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Comincia l’era post-americana
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La notizia non è confermata, ma circola insistente: in Francia, il 27mo battaglione si sarebbe rifiutato di essere spedito in Afghanistan. Nicolas Sarkozy, che ha riportato la Francia nella NATO per amore di Sion, aveva annunciato al vertice NATO l’aprile scorso che - su richiesta di Bush - avrebbe mandato altri 700 soldati francesi nel Paese occupato, portando il numero totale dei francesi a 3 mila.

Ma in agosto dieci soldati francesi sono stati trucidati in Afghanistan; i media francesi (migliori dei nostri) hanno cominciato a chiedersi «che cosa ci facciamo là?», e nei sondaggi l’opinione pubblica si rivela contrarissima a quell’avventura americanista in ritardo (1). Sicchè i soldati che rifiutano obbedienza non sono soli. E capiscono la situazione politica internazionale più rapidamente di Sarko.

Già. Perchè, come ha rivelato la CNN, il re Saudita Abdullah ha organizzato discreti incontri alla Mecca fra membri del governo afghano collaborazionista ed esponenti Talebani «che hanno rotto i legami con Al Qaeda» (sic), per preparare un governo di coalizione che consenta decentemente alle truppe occidentali di andarsene dichiarando che in Afghanistan, se non la vittoria, c’è la «pace» (2).

Il pretesto con cui i sauditi hanno messo allo stesso tavolo i Talebani e i loro nemici fantocci di Washington è stato tipicamente orientale: l’Iftar, il grande pranzo che rompe il digiuno di Ramadan. Il re in persona usa invitare gli ospiti che si trovano o arrivano alla Mecca in questa occasione. E stavolta, per orientale obbligo di ospitalità, ha «dovuto» invitare alti esponenti del governo afghano fra cui l’ex capo della Corte Suprema Fazel Hadi Shinwari, a spezzare il pane con il potente capo dei mujaheddin Hekmatyar, e il pittoresco ex-ambasciatore dei Talebani in Pakistan, poi ospite involontario della galera di Guantanamo, Abdul Salam Zaeef. L’attuale capo di Stato Maggiore dell’esercito afghano (quello ufficiale, di Karzai) generale Bismillah Khan, si trovava per caso in Arabia: invitato anche lui.

Tutti questi fortuiti incontri non sono stati facili da organizzare. Secondo la CNN,  sono occorsi «due anni di intensi negoziati dietro le quinte» per mettere alla tavola dell’Iftar tutti quei visitatori; niente di male dal punto di vista americano, perchè «l’impegno dell’Arabia Saudita, amica di USA ed Europa, è stato mosso dal crescente tributo di sangue delle truppe della coalizione e dall’aggravamento della violenza che ha portato a tante perdite civili» in Afghanistan.

Ma altri meglio informati vedono nell’organizzazione di questo incontro l’abile mano dell’ex capo dello spionaggio saudita, nonchè nipote del re, principe Turki Al Faisal.

La storia di quest’uomo accorto va raccontata in breve. Egli è stato il capo dell’intelligence saudita (Al-Mukhabarat al A’amah) per venticinque anni, a cominciare dal ’77: dunque uno che sa tutto su Al Qaeda e bin Laden, da quando Al Qaeda era stata costruita dalla CIA per combattere i russi, e dunque era «buona», e dei Talebani, anch’essi «buoni» allora. Quando poi Washington cominciò a mettere  Talebani e Al Qaeda fra i cattivi, il principe Turki trattò (invano) col mullah Omar, capo dei talebani, per farsi consegnare Osama bin Laden ed estradarlo in Arabia Saudita, non si sa se con lo scopo di salvarlo dalle vendette americane.

Una cosa invece è certa: Turki Al Faisal diede le dimissioni da capo dello spionaggio saudita, posizione che aveva coperto ininterrottamente per 27 anni, un mese prima dell’11 settembre 2001. Un segnale: sapeva quel che Washington si preparava a fare, e non approvava. E soprattutto non voleva esserne complice. Oggi torna operativo, discretamente: ovviamente, da vecchia spia di quegli anni, conosce tutti gli invitati afghani di riguardo alla tavola del re, siano talebani o agenti UNOCAL come Karzai.

Frattanto, il generale di brigata Mark Carleton-Smith, comandante delle truppe britanniche in Afghanistan, s’è fatto intervistare dal Times di Londra per dichiarare che la guerra contro i Talebani «non può essere vinta». Gli inglesi non devono aspettarsi «una vittoria militare decisiva», ma di prepararsi ad un possibile accordo coi Talebani. Formare un governo di coalizione con loro e Karzai, e poi andarsene lasciando Karzai a sopravvivere - se può.

