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Italia di nessuno
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Parto da un fatto che forse non tutti conoscono: il modo in cui i 15 membri della Corte Costituzionale si ritagliano privilegi indebiti. Quando uno di loro si avvicina alla scadenza del suo mandato, gli altri colleghi, in modo cordialmente bipartisan, lo nominano presidente della medesima Corte. Lo scopo è di farlo andare in pensione con il massimo dello stipendio (500 mila euro annui anzichè i 416 mila dei membri comuni) e quindi della pensione, più liquidazione astronomica (1), più gli infiniti altri privilegi che spettano ai presidenti emeriti, fra cui l’autoblù a vita con due autisti, cellulare pagato senza limiti, computer, telefono gratis anche nell’abitazione privata, tessera per circolare gratis in autostrada e sui treni, eccetera, eccetera. Di solito un neo-presidente della Corte Costituzionale resta in carica 4-6 mesi, poi esce carico di tesori lasciando il posto al prossimo. Il giro è piuttosto vorticoso, tant’è vero che abbiamo in giro almeno una quindicina di presidenti emeriti, arricchiti a nostre spese finchè campano, e dotati di deplorevole tendenza alla longevità.

Qui, non si tratta tanto di denunciare il costo per i contribuenti di simile andazzo, ma qualcosa, se possibile, di ancora più grave. La Corte Costituzionale è il supremo organo giuridico della repubblica. Dovrebbe essere la fonte prima dell’etica civica, il faro e l’esempio permanente di moralità civile e la pietra di paragone del rispetto della cosa pubblica. Ciascuno dei suoi membri dovrebbe sentire l’impegno personale a mantenere alto il proprio individuale prestigio (sono tutti docenti universitari di diritto o magistrati d’alto rango) e la specchiata autorevolezza dell’altissimo consesso al quale sono stati chiamati. In altri Paesi i supremi giudici sono infatti di questo stampo, conducono vite appartate di studi e discussioni sui principii del diritto, parlano solo attraverso le sentenze oracolari, coltivano un alto senso di responsabilità – che è il loro prestigio – in quanto coscienti che con le loro sentenze stabiliscono (e qualche volta innovano) i principii stessi non solo del diritto, ma della moralità pubblica.

Ma che cosa può attendersi di essere, invece, un Paese i cui supremi giudici, già loro, hanno sviluppato mentalità e atteggiamenti da furbetti e da ladruncoli del pubblico denaro? Non c’è da stupirsi se i sottostanti ceti pubblici, ove arrivino a tiro del barattolo del pubblico denaro, si servano quanto più possono, sprezzanti della cittadinanza che paga i loro stipenti, emolumenti e benefici; i clientelismi, il moltiplicarsi di caste inadempienti e corporative, gli arbìtrii giudiziari, la collusione e la confusione fra politica e criminalità organizzata in diverse regioni, la casta degli insegnanti che cola a picco qualunque riforma che metta in forse il loro status-quo di malpagati e meschini privilegiati, ancorchè salti agli occhi che sfornano ormai solo analfabeti inoccupabili e senza educazione; le furbizie dei sindacati e quelle dello Stato che incamera più tasse di quel che deve con indegni trucchi (dalla non neutralizzazione delle accise sui carburanti quando essi rincarano, fino alla non-correzione del cuneo fiscale tra paga ricevuta dal lavoratore e costo del lavoro per l’imprenditore, che è il più alto d’Europa); tutte le inefficienze, malversazioni, disonestà e sprechi che pesano e affossano il Paese vengono da lì, in fondo, dal mancato esempio dall’alto. Anche la volgarità, bassezza e sguaiatezza, e l’assenza di scrupoli della nuova classe andata al potere con Berlusconi, persino i suoi bunga-bunga, non sono altro che la manifestazione estrema e caricaturale di quella prima falla del civismo. E la deriva è inarrestabile: proprio perchè non c’è nessuno, in alto, che possa richiamare allordine, fondando il proprio richiamo sulla propria personale autorità, integrità superiore e dignità indiscussa. Non ci sono dignità indiscusse.

