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L’Italia in attesa di tsunami. Senza difesa
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Perfetto: anche la Francia è entrata ufficialmente in deflazione. Nella seconda economia della zona euro i prezzi sono caduti dello -0,2% in novembre. E l’istituto di statistica francese, l’INSEE, sottolinea che si tratta dei prezzi calcolati togliendo dal paniere i costi energetici, attualmente in ribasso abissale col greggio a 60 dollari. Anche la seconda economia d’Europa si unisce a Grecia, Italia, Spagna, Portogallo già nel fondo dell’imbuto della deflazione; ma si tenga conto che i prezzi stanno calando anche in Germania, Belgio, Olanda; nei Paesi baltici, e persino negli Stati al difuori dell’euro: Polonia, Romania e Bulgaria. La drammatica contrazione della Russia e il rallentamento della stessa economia cinese potenziano la discesa in deflazione (sono «pro-ciclici», si dice in gergo).

Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha deciso di guadagnarsi il milione di euro che gli diamo annualmente: ha lanciato l’allarme. Un altro calo dei prezzi «avrà conseguenze gravissime per le economie con debiti pubblici molto alti, come l’Italia», ha reso noto.

Ma che bravo. La deflazione infatti, tra gli altri guai che provoca (il gelo dell’economia e dei consumi), aumenta meccanicamente il debito in rapporto al Pil (il quale diminuisce), avvicinando irreversibilmente il Paese ultra-indebitato alla bancarotta. Ovviamente i «mercati» che ci prestano i capitali ci tratteranno da appestati, pretenderanno interessi tali da accelerare il nostro fallimento.

Non siamo i soli. «È evidente che né la Grecia, né il Portogallo né la Spagna, né l’Italia e la stessa Francia potranno mai rimborsare il loro debito, con una crescita così atona e un’industria devastata (dall’euro forte che ha spianato la nostra industria a favore dell’industria tedesca, ndr)», dice l’economista francese Bernard Maris, e trae la conclusione piana ed inevitabile: «La zona euro esploderà dunque alla prossima grave crisi di speculazione contro uno dei cinque Paesi sopra citati». Quello che chiama lo tsunami finanziario.

Secondo Maris, l’alternativa «uscire dall’euro o morire a fuoco lento» valeva fino ad ieri. Adesso, non è più nemmeno questione di morire a fuoco lento, ma di essere inceneriti in un’esplosione improvvisa dello spread. Il dilemma è (dice) «o uscire dall’euro in modo coordinato e in dolcezza, oppure attendere lo tsunami finanziario», la bancarotta di un Paese (l’Italia per prima, con le sue grosse dimensioni) che non può difendersi sotto l’attacco della speculazione mondiale.

Lo tsunami, ossia l’uscita dell’Italia dall’euro in catastrofe unilaterale e sotto attacco, sarebbe come «il Trattato di Versailles» dice Maris: la storica capitolazione delle nazioni del Sud davanti a vincitori spietati ed accaniti — come nel 1919 la Francia vincitrice si accanì a pretendere dalla Germania tanto esose riparazioni di guerra, che portarono a disastri, rivoluzioni, miserie, revanscismi ed odi nazionali che resero ineluttabile la seconda guerra mondiale. Oggi, difendere l’euro fino allo tsunami sarebbe il modo di rendere l’Europa «odiosa per sempre, fare spazio ai più stretti nazionalismi» e inimmaginabili disordini. Invece l’uscita concordata dall’euro avrebbe il merito di preservare qualcosa dell’unione europea.

Si tratta di consentire ai Paesi in difficoltà di svalutare: un attrezzo da sempre in mano ai Governi, che l’hanno usata senza remore nei momenti di crisi simili a questa: nel 1933, il presidente Roosevelt decretò la svalutazione del dollaro di uno spettacolare 41%; un decennio dopo De Gaulle, arrivato al potere con un’economia francese declinante, svalutò il franco del 20%, e l’economia ripartì a razzo... È il caso di ricordare che negli anni ’90 Canada, Svezia e Finlandia, travolte da gravi crisi del debito pubblico, hanno sì fatto «le riforme», però le hanno accompagnate con svalutazioni notevoli, dal 23 al 40%. E per tornare al nostro presente, negli ultimi otto anni di crisi in cui noi siamo stati impiccati all’euro forte, l’Islanda ha svalutato del 50%: se la Grecia l’avesse potuto fare sarebbe oggi in ripresa.

