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David Ben Gurion (6)
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Dalla Guerra contro l’Egitto (1956) alla Guerra dei Sei Giorni (1967)

Ben Gurion ridiviene Primo Ministro (1955)

Il 2 novembre del 1955 il laburista Ben Gurion ridivenne Primo Ministro dello Stato d’Israele. Il laburista moderato Sharett conservò il Ministero degli Esteri, pur avendo perso la Presidenza dei Ministri occupata da Ben Gurion. L’estrema-destra, tuttavia, avanzò fortemente alle elezioni del 26 agosto e  riacquistò baldanza.

Israele si prepara ad attaccare l’Egitto (1955)

Verso la fine del ’55 Ben Gurion difese il piano dell’allora colonnello Moshe Dayan di attaccare l’Egitto per obbligarlo a concedere a Israele la libertà di navigare sulle acque del Golfo di Aqaba con le sue navi da guerra. Sharett si oppose e riuscì a far respingere il piano Dayan-Gurion. Questa mossa spinse Ben Gurion a licenziare il suo Ministro degli Esteri (cfr. Abba Eban, Storia del popolo ebraico, Milano, Mondadori, 1971).

La laburista Golda Meir prese il posto di Sharett al Ministero degli Esteri. Ben Gurion compì in quel frangente un “salto mortale” che potrebbe lasciare attoniti, se non si conoscesse la duttilità e il machiavellismo del personaggio politico in questione.  Infatti, siccome anche gli Usa furono restii a fornire ancora altre armi a Israele, David si rivolse all’odiatissima Inghilterra e alla Francia, “congelando” momentaneamente i rapporti preferenziali con gli amatissimi Usa.

In occasione dei suoi viaggi in Usa e in Europa (1960) Ben Gurion “giocò a fondo la carta americana, ma si riavvicinò anche all’Inghilterra e alla Germania Federale e conservò l’alleanza con la Francia. Nel marzo 1960 ricevette da Eisenhower la promessa di missili per Israele, che ottenne poi da Kennedy. Davanti ai fotografi strinse la mano ad Adenauer, dal quale riscosse un prestito di 500 milioni di dollari e molte armi fornite segretamente e gratuitamente. Non meno segretamente, soldati e ufficiali israeliani vennero addestrati all’uso delle nuove armi in territorio tedesco” (cfr. Maxime Rodinson, Israele e il rifiuto arabo, Torino, Einaudi, 1969). Sempre nel 1960 Gurion ottenne da De Gaulle l’aiuto segreto per la costruzione di un reattore nucleare (cfr. Cahiers de l’Orient contemporain, Parigi 1961).

Siria e Egitto si alleano (1955)

Nasser (il nuovo leader dell’Egitto) si alleò formalmente con la Siria nel novembre del 1955, annunciando l’unificazione dei Comandi difensivi dei 2 Paesi in funzione antisionista. Nella notte tra l’11 e il 12 dicembre del 1955, in séguito ad un attacco via terra dei Siriani contro 2 motovedette israeliane che avevano sconfinato, Ben Gurion ordinò una rappresaglia, facendo distruggere le posizioni siriane che dominavano il Lago di Tiberiade (cfr. D. Ben Gurion, Israele : la grande sfida, Milano, Mondadori, 1967). Ma il Consiglio di sicurezza dell’Onu espresse tutta la sua preoccupazione per il fatto che Israele non rispettava gli accordi presi, sconfinando spesso e volentieri.

Nasser nazionalizza il Canale di Suez

Nasser a causa della decisione degli Usa di non finanziare la costruzione della diga di Assuan, dopo 3 anni di trattative con l’Egitto,  ruppe con gli Americani e nazionalizzò il Canale di Suez (26 luglio 1956), alleandosi con la Cina e ottenendo le armi (carri armati, areoplani, sottomarini, cannoni…) dall’Urss e dalla Cecoslovacchia per potere fronteggiare un eventuale attacco israeliano. Il transito attraverso il Canale di Suez nei primi 6 mesi del 1956 aveva fruttato 100 milioni di dollari alla Compagnia del Canale, di cui solo 3 milioni erano andati all’Egitto. Nasser dichiarò che il denaro ricavato da Suez sarebbe servito per la costruzione della diga di Assuan.

