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I comandi competenti
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Nel suo libro «Condotta italiana della guerra» (Feltrinelli), Lucio Cevi pubblicò  una «Analisi britannica della capacità combattiva delle forze italiane in Africa, 27 gennaio 1941».

Ecco come i comandi britannici giudicarono le qualità dei nostri generali:
«1 - La caratteristica principale della tattica italiana nei teatri di guerra in Libia e in Africa Orientale è stata quella della rigidità. Sono rimasti aggrappati a un solo principio, che consiste nella concentrazione della più grande massa possibile, qualunque sia il compito richiesto. Nell’attacco, essi spalmano questa massa lungo il fronte e si affidano al solo peso dei numeri per sfondare. Vero è che mostrano la tendenza ad avanzare in colonne separate e parallele, e che hanno potuto ottenere qualche penetrazione in Somalia. Ma in pratica queste tattiche non avevano lo scopo di accerchiare le nostre posizioni, e non sono state capaci di penetrarle; hanno avuto successo solo e semplicemente per la piccolezza delle nostre forze. La massa del nemico avanzava su un fronte piuttosto ampio con le ali edstese a grande distanza…».

«2 - La prima direzione di una colonna alle prese col terreno irregolare di Sidi Barrani inizialmente fece credere a una mossa di accerchiamento, ma di colpo si vide che la colonna era solo parte della massa all’attacco sulla fronte. Altre più limitate azioni offensive hanno seguìto la stessa procedura: Kassala, Gallabat, Mojale. In tutti questi casi è ci stato possibile, con truppe risibilmente scarse, infliggere gravi perdite alla massa compatta del nemico prima di ritirarci».

«3 - Inoltre, quando sono arrestate, le forze italiane non sono capaci di continuare l’attacco usando le unità laterali come appoggio di fuoco, né sono capi della manovra a scavalco (leap-frog) per far avanzare le riserve. Vero è che durante l’attacco a Sidi Barrani una divisione fu fatta avanzare attraverso le loro divisioni libiche, ma ciò è accaduto senza alcuno scopo militare, solo per dare a un reparto fascista la gloria di entrare per primo a Sidi Barrani. Il metodo con cui sostengono l’offensiva consiste in spinte successive delle riserve da retro a fronte, così che il corpo principale ricomincia il movimento per il puro peso della massa. Inevitabilmente questo ha portato a grandi perdite delle loro truppe sulla prima linea, come è accaduto in Somalia».

C’è da chiedersi dove mai i nostri supremi strateghi abbiano appreso, e tenuto come buona, questa tattica. Dall’uomo di Neanderthal? Dal regio esercito savoiardo, il più ottuso e retrivo dela storia europea? Dalle trincee sanguinose della grande guerra, tutta giocata dai generali con attacchi frontali che decimavano la truppa, e che loro chiamavano «colpi di maglio» e con simili vanesie e ciniche espressioni retoriche?

Lo sprezzo per la vita dei propri soldati, in questo consisteva tutta la loro tattica; e anche nella seconda guerra mondiale. Se mostravano, con suprema fatica di intelligenza, qualche capacità di manovra, era solo per adulare il potere, facendo passare avanti un reparto di camicie nere per concedere a loro la gloria dei cinegiornali.

Ma torniamo al rapporto inglese:
«4 - Il metodo difensivo italiano non è migliore delle sue tattiche di offensiva. O formano una serie di piazzeforti scaglionate a scarsa profondità, in cui ammassano quanti più uomini e mitragliatrici possibile, oppure formano un fronte di unità ammassate senza alcuna riserva. Il primo metodo è stato adottato nel deserto occidentale dove furono organizzate aree fortificate, in sé forti, ma incapaci di sostenersi a vicenda. A Kassala squadre di uomini sono state spinte avanti e quando si sono accorti che i loro fianchi erano stati aggirati, hanno mandato altre masse sulle ali, privandosi di ogni riserva. E’ evidente che il nemico ha ben poco riflettuto al problema della ritirata, e quando è costretto a farlo, non è capace di disimpegnarsi rapiamente per ritirarsi».