La soluzione concordata

Ma è possibile uscire? «La soluzione coordinata è abbastanza semplice – risponde Maris – e già diversi economisti l’hanno pensata. Si tratta semplicemente di tornare ad “moneta comune” che serva di riferimento alle diverse monete nazionali. Tale moneta comune sarà definita da un paniere di monete nazionali, e ciò attenuerebbe le speculazioni contro la moneta nazionale». Alle monete nazionali sarebbe consentito un margine di fluttuazione attorno alla moneta comune.

In pratica, è un ritorno allo SME, il Sistema Monetario Europeo, che consentiva alle valute nazionali di fluttuare entro precisi limiti attorno ad una moneta fittizia comune, lo ECU (1). Naturalmente si può ricordare che lo SME non difese l’Italia quando, sotto attacco speculativo di Georges Soros, la lira dovette uscire dal sistema stesso, e svalutare del 30%. Sarà bene ricordare che il governatore della Banca d’Italia di allora, di nome Ciampi, comprando affannosamente camionate di lire che Soros e i suoi complici vendevano allo scoperto, fece perdere all’Italia 48 miliardi di dollari nella inutile «difesa della lira» — inutile perché la Banca Centrale tedesca, la Bundesbank, rifiutò immediatamente di sostenere l’Italia spendendo del suo (vi ricorda qualcosa?), e dunque la sfida non poteva essere vinta, e doveva essere subito abbandonata. Invece Ciampi la continuò perdendo, si noti, 48 miliardi di dollari del ’92, molto più pesanti dei dollari odierni. Un dissanguamento della nazione pari a una gigantesca finanziaria: è il motivo per cui Ciampi, anziché la fucilazione alla schiena per tradimento o la damnatio per incompetenza criminale, ha ricevuto la carica di Presidente della Repubblica e l’aura santificante del Venerato Maestro.

Ma ciò spiega anche perché lo SME non funzionò allora, e può funzionare adesso. Il suo scopo, allora, non era di lottare contro la speculazione, ma di irrigidire il «serpente monetario» in vista dell’entrata dell’euro, la moneta rigidissima (Ciampi obbediva a questi ordini). Non aveva l’impegno degli altri Stati a soccorrersi a vicenda. Oggi, la nuova versione dovrebbe contemplare una «camera di compensazione» (l’aveva preconizzata Keynes nel suo progetto presentato a Bretton Wood, che fu bocciato a favore del progetto americano), una certa limitazione dei movimenti di capitali per stabilizzare la speculazione, una stabilizzazione che sarebbe potenziata da una Tobin-Tax sui movimenti di capitale...

Ma questa soluzione concordata è accettabile dagli eurocrati e dalla Germania? Altrettanto naturalmente, no. Berlino continua a ripetere ai Paesi sull’orlo della deflazione più rovinosa: austerità, fate i compiti, tagliate la spesa. Juncker ci minaccia di «conseguenze spiacevoli» (come un gangster di Cosa Nostra) se sforiamo il deficit, e ventila la punizione collettiva della procedura per debito eccessivo» — debito eccessivo provocato dalla deflazione.

Salvare l’euro fino all’ultimo italiano (o greco o francese) è il solo scopo di quelli che l’euro l’hanno creato nei loro felpati salotti, nell’ombra; l’implosione dell’euro decreterebbe infatti anche quella del loro potere. Solo che i trucchi che provano non funzionano più. Mario Draghi ha avuto il permesso dai tedeschi (con sforzo) di lanciare un secondo TLTRO, ossia un’asta per le banche europee per un prestito di quattro anni al tasso ridicolo dello 0,15%. Sperava che le banche si sarebbero precipitate, come nel primo TLTRO, ad accaparrarsi i fiumi di denaro, ciò che avrebbe aumentato la massa monetaria e il credito all’economia. Le banche invece – segno che ormai si comportano come malati gravissimi, agonizzanti – hanno perso l’appetito: hanno chiesto fondi per soli 130 miliardi di euro invece che per il trilione sperato. Fallimento totale, deflazione più vicina, con la massa monetaria che diminuisce invece che aumentare.

