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Come si fa cultura (non in Italia)
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Lo sapevate che il mausoleo di Adriano, oggi Castel Sant’Angelo, era ornato di due notevoli pavoni in bronzo, messi lì come simbolo dell’immortalità, perchè si credeva che i pavoni avessero carne incorruttibile? Io, dilettante di antichità romane, confesso che non lo sapevo. E nemmeno sapevo che quei due bronzi di pavone esistono ancora: appartengono ai musei vaticani. Adesso li potete vedere non da noi, ma al British Museum, a cui quello Vaticano le ha prestate per la grande mostra sull’imperatore, Hadrian.

Adriano, che governò l’impero dal 117 al 138 dopo Cristo, fu un grandissimo costruttore; su suo impulso e indicazione l’architettura romana sviluppò le sue immense capacità scenografiche e illusionistiche; sotto di lui quell’arte potentemente «romana» – che come la politica romana era dominio forte e sereno dello spazio – cominciò a spiritualizzarsi, a trasformare i volumi possenti in ombre e luci senza peso. Motivo non ultimo per cui, poi, tante basiliche e templi divennero chiese cristiane.

Ovviamente, è in Italia che si può vedere l’attività costruttiva di Adriano. In teoria. Il Pantheon non manca di incutere rispetto al più sciocco turista, con il suo limpido interno. Del mausoleo – ora Castel Sant’Angelo – già potete capire meno, per le aggiunte e le concrezioni dei secoli e dei cambi di destinazione, da sepolcro a fortezza. Magari qualche disegno, qualche plastico in scala adeguata (cioè non microscopica), qualche didascalia, potrebbero aiutare il visitatore ad intuire quella certa grandezza; ma è una cosa che in Italia, semplicemente, non si fa.

Gli archeologi si parlano tra di loro, in testi illeggibili. I visitatori del centro della romanità, si arrangino ad errare fra le antiche macerie abitate da gatti pulciosi; o a visitare il museo nazionale romano tra uno sciopero e un’assemblea del personale. Senza la minima indicazione a suo beneficio. Se non avete la fortuna di essere accompagnati da un archeologo, il Foro non vi dirà nulla o quasi.

Questa mancanza è ancora più dolorosa nell’altra grande realizzazione di Adriano, la sua villa di Tivoli. Le più romantiche rovine del mondo, certo; ma tristemente spogliate delle statue trovate (e mai che, al loro posto, ci siano delle riproduzioni); quasi senza cartelli indicatori esaurienti, mai una ricostruzione al computer di come apparivano i luoghi e i colonnati completi, mai un restauro leggibile al comune mortale.

Una mia amica americana, delusa da quella visita-scampagnata, mi disse che si doveva fare una Villa di Tivoli in plastica e grandezza naturale, in modo da poterla vivere. So che questo suona un’americanata, orrore per gli «studiosi». Ma, deluso anch’io dalla visita e un po’ vergognandomi come italiano dello stato delle magnifiche rovine, le ho dato ragione.

Ebbene: tutto questo – tutto quel che spregia l’Italia, dove il turismo colto dovrebbe essere attratto, come la nostra vera industria – l’hanno fatto al British. Nè il Pantheon nè la villa Adriana, nè il mausoleo e nemmeno il Vallo Adriano là in Scozia possono essere trasportati. Ma tutti sono stati ricostruiti dagli inglesi con modelli su scala ragguardevole.

Il mausoleo è «evocato» con un montaggio di gigantografie eccezionali, ravvivate dai due famosi pavoni di bronzo (che non abbiamo mai visto in Italia; o se li abbiamo visti, non li abbiamo collegati a Castel Sant’Angelo). Il Pantheon è lì come insieme di foto e di plastici, ma con l’accortezza di averlo disposto nella ex-sala di lettura del British, perchè è coperta da una cupola. Quanto alla villa di Tivoli, la ricostruzione del modello in scala ragguardevole «rende intelleggibili le sue straordinarie dimensioni più che a chi cammini nel sito originale», ha scritto il critico del Financial Times. Sottoscrivo. Ma in Italia non si fa.

E mentre girate per le esposizioni britanniche a lui dedicate, potete ascoltare l’imperatore che arringa le truppe in Nordafrica, ovviamente in inglese, traduzione di uno dei suoi discorsi alle legioni. I prestiti ottenuti da 28 musei nel mondo vi imprimono l’idea della vastità dell’impero su cui Adriano regnò.

Vedrete una testa bronzea di Adriano trovata lungo il Tamigi, di fattura provinciale; un altro suo volto trovato sul Giordano negli anni ’70, e conservato a Gerusalemme, di fine fattura ellenistica; e insieme, la testa in marmo di una sua statua colossale (una quarantina di metri) trovata a Sagalassos in Turchia sud-occidentale, recentissima scoperta di archeologi turchi (è del 2007) insieme ad altre parti del corpo colossale.

