credere onnipotenti («Voi sarete come dei»), ci viene sottratta ogni giorno di più: nella nuova fase, i signori non hanno più bisogno di noi. Nemmeno i più ostinati aedi della trasgressione credono più alle magnifiche sorti e progressive. Del gran percorso storico di emancipazione (né Dio né padroni) ci resta un paesaggio devastato e una decomposizione spirituale e morale che, forzatamente, induce il caos e l’erosione economica. Non una recessione, ma un declino storico. Inarrestabile?

Sappiamo da antichi frammenti che altre civiltà come la nostra esistettero, e furono cancellate; molti diluvii, molte Atlantidi, Sodome e Gomorre. Della fine di Atlantide, secondo Platone, un sacerdote egizio di Sais raccontò a Solone con precisione di data la fine: nel 9500 a.C. per «terremoti e cataclismi nello spazio di un solo giorno e una notte» (Timeo III). Il motivo, sempre lo stesso, è spiegato al termine incompiuto del Crizia:

«Durante molte generazioni, finché prevalse in essi la natura divina, (quegli uomini) furono ossequienti alle leggi e devoti all’elemento divino congenito in loro. (...) Per la persistenza dell’elemento divino crebbero a loro tutti i beni (...) Ma quando l’elemento divino, mescolandosi sempre più con la natura mortale, si estinse in loro, allora incapaci di sopportare la prosperità presente, degenerarono. E mentre a chi era in grado di vedere apparvero turpi, agli occhi invece di coloro che sono inetti a comprendere qual genere di vita conduca alla vera felicità, proprio allora apparvero bellissimi e felicissimi, gonfi com’erano di industria avidità e potenza». Fu a quel punto che Zeus convocò tutti gli dèi per cancellare quella razza.

È fin troppo chiaramente la descrizione della nostra civiltà liberata. Saremo la futura Atlantide? Non serve provare a rispondere a questa domanda. Certo, una civiltà che ha fatto a meno della grazia efficace, presente e reale, non ha dalla sua una prognosi fausta. Questo, giusto per dire che cosa è in gioco nel Conclave.

Post Scriptum su Abramo

Mentre spulcio notizie sul capostipite dei tre popoli, vedo che le tradizioni dicono Abramo nato ad Urfa, città oggi turca vicina alla Siria; e Urfa è a pochi chilometri da Gobekli Tepe, l’enigmatico sito archeologico che è la più antica struttura religiosa scoperta fino ad oggi. Ne ho parlato in passato: è un immane complesso monumentale datato 9500 a. C, in un’antichità neolitica anteriore alla scoperta dell’agricoltura: sicché gli archeologi non credevano possibile che dei cacciatori-raccoglitori avessero le risorse (economiche) e l’organizzazione sociale per elevare un simile santuario. La scoperta ha sconvolto tutto quel che si credeva di sapere su quell’antichissimo tempo di prima della storia: si è visto che si costruirono templi prima di costruire, o solo concepire, le città (ciò che non stupisce chi sappia qualcosa di Tradizione): l’uomo che noi chiamiamo «primitivo» era essenzialmente un metafisico; andava a caccia mascherato perché recitava un sacro dramma con la divinità dell’orso e del bue muschiato, era un danzatore divino e facitore di magie. Il santuario non era un insediamento di abitazione (non sono state trovate sepolture né resti di cucine); probabilmente, tribù neolitiche convenivano lì periodicamente per una qualche festa, e se ne andavano di nuovo. Almeno venti edifici circolari sono stati identificati (altri ce ne sono sepolti) fra i 10 e 30 metri di diametro. Li caratterizzano singolari pilastri a T monolitici a forma umana stilizzata, che sono decorati con animali: ma non animali di cui i neolitici andavano a caccia, bensì per lo più scorpioni, rettili, insetti e avvoltoi. Il loro significato sfugge: oso supporre che possa trattarsi di animali araldici. Stemmi delle casate dei signori? Quella di Abramo, dopotutto, era una «Casa». Naturalmente si obietterà impossibile: Abramo, se è esistito un simile capostipite, si dà per vissuto attorno al 2000 a.C.; settemila anni lo separano dalla cultura di Gobekli Tepe. Nessuna trasmissione può aver avuto tanta durata. Ma cosa ne sappiamo? È il caso esemplare in cui per noi moderni, con il nostro senso della storia e del tempo come misura che scorre, risalendo addietro ad un certo punto troviamo una diversità, una lacuna che non riusciamo a colmare. E solo per supposizione crediamo che il tempo di «allora», per quegli uomini, fosse come il nostro rapido e scorrente. Ma che quegli uomini – l’uomo tradizionale – avevano della temporalità una esperienza sovra-temporale; vivevano in ciò che sta al di là del tempo. La Genesi allude a questo, quando assegna ai patriarchi di prima del diluvio età favolosamente lunghe: Adamo visse ottocento anni, Noè cinquecento? Un tempo lento si accorda con la «presenza immobile» del Reale primordiale, di cui parla il Tao Te Ching. Colpiscono certe coincidenze: il più antico nucleo di Gobekli Tepe fu elevato nell’epoca in cui Platone pone la scomparsa di Atlantide. Il santuario fu ampliato e centro di culto per un millennio. Poi, verso l’8000 a.C. il culto – qualunque fosse – cessò. Ma il luogo non fu semplicemente abbandonato agli elementi: fu piamente riseppellito sotto tonnellate di terra e pietrisco. Ciò mi commuove: anche nella Chiesa, suppellettili che sono state sull’altare per il servizio divino, se rotte o usurate, vengono piamente e ritualmente dissipate , onde sottrarle a qualunque insulto profano. Gli uomini di Gobekli Tepe non avevano perso la fede; era cominciato un tempo «nuovo», un ciclo ricominciava più vicino al tempo storico, per cui la fede doveva essere esercitata altrimenti. Come, non sapremo mai. Ma è bello pensare che , come narra Genesi 12, fu allora che «il Signore disse ad Abramo.: vattene dalla tua casa, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò cosicché faccia di te una grande nazione...». Avvenne «in quel tempo», e dura fino a noi.

 

Copyright Associazione culturale editoriale EFFEDIEFFE 


 
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