A questo punto, la dottrina anglosassone prescrive la cura da cavallo: il quantitative easing, la «stampa» di euro a perdifiato per creare inflazione e rilancio, come fa la Federal Reserve coi dollari e il Giappone con lo yen. Ma notoriamente Draghi è stato sconfitto dai tedeschi, il membro della BCE Jens Weidman continua ad opporsi: austerità, ecco la soluzione! I meridios facciano i compiti a casa! Taglino il debito! L’euro resti forte!

Il quantitative easing consisterebbe nell’acquisto, da parte della BCE, di quote del debito pubblico italiano, greco, francese, spagnolo... I tedeschi diventano pazzi di rabbia alla sola idea. Se prova a fare il quantitative easing, Draghi rischia di trovarsi come imputato davanti alla corte suprema germanica (contraria a qualunque stampa di moneta: la costituzione tedesca lo vieta) e anche davanti alla Corte Europea di Giustizia, sempre trascinatovi dai colleghi tedeschi. Sicché:

«La deflazione nell’eurozona è ora inevitabile, la BCE presiede ad un disastro deflazionario. Se non agisce subito ed aggressivamente, i mercati cominceranno ad attaccare il debito italiano. Il Pil nominale italiano scende più rapidamente dei costi di indebitamento, sì da spingere l’Italia verso la spirale del debito»: lo dice al Telegraph Andrew Roberts, analista-capo per l’economia europea alla RBS, che è la Royal Bank of Scotland: d’accordo, è un british che pensa da british, e non a caso Londra mostra una certa irresistibile tendenza a staccarsi dall’Europa germanica... ma in questo caso la sua previsione è molto vicina a quella del francese Maris: lo tsunami ci sta sopra. Evan Pritchard del Telegraph pensa che i tedeschi siano sempre più isolati, ora che anche la Francia è in deflazione, e quindi che sul quantitative easing cesseranno la loro ostinazione.

Giova sperare... e forse è già troppo tardi. L’esempio del Giappone di Abe è lì a dimostrare che, quando la deflazione è solidamente instaurata, anche il più folle quantitative easing non riesce a creare inflazione.

Un accecamento storico

È un accecamento fatale delle élites quello che ci rovina. Simile – rileva un altro economista francese, Jean-Michel Naulot, del Consiglio scientifico della Fondation Res Publica – a quello che aggravò la crisi degli anni ’30. Allora, la rigidità fu determinata dagli ostinati tentativi di ricostituire il tallone aureo, ossia il cambio fisso fra la moneta nazionale e una precisa quantità d’oro. Di questo tentativo, cui partecipò anche l’Italia, resta il curioso reperto del marengo d’oro italiano da collezione, che aveva lo stesso peso e valore del marengo francese, di quello svizzero, di quello austriaco, di quello belga; le monete erano a parità fissa anche fra loro. Solo che gli squilibri prodotti dal grande crack del ’29 erano tali, che la convergenza e il tentativo patetico di mantenere monete «forti» costò enormemente. Come oggi lo sforzo di restare nell’euro (ossia nel marco tedesco) anche allora si praticarono con ostinazione politiche di austerità che provocarono –aggravarono – la depressione. Gli Stati Uniti furono i primi ad allentare, quando appunto Roosevelt svalutò del 41% nel 1933, per uscire dal tritacarne letale. Il Regno Unito aveva già sganciato la sterlina dal gold standard nel ’31.

Invece, i Paesi europei del marengo si intestardirono a restare nel sistema aureo. L’effetto fu una deflazione che si avvitò su se stessa, perché invece di allentare i Paesi intensificavano rigore e austerità (ricorda qualcosa?): e comunque, uno dopo l’altro, i Paesi del marengo dovettero abbandonare l’aggancio delle loro monete all’oro, lasciarle cadere, svalutare. La Francia fu l’ultimo a resistere; Lèon Blum, che aveva giurato agli elettori di non rompere mai l’aggancio fra il franco e l’oro, tre mesi dopo essere stato eletto, nel settembre ’36, abbandonò il tallone aureo. Il franco svalutato, l’economia francese migliorò alquanto (2).

