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Intellettuali ebrei: pagati dal governo
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I nomi sono famosi a livello internazionale: Amos Oz, David Grossman, tanto per farne due. Sono gli intellettuali ebrei di mente aperta, sempre invitati alle mostre del libro, sempre in viaggio da un festival della cultura all’altro. Gente di talento, senza dubbio. Autori di romanzi, saggi, musiche, pieces teatrali. Appena  sbarcano - a Torino, a Milano, a Parigi, dovunque nella vecchia Europa - vengono intervistati devotamente, e gli intervistatori si beano del loro progressismo.

Essi parlano infatti della pace, e della necessità della comprensione fra i popoli. Si permettono di criticare persino l’occupazione. Si dichiarano contrari alla penultima guerra di Israele (all’ultima no: questa è diversa, è in gioco l’esistenza stessa, mio figlio è caduto in mimetica...). E lì, alle mostre e ai festival della poesia, dei libri e della bellezza, vendono la loro mercanzia: firmano le copie del loro ultimo romanzo, esibiscono i loro film che vengono immancabilmente premiati (come ci spiega il critico di turno di Repubblica o del Corriere) per il «messaggio di pace» che contengono, smerciano i loro CD e firmano contratti per rappresentare le loro opere teatrali.

Nessuno sa che essi stanno lavorando per lo Stato di Israele.Obbligati sotto contratto a «contribuire a diffondere una buona immagine» di Sion. Lo ha scoperto un poeta israeliano, Ytzhak Laor, che ne ha scritto su Haaretz (1).

A Laor accade questo: invitato al festival della poesia di Barcellona, il suo invito viene poi misteriosamente cancellato «per ragioni di budget». Può partecipare, ma il viaggio bisogna che se lo paghi di tasca sua. Sicchè, quando gli giunge l’invito al festival della poesia di Sidney, Laor chiede prudentemente ai suoi ospiti australiani: cosa fate per le spese di viaggio? Niente paura, gli rispondono quelli: l’anno scorso abbiamo invitato l’altro vostro celebre poeta, Ronny Somech, e il volo glielo ha pagato il ministero degli Esteri israeliano. E sì che Somech ha parlato un sacco di pace e di coesistenza. Quindi chiederemo noi al vostro ministero... A farla breve, anche l’invito di Sidney viene poi cancellato.

Laor, punto sul vivo, si chiede: come mai il ministero, che paga i viaggi a Somech, non li paga per me? Fa una discreta inchiesta, e alla fine gli arriva a casa - da una fonte che preferisce non nominare - il contratto segreto che lo Stato fa firmare agli artisti, come condizione per coprire le spese. Contratto che a lui non è stato mai nemmeno sottoposto, evidentemente perchè non parla di pace e coesistenza in modo soddisfacente. E’ un lungo e barboso contratto in burocratese, per la cui lettura integrale si rimanda ad  Haaretz.

Le clausole che contano sono quelle in cui l’artista (definito «service provider», fornitore del servizio) si promette non solo il pagamento di biglietti aerei, ristoranti e alberghi, ma anche gli «emolumenti artistici» del caso, però a precise condizioni, come risultano al paragrafo 5: «Il fornitore del servizio si impegna ad agire fedelmente, sotto la propria responsabilità e infaticabilmente (sic) per fornire al Ministero i più alti servizi professionali. Il fornitore del servizio prende atto che lo scopo della richiesta dei suoi servigi è promuovere gli interessi politici dello Stato di Israele attraverso la cultura e l’arte, in ciò essendo compreso il contribuire a creare una immagine positiva per Israele». «Il fornitore del servizio non dovrà presentarsi come agente, emissario, e/o rappresentante del Ministero». «Il fornitore del servizio deve anche fornire al Ministero un dettagliato rapporto sui servizi da lui forniti, includendovi campioni e prove» (immagino, ritagli di giornale sugli interventi dell’artista all’estero, come prove della favorevole immagine che ha diffuso).