Chi dovrebbe far cessare l’andazzo profittatore dei giudici supremi (che è, beninteso, del tutto legale?). Forse il Quirinale, con la famosa moral suasion. Ma che dire se il Quirinale è abitato da uno che, quand’era deputato europeo, faceva la cresta sulle note-spese (2) dei biglietti aerei?

Ecco la cosa che più impressiona: in quanto poco conto coloro che ricoprono le massime istituzioni tengano la propria dignità personale. E con quanta facilità barattino la loro figura morale per un piatto di lenticchie, sia pur ben condite: perchè sono già ricchi, ricevono stipendi pari a 20 anni di lavoro di un operaio proprio perchè non siano tentati di arraffare; eppure lo fanno. Non hanno nessuno orgoglio individuale, nessuna stima di sè, in fondo; vivono il proprio prestigio come qualcosa di estrinseco, che proviene loro dalla carica, non dalla propria decenza e rispettabilità come persone. Così, però, si sono spogliati di quell’impalpabile strumento politico che è l’autorità propria, mal misurabile ma tanto più necessario quando – come ora – gli ordini legali e giuridici si sgretolano davanti ai nostri occhi per le spinte e gli sgangheramenti contrapposti che subiscono dalle tifoserie senza senso dello Stato nè del diritto.

Si disse a Roma che durante i quattro anni in cui Catone il Vecchio tenne la censura, prosperarono le messi e le mandrie. Al di là del mito, c’è in questo una profonda verità politica e morale che dovremmo recuperare.

Ma è recuperabile? Non è invece nata l’Italia con questo vizio d’origine? Apprendo da uno storico dell’unità d’Italia ascoltato per caso alla radio (non chiedetemi citazioni esatte; è cosa colta al volo) che nei primi mesi dell’unificazione, mentre i ministri savoiardi cominciavano ad accorgersi forse con spavento dell’immane sfida in cui s’erano gettati, unificare giuridicamente un Paese troppo diverso e plurimo, troppo arretrato e persino inconciliabile nelle sue strutture economico-sociali, che cosa faceva il primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II? Si occupava personalmente a incamerare per sè e la famiglia le dotazioni e gli appannaggi dei principi, duchi e re appena detronizzati.

Vittorio Emanuele avrebbe potuto magari – o dovuto – chiedere apertamente alle Camere o al governo un aumento del proprio appannaggio. No; preferì andare ad arraffare di persona quel che avevano lasciato il granduca di Toscana, la duchessa di Parma, il Pontefice, il re di Napoli... Il primo arraffatore d’Italia fu il primo re; il quale non a caso non volle cambiare il nome e chiamarsi Vittorio Emanuele Primo, ma restò Secondo, per sottolineare che il Paese che Cavour con le sue trame e Garibaldi con la sua sovversione gli avevano dato, era per lui non patria, ma terra conquistata alla famiglia.

Italia di nessuno e non amata da nessuno fin dall’inizio. Dubito infatti che i funzionari toscani, pontifici o napoletani fossero disonesti: quel pezzo d’Italia che amministravano era la loro, la amavano, la capivano. I piemontesi no.

Non è dunque un caso se il governo italiano inviò a Palermo un prefetto che parlava (oltre il piemontese) solo il francese; non si trattava di capire e farsi capire dai nuovi cittadini, men che meno di integrare economie e società; si trattava di controllarli, sorvegliarli, tenerli a freno, sospettarli per tenerli a freno, tartassarli per coprire le immani spese del bancarottiere Cavour. Una burocrazia da esercito occupante.

A ben pensarci, la mentalità della burocrazia pubblica è tuttora quella. Non intende il proprio compito come quello di agevolare i cittadini nelle loro attività economiche e sociali, ma di tenerli sotto controllo e sorveglianza; cittadini e statali (che in Gran Bretagna si chiamano fieramente public servants) non sono ancora, ad un secolo e mezzo di distanza, omogenei socialmente e idealmente con la popolazione che amministrano.

