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Cosa hanno fatto a Nablus?
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WEST BANK: Nablus è una città palestinese in Cisgiordania. Va precisato: non è una città di Gaza, governata da Hamas, dove quindi tutto è permesso. Sta nell’enclave governata dal patetico Abu Mazen, che collabora con Israele, e la cui terra, in teoria, è riconosciuta come futura Palestina.

Ebbene: per la Reuters, il 9 luglio scorso, in questa cittadina di 140 mila abitanti arabi, il glorioso Tsahal ha «saccheggiato il municipio, rubando computer e provocando danni». Il giorno prima, «le forze israeliane hanno saccheggiato uno ‘shopping center’ e ne hanno ordinato la chiusura per due anni». Fin qui l’agenzia di stampa (1). Ma sentiamo come ha raccontato i fatti in una mail a due amiche americane una donna del luogo, moglie di un medico palestinese, la quale ha un master in inglese conseguito alla Università dell’Illinois (2).

«Nei tre giorni passati, la gente qui a Nablus s’è svegliata traumaticamente, scoprendo che l’armata israeliana ha confiscato la sua proprietà pubblica in un modo molto organizzato e ben progettato. Ecco cosa è successo. La prima notte, verso le 12, numerosi veicoli militari accompagnati da grandi container hanno attaccato una scuola, un ospedale, una moschea. Le porte d’entrata sono state spaccate con esplosivi. Tutti i mobili all’interno, e tutte le attrezzature, gli strumenti e gli incartamenti e insomma tutta la proprietà sono stati presi e caricati dai soldati sui camion da trasporto. Non avrei mai immaginato che queste cose potessero essere prese. Computer, schedari, telecamere, le cattedre e i banchi della scuola, persino le porte; incredibile. I luoghi sono stati svuotati, lasciati in uno stato orrendo, danneggiati. Hanno ordinato che la scuola e la clinica restino chiuse per tre anni. La seconda notte un grosso shopping center, chiamato ‘Nablus Mall’, è stato saccheggiato alo stesso modo. In questo edificio ci sono oltre una cinquantina di negozi, fra cui una banca, negozi di mobili (è in uno di questi che vi ho comprato il regalo, cara Laura e cara Nancy), un ristorante, un supermarket, molti uffici. I beni in quattro di questi luoghi sono stati svuotati e portati via su camion nel mezzo della notte. Hanno lasciato un foglietto dov’è scritto che il luogo deve restare chiuso per due anni, che le proprietà che sono state prese, o rubate o confiscate, appartengono all’esercito israeliano, e che chi osasse entrare sarà imprigionato. Nelle stesse ore, hanno fatto incursioni in cinque moschee, mettendole a soqquadro...».

nablus.jpg «Infine, la notte scorsa, l’edificio del municipio di Nablus è stato colpito allo stesso modo... I computer che sono usati per il servizio dell’acqua e della luce sono stati tutti portati via, con gli schedari e tutto il resto. Durante l’aggressione alcuni di questi beni sono stati danneggiati, e i guardiani notturni, in tutti questi casi, sono stati picchiati. Non ci crederete, ma cinque grandi autobus che portano gli studenti, e che sono della scuola, sono stati presi e caricati su pianali di grandi camion. Non sappiamo a chi toccherà questa notte. Forse si prenderanno le cose di casa, i mobili, gli attrezzi da cucina, chi può dirlo?Nessuno possiede più niente. Noi tutti apparteniamo all’armata israeliana. La nostra terra, i nostri ulivi, i nostri corpi, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, il cibo che prendiamo dal supermercato, i nostri parenti che sono in prigione, i nostri letti e le sedie... Cosa ci lasciano? I cervelli, forse. Non so cosa aggiungere, non c’è nulla da aggiungere. State bene e scrivetemi, perchè mi sento isolata e in qualche modo vulnerabile, senza più contatti. Vi amo molto».

C’è una certa differenza tra i due resoconti. Quello della Reuters, «giornalistico» è la forma di censura più sottile: l’informazione la dà, ma come un’operazione di routine di polizia; censura lo sgomento, l’angoscia e il senso di espropriazione di esseri umani che subiscono questo sopruso. Provate a mettervi nei suoi panni, provate a pensare se succedesse a voi, alla vostre case, al vostro supermercato, al vostro municipio.