Infine, al paragrafo 15, la chiara minaccia: «Il Ministero ha il diritto di annullare il contratto, o parte di esso, in via immediata e a totale discrezione del Ministero, se il fornitore del servizio non fornisce al Ministero i servizi e/o non adempie agli obblighi in cui è impegnato in base a questo contratto, e/o li fornisce in modo inadeguato e/o con piena soddisfazione del Ministero, e/o esce dalla tabella di marcia (timetable), e/o se il Ministero non abbisogna del servizio (...) e il fornitore del servizio non avanzerà alcuna pretesa, richiesta o azione legale basata sull’annullamento del contratto da parte del Ministero».

Insomma, il libero artista israeliano - se vuole partecipare ai festival culturali all’estero - non solo si impegna a propagandare la linea politica israeliana; non solo a dissimulare la sua condizione di «agente ed emissario»; ma è anche tenuto, al ritorno, a fare un rapporto al Ministero per  comprovare la sua «utilità». E se fa il furbo e dice qualcosa di sgradito, il Ministero degli Esteri gli annulla il contratto di «fornitore» di propaganda, e il volo Tel Aviv-Sidney-Tel Aviv se lo deve sborsare di tasca sua.

Non sembra proprio un  contratto da «unica democrazia del Medio Oriente». Al contrario, somiglia in modo agghiacciante agli impegni che dovevano firmare al KGB i letterati sovietici di regime per ottenere il sospirato viaggio all’estero, la boccata d’aria fuori dal paradiso dei lavoratori; compreso l’obbligo, al ritorno, di «riferire».

«E’ importante capire», scrive inoltre Laor, «che l’ambasciata e l’addetto culturale (israeliano) determinano il valore di ciascun artista e di quanto larga e favorevole audience ciascuno è in grado di attrarre. Questo a sua volta determina il valore dell’hotel (in cui sarà ospitato), dei voli, e naturalmente dell’onorario artistico spettantegli».

Sono sicuro che Amos Oz e David Grossman scendono invariabilmente in alberghi a cinque stelle. Ytzak Laor non può nemmeno andare a Barcellona in pensione-famiglia: quanto guadagna infatti un poeta? Dipende.

Dipende se l’Istituto (statale) per la Traduzione della Letteratura Ebraica sceglie di tradurre le sue poesie o no, in modo da farle conoscere in inglese ed altre lingue ad ampia diffusione. Ma anche la traduzione non basta: per promuovere le vendite e le critiche e gli articoli sui giornali stranieri, bisogna fare la tournée a Parigi, a Londra e a Roma, firmare copie, farsi fotografare e rilasciare interviste (su pace e convivenza) per le pagine culturali del Corriere o di Le Monde. E per i viaggi, anche l’Istituto di Traduzione non può che rimandare al Ministero degli Esteri; e precisamente alla sua Division for Cultural and Scientific Affairs (DCSA).

Gli organizzatori dei festival culturali, conclude Laor, «sono convinti, nella loro innocenza, che questa Divisione sia qualcosa di equivalente al Goethe Institute tedesco, alla Società Dante Alighieri italiana o alla Alliance Française parigina (istituti che promuovono le rispettive culture nazionali). Non è questo il caso». Si tratta della Stasi israeliana, o della branca «culturale» del Mossad.

Così, oltre ai suoi kidon (le squadre di assassinio all’estero), ai suoi sayanim (ebrei residenti all’estero che collaborano volontariamente alle operazioni, siano spionaggio, assassinio o disinformazione e propaganda), ha anche i suoi «artisti» in missione segreta a contratto. I soli che vengono promossi e di cui possiamo sentire la «calda voce umanitaria».

Forse si ricorderà che qualche mese fa alla Fiera del Libro di Torino con ospite d’onore Israele, alcuni intellettuali arabi (ed anche italiani) ne proposero il boicottaggio, data l’oppressione che Sion continua ad esercitare sui palestinesi. Altissime voci si levarono a biasimare «l’intolleranza», a proclamare che la «cultura» non può obbedire a «censure» e a «intimidazioni», eccetera, eccetera.