E’ solo un’ironia storica il fatto che le burocrazie sospettose ed occhiute non siano più piemontesi francofone, ma riempite di meridionali, in quantità che risulta ormai incresciosa al Nord; sì, la polpa umana e sociale è mutata, il randello della burocrazia poliziesca è stato riempito dai vinti di ieri.

Ma è la filosofia, si direbbe la cultura aziendale, ad essere rimasta questa: cittadini privati? Evasori fiscali. Sospettiamoli. Controlliamoli. Intercettiamoli senza interruzione. E portiamo via loro il 50% del reddito, bisogna pagare i supemi giudici.





1) Per esempio Gustavo Zagrebelsky, nominato alla Corte Costituzionale da Oscar Luigi Scalfaro perchè anti-berlusconiano, è stato fatto dai colleghi presidente della Consulta dal gennaio a settembre 2004. In tal modo la sua liquidazione, ovviamente calcolata sull’ultimo stipendio (presidenziale) è stata moltiplicata per il numero di anni di lavoro, anche se svolti come magistrato o professore universitario. Unendo questi e il riscatto della laurea con i nove di membro della Corte, Zagrebelsky ha cumulato 38 anni di anzianità lavorativa, una liquidazione di 907mila euro lordi (al netto 635mila) e una pensione di 21.332 euro lordi al mese (12.267 netti). Il professor Giovanni Maria Flick è rimasto presidente solo tre mesi, dal 14 novembre 2008 all’11 febbraio 2009, Giuliano Vassalli, e Giovanni Conso sono rimasti presidenti solo tre mesi, Antonio Baldassarre (accreditato alla destra) sei. I giudici della Consulta lavorano una settimana sì e una no. Iniziano il lunedì pomeriggio con la camera di consiglio, il martedì c’è l’udienza pubblica, mercoledì discussione di qualche causa e scrittura delle sentenze. Giovedì alle 13 tutti a casa. Poi c’è la settimana libera e quindi il ritorno al lavoro nella settimana successiva. Considerando tutto ciò risulta che il professor Flick ha presieduto la sua prima udienza il 18 novembre. Mercoledì 17 dicembre l’ultima camera di consiglio prima di Natale. Poi vacanza fino al 13 gennaio. Nemmeno un altro mesetto (udienza l’11 febbraio) e arriva la pensione. I mesi effettivi, dunque, non sono nemmeno due ma, valgono più dell’oro colato. Allo stesso modo si sono comportati Giuliano Vassalli: in carica dall’11 novembre del 1999 al 13 febbraio del 2000. Appena tre mesi, giusto il tempo di fare le vacanze di Natale e il capodanno prima di traslocare e passare all’incasso. Tre anche i mesi di Giovanni Conso e appena quattro quelli di Valerio Onida, sei quelli di Antonio Baldassarre. Con il risultato che a tutt’oggi oltre a una schiera di ex giudici, coi soldi rubati al popolo, lo Stato assicura una vecchiaia dorata a ben sedici presidenti emeriti. Con tanto di autisti e assegni mensili da favola. Romano Vaccarella, ad esempio, ricongiungendo gli anni di università con quelli alla Consulta, può riscuotere 25.097 euro lordi mensili di pensione (pari a euro 14.288 netti).
2) La vicenda fu resa nota da Libero il 10 aprile 2004. Napolitano, all`epoca parlamentare europeo, prese il volo TV703 per recarsi a Bruxelles. Prezzo del biglietto 90 euro, compagnia aerea Virgin Express. Allo sbarco, un telegiornalista di una emittente tedesca (Rtl) filmò il futuro presidente della repubblica italiana e cercò di intervistarlo, invano. Ma non si rassegnò. Lo tallonò fino in Parlamento per farsi spiegare come mai a fronte di una spesa di 90 euro per il volo se ne facesse rimborsare 800, sia pure legalmente, senza contare 80 euro di taxi e 268 euro di indennità di presenza. Napolitano non si degnò di rispondere. Liquidò il giornalista tedesco dicendogli: i miei interlocu-tori sono i contribuenti italiani, con lei non parlo. Il servizietto andò in onda in Germania e non sembra che il nostro Paese ne sia uscito bene.



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