Il  prestigio di Nasser aumentò notevolmente e ciò preoccupò Ben Gurion, che temeva un risveglio del mondo arabo aiutato da Cina e Urss proprio quando lui aveva (momentaneamente) “allentato” i rapporti con gli Usa.

Fu allora che David si recò in segreto a Sèvres in Francia, accompagnato dal colonnello Dayan e dal Ministro Shimon Peres (il futuro Presidente d’Israele), iniziando le trattative israelo-anglo-francesi. Il 23 ottobre le 3 potenze raggiunsero un accordo e Ben Gurion ritornò in Israele su un aereo francese, portando con sé i piani di guerra contro l’Egitto.

Israele invade l’Egitto (1956)

Il 29 ottobre una colonna armata israeliana (sostenuta dall’aviazione militare francese) penetrò in Egitto dirigendosi verso il Canale di Suez e fermandosi, il 4 novembre, a ridosso del Canale pur prevedendo, gli Israeliani, che se avessero occupato il Sinai alcune super-potenze (Usa e Urss) li avrebbero fatti evacuare. Tuttavia ciò che premeva di più a Ben Gurion era ottenere la libertà di navigazione nel Golfo di Aqaba (o stretto di Tiran) ed era perciò disposto a conquistare il Sinai e poi anche a doverlo evacuare pur di mantenere la libera circolazione nel Golfo di Aqaba, cosa che facilmente gli sarebbe stata accordata.

Il giorno dopo (30 ottobre), secondo quanto già stabilito in segreto a Sèvres, gli anglo-francesi intimarono agli Egiziani e agli Israeliani (che a differenza dei primi  erano a conoscenza del piano franco-britannico) di ritirare le loro truppe a 16 chilometri da ciascuna sponda del Canale di Suez, pensando che Nasser avrebbe respinto l’ultimatum, offrendo così il pretesto ai due Stati europei di intervenire in Egitto e specialmente nel Canale di Suez. Invece Nasser non si mosse, non attaccò gli Israeliani e non respinse formalmente l’ultimatum, mentre Israele continuò ad avanzare. Il 5 novembre 1956 l’Onu (con 64 voti contro 5) impose il “cessate il fuoco”, ma i paracadutisti anglo-francesi occuparono la zona del Canale. Tuttavia gli Usa furono fermi nel condannare l’intervento, la Russia minacciò di usare l’arma atomica. Quando le truppe anglo-francesi occuparono il porto di Alessandria di Egitto, dopo 2 giorni di combattimento, i loro governi ordinarono ad esse di consegnarsi al “Corpo di pace” dell’Onu.

Da questa storia gli anglo-francesi ne uscirono umiliati. Nasser, nonostante la sconfitta militare, riportò un’importante vittoria diplomatica. Gli Israeliani, dopo aver obbedito al cessate il fuoco ingiunto il 6 novembre dalle Nazioni Unite, acquistarono un’aura di “invincibilità”[1] e Ben Gurion affermò euforico:  “Abbiamo fondato il terzo Regno di Israele”. Tuttavia gli Usa non gli dettero tregua, minacciando sanzioni per ottenere che le truppe israeliane si ritirassero dal Sinai egiziano. Il Presidente statunitense Eisenhower l’8 novembre scrisse una lettera a Ben Gurion chiedendogli di “non mettere a repentaglio l’amichevole cooperazione esistente tra i loro Paesi”. Siccome il ritiro furbescamente fu iniziato ma non fu completato, il 3 febbraio 1957, Eisenhower riscrisse a Ben Gurion, che molto diplomaticamente dette la sua disponibilità ad ultimare il ritiro a condizione che gli fosse garantita la libertà di passaggio attraverso il Golfo di Aqaba.  Il 2 marzo Eisenhower concluse il carteggio con Ben Gurion ringraziandolo della sua disponibilità a ritirarsi completamente e facendo capire implicitamente che la libera navigazione di Israele nel Golfo di Aqaba sarebbe stata garantita.