Alla luce di quel che ha rivelato Laor, ci si dovrebbe chiedere se il boicottaggio della «cultura israeliana» e dei suoi famosi «agenti culturali» non sia invece il solo modo di liberare gli artisti, scrittori e poeti dal guinzaglio del loro regime.




1) Ytzhak Laor, «Putting out a contract on art», Haaretz, 25 luglio 2008. In occasione della Fiera del Libro di Torino, e delle polemiche che ne sono nate, Laor ha scritto la seguente lettera aperta: « (...) Il nostro problema qui, in quanto israeliani contro l’occupazione, è un problema concreto con i nostri vicini concreti, quelli che tornano a casa dopo avere prestato servizio ai blocchi stradali e avere trattato esseri umani come animali: diventano fascisti attraverso la pratica - ossia attraverso il servizio militare - e solo poi fascisti ideologicamente. Questo non preoccupa la sinistra filo-israeliana in Italia. Tu sostieni che la sinistra italiana non avrebbe trattato un boicottaggio del Sudafrica nel modo in cui sta trattando qualunque proposta di boicottaggio di Israele. Ma la cosa è più semplice: pensa alla sinistra italiana durante la prima guerra del Libano e paragonala alla sua posizione attuale. Non è l’occupazione a aver cambiato natura. è l’Europa occidentale che è cambiata, che è tornata al suo vecchio modo di guardare i non-europei con odio e disprezzo. Nell’immaginario della sinistra italiana, i palestinesi hanno perso lo ‘status’ simbolico di cui godevano un tempo (la kefia al collo di decine di migliaia di giovani italiani, ad esempio) e sono passati nell’hinterland dell’Europa: dove gli americani possono fare quello che vogliono, e l’avida Europa, come sempre, si schiera dalla parte dei più forti. I palestinesi sono ancora una volta solo degli arabi che sanguinano, e il sangue arabo - proprio come in passato il sangue ebraico - vale poco. Si potrebbe riassumere il cinismo dell’attuale scena italiana citando Giorgio Napolitano, quando ha fatto riferimento a una vecchia discussione che ebbe nel 1982 a Torino con l’allora comunista Giuliano Ferrara. Riflettendo sulla posizione del PCI sul massacro di Sabra e Shatila, Napolitano, che sarebbe poi diventato Presidente, ha detto: ‘Per quanto riguarda una determinata persona (Giuliano Ferrara), ricordo solo che egli si faceva promotore di una causa (la causa palestinese nel 1982) che nel Partito godeva di una qualche popolarità, ma che non ci avvicinava per nulla alla presa del potere’. Machiavelli avrebbe dovuto incontrare sia Ferrara che il presidente italiano per un drink sui fiumi di sangue palestinese. Ma il cambiamento di posizione della sinistra italiana ha molto poco a che vedere con la propaganda israeliana, anche se la Fiera del libro di Torino rientra anch’essa nella propaganda israeliana. Concentriamoci per un momento su questa fiera, a titolo di esempio. Abbiamo a che fare con la Cultura, che è sempre la ‘coesistenza’ di affari (delle case editrici, ad esempio) con il razzismo implicito degli ‘amanti della Cultura’, cultura che è sempre puramente occidentale (cristiana o ‘secolare’). Gli israeliani in questo contesto sono gli ‘eredi della buona vecchia Europa’, mentre gli arabi, naturalmente, non sono ammessi in questa cultura. In breve, la xenofobia italiana ha anche un volto umano: la Fiera del libro di Torino. Il nostro Stato, che da 41 anni sta privando un’intera nazione di qualunque diritto se non quello di emigrare, viene celebrato dalla Cultura. Bene, questa è l’Europa - dopo tutto, la stessa Europa che noi e i nostri genitori abbiamo conosciuto: la Cultura è sempre stata la cultura dei Padroni. Il dibattito sulla Fiera del libro può dimostrare come la sinistra, un tempo la più sensibile d’Europa verso la causa palestinese, sia diventata la più cinica sinistra filo-israeliana». Laor ha pubblicato un saggio dal titolo: «Il nuovo filosemitismo europeo».


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