Forse vi ricorderebbe tutti i racconti celebrati nella sola «Memoria» che è obbligatorio coltivare: la Notte dei Cristalli, l’esproprio dei bottegai ebrei, l’eterno bambino ebreo che esce a mani alzate, la vita espropriata del ghetto di Varsavia... la stessa cosa accade oggi, davanti alla nostra generazione. Ma se lo dite, siete «antisemiti». I razzisti siete voi, non loro.

Anche se - da un sondaggio dell’agenzia ebraica Ynet, è risultato quanto segue (3): oltre 50 israeliani su cento considerano il matrimonio di una donna ebrea con un arabo, tradimento nazionale. Il 50% crede che lo Stato debba «incoraggiare» gli arabi ad emigrare;  il 55 % vogliono locali pubblici separati  per ebrei e arabi; il 31% provano un eccesso di odio quando sentono parlare arabo, e il 50%, provano paura. Il 56% considerano gli arabi una minaccia demografica. Il 37%, una razza inferiore. Il 40% non vuole che possano votare. Il 75% si oppone a quartieri misti arabo-ebraici. Questo è il risultato di una educazione, di una «cultura» razzista.

Intanto, il giornale ufficiale dell’Autorità Palestinese - dunque non di Hamas, ma del governo collaborazionista - ha accusato le autorità israeliane di condurre esperimenti clinici sui detenuti arabi. Ha parlato di iniezioni somministrate a prigionieri, uomini e donne, dopo le quali «hanno perso in modo permanente i capelli e la barba. Altri prigionieri hanno perso i sensi, altri la vista, altri l’equilibrio mentale; altri ancora sono diventati sterili».

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Tutta propaganda, ha replicato Israele. Forse. Non possiamo controllare. Se almeno gli europei chiedessero di visitare le prigioni di Sion, e i suoi detenuti, forse potremmo con più tranquillità ripetere che è tutta propaganda. Ma non sappiamo, e non possiamo mandare delegati a vedere. E non c’è nulla, nella «cultura» israeliana, che per principio escluda esperimenti su esseri inferiori.

Abbiamo solo qualche mail, di qualche signora palestinese che scrive inglese. Notizie per pochi.

Ciò che è accaduto a Nablus, resta ignorato dall’immensa maggioranza di noi. Così, un giorno, avremo la scusa: «Non sapevamo, non potevamo immaginare...». Eppure accade a Nablus, vivace centro culturale palestinese (4). Non tanto lontana da noi, in nessun senso.

Il suo nome glielo diede Vespasiano, quando la fondò dal nulla nel 72, e la chiamò Flavia Neapolis; ancora i crociati la chiamavano «Napoli». Erano altri tempi, un’altra  civiltà. Il Mare Nostrum. Oggi sul Campidoglio, come sappiamo, sventola la stella di David.




1) «Israeli troop raid City Hall and mosques in West Banks», Reuters, 9 luglio 2008.
2) «Report from Nablus: «We all belong to Israeli Army», Mondoweiss, 9 luglio 2008. Mondoweiss è il blog che tiene il giornalista invesigativo Philip Weiss per il New York Observer, il periodico per cui lavora. O meglio per cui lavorava, dato che Peter Kaplan, e il proprietario del giornale Jared Kushner, lo hanno licenziato un anno fa per «aver scritto cose sbagliate su Israele». Weiss, ebreo,  collabora anche a The Nation e al The American Conservative.
3) Roee Nahmias, «Marriage with an Arab is national treason», YNet.news, 27marzo 2008.
4) Le atrocità a Nablus sono di norma. Nel 2002, l’esercito ha occupato la città praticamente radendola al suolo; i carri armati Merkava erano affiancati da bulldozer che squarciavano i vicoli della città, demolendo gli edifici, spesso con le famiglie dentro. Secondo il dottor Ghassan che dirige il locale Medical Relief, «Negli ultimi 6 anni sono morte 975 persone a Nablus, oltre a 7.000 feriti, 1.000 dei quali hanno riportato disabilità permanenti, anche molto gravi». A Nablus conoscono per esperienza le nuove armi israelane, «una sorta di bombe di precisione che infliggono ferite terribili, a causa di particolari schegge mai viste prima, di un materiale quasi polveroso, in grado di spappolare gli organi interni e non rintracciabile ai raggi x».
Armi da genocidio, da sfoltimento demografico.


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