Ben Gurion, pur non avendo potuto mantenere tutto ciò che aveva conquistato, aveva raggiunto lo scopo principale dell’operazione: la libera navigazione per Israele nello Stretto di Tiran o Golfo di Aqaba (cfr. Nuccio Francesco Madera, Ben Gurion, Milano, Mondadori, 1972, p. 130).

Dopo il 1956 inizia il declino di Ben Gurion

Tuttavia dopo questa serie di trionfi iniziò gradualmente il declino di Ben Gurion. Infatti “si manifestò in lui una certa tendenza ad inasprire eccessivamente alcune animosità personali e partitiche nell’ambito della vita nazionale. L’elettorato, malgrado la venerazione che solitamente gli aveva attribuito, evitò sempre con prudenza di dare la maggioranza assoluta ai partiti da lui diretti. Si temeva che egli avrebbe sfruttato al massimo qualsiasi autorità di cui fosse stato investito e quindi fosse meglio non dargliene troppa” (Abba Eban, Storia del popolo ebraico, Milano, Mondadori, 1971).

Inoltre in Israele tra il 1962 e il 1963, durante il processo a Eichmann, si accese una violenta campagna antitedesca e naturalmente la richiesta di finanziamenti fatta da Ben Gurion alla Germania di Adenauer ritornò a galla e mise in cattiva luce Gurion non solo di fronte all’estrema-destra, ma anche di fronte alla corrente più intransigente del suo stesso partito (che era divenuta maggioritaria).

Oramai si facevano strada gli esponenti politici più giovani detti anche della “seconda generazione” (Abba Eban, Golda Meir, Levi Eshkol…), i quali premevano per ottenere la loro piena autonomia che Ben Gurion aveva sempre ostacolato con il suo forte e opprimente paternalismo. Pur riconoscenti verso il “Padre della Patria” i nuovi “colonnelli” oramai volevano fare da soli.

Ben Gurion si dimette definitivamente (1963)

Fu così che il 16 giugno 1963 Gurion annunciò le sue dimissioni irrevocabili e il suo posto fu preso da Levi Eshkol mentre David si ritirò nel suo kibbutz di Sde Boker, ma non abbandonò totalmente la vita politica, anzi nel 1965 partecipò al Congresso del suo Partito (Mapai), in cui venne fortemente contestato per la sua ostinazione che lo portava gli ultimi tempi verso una certa forma di irrealismo. Solo pochi gli rimasero fedeli (Moshe Dayan, Shimon Peres…).

La “Guerra dei sei giorni” (1967)

Nel 1967 scoppiò la “Guerra dei sei giorni”. Nei primi giorni di aprile dei coloni israeliani iniziarono a coltivare alcuni terreni contestati alle frontiere della Siria. Lo scontro campestre divenne una vera e propria battaglia militare in cui vennero coinvolte l’aviazione e l’artiglieria. Gli aerei israeliani arrivarono sino a Damasco, l’Urss ammonì Israele, l’Onu impose il “cessate il fuoco”.