Da allora tutti i sistemi di parità fissa (l’ultimo nel Sud-Est asiatico 1997-98) sono volati in pezzi. La zona euro con una Germania che accumula 200 miliardi di eccedente nella bilancia dei pagamenti e la Francia con 60 miliardi di deficit della stessa bilancia, non può che esplodere presto o tardi. Mantenerla costa danni enormi per i paesi del Sud: disoccupazione di massa giovanile, svalutazioni salariali, de-industrializzazione a favore della Germania.

Ma non è tutto, aggiunge Naulot. Il costo finanziario di tenerci tutti dietro le sbarre è astronomico, e per questo sostanzialmente secretato. «Se ne parla pochissimo, i poteri pubblici sono estremamente discreti a tal proposito. Basti dire che il piano di salvataggio della Grecia (in realtà per tenere la Grecia dietro le sbarre, ndr) dal 2010 ad oggi, è costato 25 volte i piani per ‘aiutare’ l’Argentina nel 2000-2002, Paese che traversava una crisi enorme e considerata sistemica. E con che risultati? La Grecia ha adesso il debito salito al 177% sul Pil, la disoccupazione giovanile al 60%. Alla Francia, questo piano di salvataggio è costato 85 miliardi di euro, una volta e mezzo l’introito annuo dell’imposta sul reddito». Sono i soldi che la Francia ha dovuto sborsare al cosiddetto “fondo salva Stati”. L’Italia ci ha dovuto gettare, ossia perdere, 50 miliardi. Sottratti alla nostra economia, E il buco nero non è ancora tappato.

Pensare che sarebbe bastata una ventina di miliardi per raddrizzare la Grecia. Ma la Germania ha imposto la sua linea morale: Atene ha truccato i conti (è vero, con l’aiuto di Goldman Sachs e probabilmente di Mario Draghi che allora era nella ditta), e quindi bisogna punire i greci (che non sapevano nulla dei trucchi dei loro governanti), farli soffrire: fulgido altro esempio di punizione collettiva. Ad un costo di 300 miliardi circa. A cui anche i tedeschi hanno contribuito. Solo che, piccolo particolare, il Fondo Salva-Stati come impiega i fondi conferiti da noi e francesi e tutti gli altri? Li investe in Bund tedeschi, che sono tanto sicuri.

Così in pratica siamo noi italiani e i francesi a finanziare Berlino.

«È ora di guardare in faccia la realtà» dice Naulot (ossia che l’euro è un grave fallimento) e «discutere tutte le ipotesi senza tabù e pregiudizi», ossia come uscirne in modo consensuale.

Credete che lo faranno, i politici e gli eurocrati? La risposta è no. Non possono. Hanno il pensiero unico e ci hanno investito le carriere personali.

Allora sediamoci, proteggiamoci come possiamo, ed aspettiamo che l’euro muoia per gli attacchi speculativi, come tutti i sistemi di cambi fissi prima di lui.

Lo tsunami.

Che altro? Ah sì, avremo Draghi come presidente della Repubblica, come Ciampi. L’aura di venerato maestro gliel’hanno già confezionata da tempo i media e le logge.





1) Altri, come per esempio l’economista Nino Galloni, propongono l’emissione di moneta complementare, neo-lire con cui lo stato italiano pagherebbe parte delle sue spese.
2) Mussolini, che nulla capiva di moneta, per cieca grandeur e mal consigliato da esperti massonici (Volpi di Misurata, Stringher, gli interessi americani ad indebitare il Paese), proclamò il progetto di parità con la sterlina, «Quota 90» ossia 90 lire per una sterlina (lo stesso Volpi avrebbe voluto quota 110, la Confindustria 120...). Fu ottenuta con la riduzione della domanda interna, e un taglio dei salari del 10%, d’autorità. La produzione stagnò. Fu uno dei più gravi errori del Duce.



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