Nemmeno questa dichiarazione è una coincidenza, nè il generale sta rifiutando obbedienza. La sua dichiarazione si situa nella linea saudita.

Il giornale saudita Ashark Alaswat ha scritto che l’intelligence britannico ha molto aiutato, sottobanco, lo sforzo di mediazione di re Abdullah. Gli inglesi si sono dissanguati più degli altri «atlantici» per servilismo verso gli americani di Sion; ora che Bush è uscente, l’ambasciatore di Londra a Kabul, sir Sherard Corper-Coles, si permette finalmente di dire la verità: la strategia bellica americana in Afghanistan è «votata al fallimento». Londra ha voglia di farla finita.

Ovviamente, l’iniziativa saudita non può non avere il placet sottinteso di Washington. Sette anni di occupazione e massacri hanno giocato a favore dei Talebani, che hanno conquistato il controllo di zone sempre più ampie e una «legittimità» indubbia fra una parte rilevante della popolazione pashtun, almeno in confronto al governo-fantoccio di Karzai, ormai insostenibile.

L’instabilità crescente del Pakistan, il rapido aggravarsi dei rapporti NATO- Russia, l’aumentata influenza dell’Iran nell’area (che potrebbe appoggiare la resistenza afghana), devono aver convinto le teste pensanti del Pentagono che occorre un cambiamento della posizione americana nel settore.

Inoltre, è ovvio che il nuovo presidente avrà il suo daffare a concentrarsi sulla Depressione economica USA, e avrà bisogno di chiudere almeno qualcuna delle voci di spesa aperte dal bellicismo neocon.

Washington ha probabilmente usato la sua residua influenza per affidare la mediazione, anzichè all’ONU o al Pakistan, al suo fedelissimo servo sunnita, l’Arabia Saudita. Erano insieme quando diedero i natali ad Al Qaeda (nella sua forma originale anti-sovietica), e quando battezzarono il movimento neonato dei Talebani.

L’Arabia Saudita ha le mani in pasta almeno quanto i servizi pakistani, divenuti infidi. In più, garantisce che contrasterà tutte le manovre dell’Iran sciita in quel settore strategico. I sauditi sono il perno volontario del piano, Made in Israel, di gettare il mondo musulmano sunnita contro il mondo musulmano sciita.

La CNN, nel rivelare il pranzo di mediazione alla Mecca, ha ricordato che «l’espansionismo iraniano è una delle più gravi preoccupazioni dell’Arabia Saudita». I talebani sono sunniti fanatici: nel 1998 uccisero otto diplomatici iraniani a freddo, a Mazar i-Sharif, e il presidente di allora, Rafsanjani, denunciò l’eccidio come parte di «un complotto molto profondo per occupare le aree orientali dell’Iran», insomma accusò i Talebani di lavorare per gli americani e i sauditi.

Quanto resta saldo il servilismo pro-americano degli europei? Washington lo metterà alla prova il 10 ottobre, quando i ministri della Difesa dei Paesi NATO si riuniranno a Budapest: gli USA contano di costringere gli alleati ad aderire ad un «piano di difesa» contro la Russia.

Gli alleati della «nuova Europa», polacchi e baltici, aderiranno con entusiasmo prevedibile; ma è interessante vedere quel che farà la «vecchia» Europa. Si lascerà mettere in rotta di collisione con Mosca da una superpotenza sfiatata e in via di implosione?

Dal punto di vista del trattato atlantico, la Russia può molto difficilmente essere definita un nemico della NATO, visto che consente il trasporto dei materiali che servono alle truppe NATO in Afghanistan attraverso il suo territorio, le sue strade e ferrovie. Le ultime provocazioni di Washington contro Mosca sono intese, probabilmente, anche ad indurre la Russia a interrompere questa collaborazione.

Ma Putin, Medvedev e Lavrov non hanno fatto alla Casa Bianca questo piacere: per quanto fredde siano le relazioni con la NATO, hanno ripetuto, l’aiuto logistico russo non verrà meno, perchè la stabilità dell’Afghanistan è nell’interesse della Russia: dopotutto Mosca ha combattuto contro i Talebani, ed oggi subisce gli effetti del ricco traffico di oppio che origina dalle provincie afghane sotto controllo guerrigliero.