In quei frangenti iniziò l’azione di rappresaglia e di guerriglia palestinese in territorio israeliano, organizzata nei minimi dettagli,  con una tecnologia altamente avanzata dall’organizzazione Al Fatah e portata avanti da elementi molto ben addestrati. Il 12 maggio 1967 il Primo Ministro d’Israele (Levi Eshkol) e il generale Isac Rabin (futuro Primo Ministro) fecero delle dichiarazioni molto severe, che furono interpretate da Nasser come una minaccia di attacco militare; anche i servizi segreti egiziani, siriani e russi confermarono questa interpretazione e segnalarono una forte concentrazione di truppe israeliane verso la frontiera della Siria. Nasser il 14 maggio iniziò ad ammassare truppe nel Sinai e il 22 maggio decretò il blocco navale nel Golfo di Aqaba. Israele rispose dicendo che ogni limitazione alla libera navigazione delle sue navi nel Golfo di Aqaba sarebbe stata considerata come un “atto di aggressione contro lo Stato ebraico”. Ben Gurion il 29 maggio riscese nell’arena politica per sottolineare fortemente questo concetto. Il 30 maggio re Hussein di Giordania volò al Cairo e firmò con Nasser un patto di reciproca difesa. La diplomazia internazionale si dette da fare per scongiurare il pericolo di una guerra, fissando al 5 giugno una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per trattare la questione politicamente, ma prima che iniziasse la discussione nel seno dell’Onu, Israele decise di attaccare sorprendendo tutti. Il 5 giugno 1967, alle ore 7 e 45, un’operazione lampo dell’aviazione israeliana distrusse quasi totalmente gli aeroporti e la flotta militare egiziana (cfr. W. Churchill, La guerra lampo d’Israele, Milano, Mondadori, 1967)[2]. L’Esercito di Nasser senza aviazione e marina, distrutte anche grazie all’impiego di bombe appena scoperte ingegnosamente  da Israele, non poté far nulla contro l’avanzata dell’Esercito israeliano, capitanato da Moshe Dayan e da Isac Rabin, il quale dopo aver invaso il Sinai si attestò presso il Canale di Suez (che l’Egitto aveva chiuso al traffico marittimo) il 10 giugno.

In Siria la resistenza araba riuscì a fermare l’avanzata galoppante dell’Esercito israeliano solo alle porte di Damasco. Al “cessate il fuoco”, dopo 6 giorni di guerra-lampo, Israele si era impadronito del Sinai, di Gaza, della Transgiordania e di una fascia della Siria.

Nasser dette le dimissioni da Presidente dell’Egitto il 9 giugno, ma il popolo egiziano le respinse in massa. Il 5 luglio le Nazioni Unite votarono il ritiro d’Israele dai territori che aveva appena occupati, ma non raggiunsero la maggioranza dei 2/3 dei voti, che era necessaria per rendere operativa la decisione. Frattanto il problema dei profughi palestinesi si aggravava. Infatti ai 100 mila che già si erano rifugiati in Egitto prima della “Guerra dei sei giorni”, se ne aggiunsero altri 350 mila.

Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu votò all’unanimità una mozione sul conflitto arabo-israeliano in cui chiese il ritiro delle forze armate israeliane dai territori recentemente occupati (cfr. Eric Roulau, Israele e gli Arabi, Milano, Feltrinelli, 1968).

Gli ultimi anni di Ben Gurion (1970-1973)

Solo nel 1970 i delegati egiziani, siriani e israeliani si riunirono a New York per discutere il “piano di pace”  annunciato dal Segretario di Stato americano Rogers  (il 25 giugno 1970) e approvato dall’Urss, dalla Francia e dall’Inghilterra. Il 7 agosto Israele ruppe le trattative, installando nuove basi missilistiche  nella zona di Suez; nel mese di settembre morì Nasser (cfr. Robert Stephens, Nasser, a Political Biography, Penguin Press, 1971). Ben Gurion passò tutti i suoi poteri al suo pupillo Moshe Dayan e si spense nel 1973.

Conclusione

Verso la fine del dicembre del 2017 gli Usa hanno deciso che Gerusalemme dovrà essere la capitale del solo Stato d’Israele e non più la Città Santa delle tre confessioni monoteistiche politicamente internazionalizzata.

La Risoluzione n. 181 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 aveva stabilito: “La città di Gerusalemme sarà costituita come un corpus separatum sotto uno speciale regime internazionale e verrà amministrata dalle Nazioni Unite”.