«5 - L’uso del contrattacco sembra sconosciuto al nemico. Non ha mai compiuto un contrattacco su nessun teatro di guerra, benchè nel deserto occidentale e specialmente a Bardia avesse ogni mezzo per farlo».

«6 - Non è difficile trovare le ragioni di questi errori tattici. Anzitutto, gli elementi più giovani dell’armata italiana sono stati educati a sentirsi invincibili solo perché sono italiani e fascisti (…). In secondo luogo, il sistema di avanzamento di carriera per motivi politici produce comandanti e ufficiali che sono incapaci, il che provoca sospetto e gelosie».

«7 - In conclusione, la teoria e la pratica militare italiana sono molto antiquate, e la loro gerarchia militare, basata sul formalismo e sul carrierismo politico, non sanno adattarsi alla guerra moderna. Ma allo stesso tempo sarebbe un errore sottovalutare le capacità combattive del soldato italiano. Oggi, provato dai rovesci, inquieto per il prolungarsi di una guerra che gli era stata promessa breve, demoralizzato dalla mancanza di equipaggiamenti e materiali, che egli attribuisce a favoritismi tra i capi del partito, l’italiano non ha alcun desiderio di combattere in condizioni di tensione e di avversità».

Fra i più acuti strateghi dei nostri competenti comandi non va dimenticato il generale conte Ugo Cavallero, l’artefice del disastro in Albania. Suo figlio ancora ne difese la tattica con queste parole: «L’offensiva della valle di Sesniza, il cui valore è stato negato da strateghi da tavolino, aveva lo scopo di alleviare la pressione sulla difesa nel settore di Valona, non già facendo il massimo sforzo nel punto più debole del nemico, che è lo scopo classico di ogni operazione offensiva, bensì colpendolo dov’era più forte in modo da logorare la sua forza».

Cavallero insomma aveva inventato una nuova tattica, sconosciuta a Napoleone: colpire il nemico dove è più forte, per logorarlo (l’esercito italiano si logorò, disgraziatemente, prima). Chissà perché, il maresciallo Rommel continuò a usare la tecnica che l’aveva reso famoso nella grande guerra: identificare il punto debole dello schieramento nemico, sfondarlo a sorpresa e aggirarlo con velocissimi movimenti di piccoli gruppi motorizzati.

Né si può annoverare Rommel tra gli strateghi da tavolino: la sua strana tecnica consisteva nel dirigere la battaglia in mezzo ai suoi carri armati o anche avanti a loro, al contrario di Cavallero. Forse per questo, quella truppa italiana male armata, appiedata e demoralizzata descritta dal rapporto inglese, seguì Rommel fino ad El Alamein, resistendo fino all’ultimo uomo.

Rommel, lui stesso posto sotto accusa dopo la sconfitta in Africa, pensò solo, davanti a Hitler, a difendere l’onore dei suoi soldati.

Scrisse: «Particolarmente ammirevole, in quella battaglia, il coraggio che le truppe tedesche, e gran parte di quelle italiane, dimostrarono anche nell’ora del disastro. I combattenti avevano davanti a sé un anno e mezzo di combattimenti: un glorioso stato di servizio che pochi altri eserciti possono vantare. Ciascun soldato difendeva non solo la sua patria, ma anche la tradizione della Panzerarmee Afrika. La lotta sostenuta dalle mie truppe resterà, nonostante la sconfitta, una pagina gloriosa nella storia dei popoli di Germania e Italia».

A suo figlio Manfred, l’ammiraglio Rommel confidò sugli italiani: «Certamente non sono fatti per la guerra. Ma non bisogna giudicare gli uomini solo dal punto di vista delle qualità militari: altrimenti la civiltà non esisterebbe».

Oggi dunque è appurato che non siamo molto adatti alla guerra, e possiamo rassegnarci volentieri; ma dov’è, in cambio, il nostro apporto alla civiltà? Forse il motivo è che siamo, ancor oggi, governati dai Cavallero, o dai loro eredi politici.

(Fonte: maggiore Eric Hansen, «The Italian military enigma», Marine Corps Development Command, Quantico, 1988)


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