Da noi è semplicemente impensabile che un reperto possa essere parte di una mostra internazionale a 18 mesi dalla sua scoperta: gli «studiosi» devono «studiarlo», i ricercatori devono scriverci le tesi di dottorato... tanto più che il reperto turco ha particolarità speciali. Non tutta la statua era di marmo, il corpo doveva essere di legno ricoperto in bronzo. Una tecnica usata fin dai tempi di Alessandro il Macedone per statue colossali. Sono esibite foto del ritrovamento nello scavo turco, che imprimono l’eccitazione e la sensazione degli scopritori. Come spesso accade alle antiche statue, anche questa era amputata del naso (trovato poco distante); i curatori del British l’hanno dotata di un naso di gesso identico all’originale, opera delle rinomate officine artigiane del British Museum, che possono vendervi a richiesta la copia perfetta di qualunque oggetto esposto: dalla testa di Nefertiti alle statue del Partenone in calo di gesso, fino all’oreficeria greca, egizia ed etrusca in similoro. Orrore, orrore, in Italia!

Un bassorilievo mostra Adriano mentre ordina l’abbruciamento delle cartelle fiscali: adeguate didascalie vi spiegano che la sua ascesa all’impero aveva suscitato sospetti – forse il suo predecessore Traiano (invasore dell’Iraq tra l’altro) era stato avvelenato dalle donne di corte – e quindi si ingraziò la classe dirigente abbonando i debiti fiscali dei 14 anni precedenti, con il gesto ostentato di bruciare le registrazioni tributarie proprio nel foro di Traiano. Le immagini scolpite delle donne di corte che gli tennero (forse) bordone sono effigiate lì, con le loro incredibili acconciature torreggianti di rappresentanza; apposite didascalie vi spiegano che quelle rigide cascate di boccoli e riccioli erano sostenute, nella vita reale, da castelli di filo di ferro.

Insomma, si è fatto di tutto per imprimere un significato ai ritrovamenti, per imprimere all’antico, perspicace, malinconico imperatore-architetto il palpito della vita e persino dell’attualità: cosa che in Italia, Dio ne scampi, non si fa.

In questo sforzo non potevano mancare alcune delle infinite statue di Antinoo, il suo giovane amante greco, di cui Adriano riempì l’impero dopo la morte misteriosa del giovane, nel 130, caduto da una barca sul Nilo. Il lato enigmatico del caso non sta nel fatto che Adriano avesse un amante maschio, ma nel fatto che divinizzasse, dopo la sua morte, l’oggetto della sua privata passione, e che vi riuscisse senza incontrare resistenze nè lazzi nel vasto mondo romano (quello che pure aveva sbertucciato la presunta bisessualità di Cesare), fino al punto da fondare una città in suo onore, Antinopoli in Egitto.

Il pathos della sognante, presaga bellezza di adolescente che le statue restituiscono – insieme ad alcune adeguate didascalie sugli attributi divini scolpiti con lui – aiutano ad intuire il perché: in Antinoo si vide una «epifania», un trasparire delle bellezza assoluta del divino, e della sua potenza magica, nel nostro mondo. Uno dei lati più sfuggenti della mentalità antica – la capacità di vedere in una conchiglia non già «un simbolo» di Afrodite, ma Afrodite stessa in forma di conchiglia, o in un promontorio il suo «genius», o in un regnante la Fortuna e Felicitas – è qui, se non affrontata, almeno allusa.

Nemmeno la politica romana si può comprendere, senza intuire questa corrente «sacra» sotto i titoli politici: «Augustus», la forza magica che fa crescere e sanare, era un richiamo di legittimità.

Adriano fece costruire naturalmente un tempio al suo divino Antinoo anche a Tivoli, in stile egizio, a fianco dell’entrata della grandissima villa. Il sito è stato recentemente scoperto da nostri archeologi. Al British, è mostrato per la prima volta il sito, ma anche il modello in scala e la proporzione del tempio con la villa. Non vorrei sbagliare, ma se andate a visitare la villa Adriana originale, troverete probabilmente solo una staccionata fra le erbacce, con filo spinato rugginoso e cartelli che intimano: «Vietato entrare», «Pericolo», eccetera.

Forse per questo il British Museum è in attivo – grazie anche alla sua caffetteria, ai suoi ristoranti, al negozio interno dove vi vendono qualunque riproduzione e insieme libri, cartoline, magliette-ricordo, mentre in Italia l’archeologia e i musei sono un costo che non si ripaga mai (1).

Sogno una Pompei di cartone e di gesso stile Disneyland accanto a quella vera, in mano attualmente alla camorra e ai suoi affarucci micragnosi; con i calchi dei morti rimessi là dove furono trovati; con serate di giochi di suoni e luci, ristoranti antico-romani dove si possa assaggiare la lingua di fenicottero, soldati romani arruolati fra i disoccupati permanenti, rappresentazioni non-stop dei suoi ultimi giorni, con tanto di storie di fedeltà e di terrore.

Sognerei un posto dove si potessero leggere in grandezza naturale i graffiti elettorali o sagaci o insultanti (ma spesso in eleganti esametri) che i pompeiani scrivevano sui muri, quasi una vera passione di massa per la scrittura; sognerei di vedere in funzione alcune delle botteghe  che vendevano cibi cotti, e poterli assaggiare; sognerei di vedere il soldato o gladiatore (aveva una cintura di cuoio con il gladio appeso) che accompagnò fino al porto la misteriosa signora che portava nella fuga uno scrigno di gioielli, e fedele morì con lei.