Una delle condizioni imposte poi a Israele per essere ammesso nell’Onu era proprio l’internazionalizzazione di Gerusalemme. Israele, al suo nascere, dette garanzia formale e scritta che non si sarebbe opposto allo statuto internazionale della Città Santa di Gerusalemme. Solo a questa condizione lo Stato d’Israele fu ammesso nell’Organizzazione internazionale, ma oggi (dicembre 2017), con l’aiuto del Presidente statunitense Donald Trump, Israele vìola esplicitamente il patto siglato nel 1949.

Gerusalemme, malgrado tutto, continua ancora ad essere una città giuridicamente e politicamente internazionalizzata perché la maggior parte delle Nazioni facenti parte dell’Onu, nel dicembre del 2017, non ha accettato la decisone statunitense, ma si teme che Israele farà di testa propria e appoggiata dagli Usa s’impossesserà praticamente e pian piano anche di tutta Gerusalemme compresi i Luoghi Sacri del Cristianesimo. Tutto ciò ha una valenza teologica apocalittica e anticristica: il Giudaismo talmudico, avendo fatto crocifiggere Gesù a Gerusalemme, fu punito da Dio e disperso tra le Genti dopo che la Citta Santa dell’Antica Alleanza fu distrutta e rimpiazzata da Roma: la Città Santa della Nuova ed Eterna Alleanza. Ora esso cerca di rimpossessarsi di Gerusalemme e di ricostruirvi il Tempio, cercando di smentire la profezia di Gesù. Dove ci porterà questo stato di cose? Si può ritenere, giustamente e senza tema di esagerare, verso una immane catastrofe.

Lo Stato d’Israele, dal 1948 ad oggi, asserisce che Gerusalemme con  la Palestina (una volta Giudea, sino al 70 d. C.) è “sempre” stata degli Ebrei (nonostante che Roma abbia distrutto Gerusalemme e la Giudea tra il 70-135 ed abbia disperso quasi tutti i Giudei nel resto del mondo allora conosciuto). Inoltre i dati anagrafici dimostrano che gli Ebrei presenti in Palestina nel 1880 erano solo 20 mila, mentre i Palestinesi musulmani erano circa 600 mila e i Palestinesi cristiani oltre 70 mila su un totale di 750 mila abitanti.

Infine gli Ebrei ritornarono in Palestina, con una certa cospicua entità, solo a partire dai primi decenni del XX secolo, arrivando circa alle 200 mila unità negli anni Trenta (su 1 milione di abitanti), raggiungendo - dopo le espulsioni degli Ebrei dalla Germania e dalla Polonia occupata dal III Reich - la cifra di mezzo milione nel 1939[3]. Quindi non si può assolutamente affermare che la Palestina è “sempre stata degli Ebrei”.  Ora è proprio in base a questa menzogna che è stato fondato lo Stato d’Israele.

Inoltre uno dei tratti che lasciano maggiormente perplessi quanto alla nascita dello Stato ebraico è il fatto che il sionismo, pur essendo un movimento politico non religioso, ma ateo o agnostico, si rifaceva alla promessa fatta da Dio al popolo d’Israele di dar loro la “Terra promessa”, ossia Canaan.

Nel 1946 Judah L. Magnes (Preside dell’Università ebraica di Gerusalemme) scrisse: «Uno Stato ebraico non può essere ottenuto, se non con la guerra. Potete parlare di ogni cosa ad un arabo, ma non dello Stato ebraico. E questo perché uno Stato ebraico, per definizione, significa che gli Ebrei governeranno gli Arabi viventi in questo Stato. Si è mai visto un popolo offrire il proprio territorio di propria volontà? Così anche gli Arabi Palestinesi non rinunzieranno alla loro sovranità senza violenza» (Maxime Rodinson, Israele e il rifiuto arabo, Torino, Einaudi, 1969).

Era nella natura delle cose: la creazione di un “Focolare nazionale ebraico” in Palestina non avrebbe potuto che formare un incendio. Infatti 1°) o la Palestina sarebbe rimasta ai Palestinesi; 2°) o sarebbe stata invasa anche dagli Ebrei e gli uni o gli altri avrebbero mirato a diventare la forza principale e lo Stato unico in Terra Santa. In quest’ultimo caso, quindi, vi sarebbe stato un conflitto da affrontare e risolvere con la vittoria dell’uno e la sconfitta dell’altro.

La volontà di predominio assoluto ebraico ha incattivito il mondo arabo e ha creato una catena di problemi, che a partire dal 1948 hanno incendiato il Medio Oriente e ci hanno portato alle “Guerre del Golfo” in Iraq (1991/2003) sino all’attuale guerra in Siria (iniziata nel 2010 e non ancora terminata) in cui si fronteggiano diverse potenze e super-potenze (Usa, Russia, Libano, Iran, Israele, Turchia) e da cui potrebbe nascere una conflagrazione atomica e mondiale.

Nei primi giorni del febbraio 2018 gli Usa hanno bombardato una colonna siriana uccidendo circa 100 militari governativi. La Siria, a sua volta, ha abbattuto un caccia israeliano (9 febbraio 2018) dopo che Israele aveva colpito un drono iraniano, il quale stava ispezionando le zone limitrofe tra Iran e Siria. Quindi Israele ha paventato la possibilità di un attacco in grande stile contro l’Iran (11 febbraio). Frattanto gli eserciti della Siria e della Turchia si stanno affrontando per la questione dei Curdi, che risiedono ai confini tra le due Nazioni. Gli Usa nell’aprile del 2018 hanno bombardato la Siria, minacciando anche le forze armate russe ivi presenti e si è sfiorata la guerra nucleare. Israele soffia sul fuoco. Cosa succederà? E perché tanta voglia di guerra nel Vicino Oriente, che - data la presenza in loco degli eserciti russi e statunitensi - potrebbe diventare mondiale e nucleare? Sembrerebbe si stia ripetendo la vicenda storica degli zeloti, che provocarono Roma nel 64 d. C. e la costrinsero a sedare la rivolta arrivando alla distruzione di Gerusalemme con il suo Tempio (70 d. C.).

La figura di Ben Gurion, il “Padre della Patria” ebraica in Palestina, ci aiuta a capire come si è svolta la fondazione dello Stato ebraico e come si sia arrivati alla situazione attuale, la quale sostanzialmente non è altro che la continuazione della politica di Ben Gurion, pur con delle accidentali differenze di stile.

La storia dello Stato d’Israele non può non interessare i Cristiani, perché nella Terra da esso occupata nel 1948 nacque, visse e morì Gesù Cristo, che fu osteggiato dai progenitori dei sionisti odierni. In breve quel che sta succedendo in Terra Santa è una specie di riedizione del dramma svoltosi nei tre anni di vita pubblica di Gesù, i quali finirono sul Calvario, ma furono compiuti dalla Risurrezione di Cristo e dalla sua vittoria sul Giudaismo rabbinico proprio quando questo sembrava aver sepolto definitivamente Cristo e i Cristiani.

Se le cose volgono al peggio in Medio Oriente, nel mondo intero e persino nell’ambiente ecclesiale non dobbiamo scoraggiarci: la vittoria finale, nonostante la momentanea sconfitta, appartiene a Cristo.

d. Curzio Nitoglia  

Sesta e Ultima Parte

Fine



1] Gli Israeliani ebbero 174 morti e 1 prigioniero, gli Egiziani oltre 900 morti e circa 6 mila prigionieri  (cfr. Jewish Observer, 16 novembre 1956). Tuttavia bisogna tenere a mente che l’Esercito egiziano era stato prima disperso dall’attacco anglo-francese e solo poi si era confrontato con l’Esercito israeliano.

2] Si è anche ammesso che l’Inghilterra e gli Usa sostenessero nascostamente l’Aviazione israeliana (cfr. Herald Tribune, 9 giugno 1967). È certo che l’Urss non fece nulla per aiutare l’Egitto e gli altri Paesi arabi.

3] Cfr. Maxime Rodinson, Israele e il rifiuto arabo, Torino, Einaudi, 1969.


 
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