Tutto ciò è stato trovato, spiegato, documentato; ma naturalmente, è sottratto al suo ambiente e riservato agli «studiosi», come farfalle infilzate sotto vetro da qualche parte.

Sognerei il tentativo – in grande, nazionale, con la consulenza di specialisti degli effetti speciali – per ridare la vita ad ogni luogo impareggiabile delle impareggiabili antichità italiane. Tutto questo creerebbe un’industria di oggetti, riproduzioni, guide e libri che darebbe lavoro a migliaia di giovani colti, amanti delle cose classiche, sempre più rari e nonostante ciò, disoccupati; oltrecchè a un’industria turistica ambiziosa e speciale, che non si limiti a reclamizzare «il nostro bel mare» o la sagra della melanzana.

Ma sono sogni, naturalmente. Da noi la cultura deve essere fossile, accademica, priva di vita e riservata ad una delle tante caste, gli specialisti, le «Belle Arti» a questa riserva corrisponde l’ignoranza incivile del «popolo» pronto a costruire case abusive sui templi siculi. Non è un caso, l’una richiama l’altra.

E magari, alla fine, il sindaco-kippà di Roma comprerà dal British la mostra «Hadrian»: perchè questa cultura si esporta perfino, e con profitto. Noi, con i materiali che abbiamo, solo coi fondi nascosti nelle cantine dei nostri musei, potremmo fare 300 mostre internazionali itineranti ogni anno. Ma non siamo capaci. Che tristezza.



1) Leggo che il parco archeologico di Siponto, con custodi e tutto il resto, ha quattro (4) visitatori l’anno; il parco archeologico di Monte Sannace (Bari) ne ha 122, l’antiquarium di Numana (Ancona) 594, l’antico porto di Ravenna, così importante per la tarda latinità, ne ha 600 l’anno. Persino a Pisa, visitata da tanti turisti per la torre pendente, il museo nazionale di Palazzo Reale ha solo 299 visitatori l’anno. Chi ha provato a fare queste visite non fatica a capire perchè: i luoghi sono mal segnalati, mai reclamizzati, di accesso difficile o addirittura ostile (a Siponto, bisogna telefonare per appuntamento), i musei – poco finanziati e quindi polverosi, con centinaia di opere in magazzino – estraniati dalla vita della città e dalla sua cittadinanza, che non li conosce e non li ama; avventurarsi in un museo italiano significa errare da soli, seguiti dagli sguardi di custodi carichi d’odio, perchè si annoiano inoperosi e immaginano le cose divertenti che potrebbero fare «fuori» da quella polvere muta – lo struscio nella via, il drink al bar, la partita in TV – se solo non fosse per quel cretino di turista. Manca alla cultura e al patrimonio (il più immenso del mondo, è bene ricordarlo) quel che le volontà private sono riuscite a fare per il tessile, la moda o la rubinetteria: i «distretti integrati», cordialmente aperti al mercato e alla mercanzia e allo scambio. I distretti di Prato o del Nord Est li hanno fatti gli ingegniosi cafoni italiani; ma la cultura è appunto ciò che i cafoni non possono fare. Ci sono in Italia 400 musei statali, e tutti perdono soldi e – continuamente – visitatori. Ne perde persino il Cenacolo di Leonardo a Milano (-0,8% di visitatori), persino gli Uffizi (-2,9%), financo i templi di Paestum (-7,5%). I soprintendenti dei 400 musei dipendenti dell’unico Stato non si prestano i reperti nemmeno fra loro; figurarsi il prestito all’estero in vista di esposizioni come «Hadrian». Del resto, ogni tentativo del genere diventa un incubo burocratico scoraggiante. I conservatori guardano tesori come fossero loro privata proprietà, ogni odore di «profitto» li schifa e induce al disprezzo. L’ignoranza della classe cosiddetta dirigente fa il resto. Recentemente, la Regione Lombardia  ha voluto allestire una mostra di Made in Italy (grande novità) in Cina; ora, a Milano esiste il miglior museo di abiti e stoffe antichi, cinquecenteschi broccati, al Castello; ed anche le armature lombarde, famose nei secoli dalla Francia all’Inghilterra, perchè richieste dai re e dai principi per le parate e le giostre, vi sono ben rappresentate. Ho suggerito all’amico che si occupava di allestire la mostra sul piano pratico di informarne i «dirigenti» regionali, perchè magari non lo sapevano. Infatti non lo sapevano. Ma peggio, la loro risposta, tra lo sconcerto e il disprezzo, è stata: «Ma che cosa c’entrano 'ste cose col Made in Italy?» Alla fine, i pezzi che si è ritenuto necessario mandare in Cina sono stati quadri di un pittore contemporaneo informale, di cui mi sfugge il nome, e italiano solo per metà; insieme, immagino, alle solite sfilatine di Armani e Prada. 


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