E’ chiaro che Mosca, non solo Teheran, vedono molto male l’affidamento del problema afghano ai sauditi. Non per la cosa in sè, ma perchè conferma la decisione americana di mantenere il processo di pacificazione afghano nelle mani di un ristretto  circolo di amici - anzichè un ampio piano di pace in cui siano chiamati gli attori principali del settore, dunque anche Iran e Russia - insomma la continuazione della politica di divisione e ostilità inaugurata da Bush, e che il potere americano conta evidentemente di riprendere, appena e se ne avrà ancora i mezzi, ora falcidiati dalla crisi finanziaria.

Quanto ad irritare Teheran, agli europei conviene meno che mai. Il collasso finanziario della superpotenza americana, se coinvolge gli europei, non intacca l’Iran.

Per un motivo paradossale: le stesse sanzioni imposte da USA e Israele al regime iraniano lo hanno isolato dalla «malattia finanziaria anglosassone». E, mentre il valore del dollaro come moneta di riserva diverrà sempre più discutibile nei prossimi mesi, Teheran dispone del «tallone» che conterà sempre di più: il petrolio e il gas (3).

Fino a quando i Paesi del greggio accetteranno, per il loro solido prodotto, di essere pagati in dollari sempre più dubbii?

Se il tavolo saudita avrà successo, lo vedremo nei prossimi mesi da un sintomo significativo: la violenza dei Talebani diminuirà (si aspettano diversi ministeri nel governo di coalizione), il che consentirà ai generali USA di dichiarare il «successo» e di alleggerire il loro impegno, lasciando che il governo Karzai se la sbrogli coi suoi nuovi alleati interni, anche se non c’è dubbio che presto saranno i Talebani a guidare di nuovo il Paese.

Se il colpo riesce, l’America avrà ottenuto almeno di insediare un regime fanatico e sunnita alle porte dell’Iran sciita. Ma l’esclusione dell’Iran dal piano di pacificazione può avere effetti collaterali sgradevoli: dopotutto, fra le etnie afghane ci sono gli Hazara, visceralmente nemici dei Talebani, e per giunta sciiti.Teheran ha parecchie carte in mano per far fallire il piano.

Per questo l’ex ambasciatore indiano Bhadrakumar, uomo di lunga esperienza dell’area, dice che «un processo di pace basato sull’esclusione di Russia e Iran - e meno ancora una ‘islamizzazione’ dell’Afghanistan in senso wahabita - non ha probabilità di successo».

Sarebbe incredibile se gli «alleati» europei si facessero coinvolgere in questo ultimo tentativo USA, che non li riguarda più, e che può procurargli solo l’inimicizia di Mosca e nessun vantaggio.

Come ha scritto sarcastico il commentatore Mike Whitney, «il Nuovo Secolo Americano», il New American Century proclamato dai neocon israeliti quando presero il potere, otto anni fa, alle spalle di Bush jr., «è accorciato di 92 anni».

Insomma, con la crisi finanziaria, è cominciato il secolo post-americano, e persino le manovre saudite dicono che anche la famiglia Al Saud ne ha coscienza, perchè in queste trattative ha la sua propria agenda. I soldati francesi del 27mo battaglione, che hanno rifiutato di farsi spedire in Afghanistan, se ne sono già accorti.

Aspettiamo che se ne accorgano i «dirigenti» europei.




1) «French troops: we won’t go to Afghanistan», GlobalResearch, 4 ottobre 2008.
2) M.K. Bhadrakumar, «A fatal flaw in Afghan peace process», Asia Times, 8 ottobre 2008.
3) Chris Cook, «A new dawn for Iran», Asia Times, 9 ottobre 2008. Cook, già direttore dell’International Petroleum Exchang, ritiene che si debba coinvolgere e cointeressare l’Iran in una ridefinizione globale dei valori monetari : «The alternative to an unsustainable deficit-based system can only be asset-based, new forms of equity - beyond the corporation - to replace unsustainable secured debt. Existing national accounting, based upon a national debt, is fundamentally flawed but is unquestioned, and until recently, unquestionable. I believe that Iran could be the first to evolve a national equity to replace much of its conventional national debt. (…) I am pointing out that Iran does not need to sell ownership and control of its natural resources to multinationals when it can simply unitize and sell forward part of its production to investors, receiving interest-free finance in return». Se ben capisco, Cook propone un sistema finanziario basato sul sistema islamico, dove l’investitore non riceve interessi, ma compartecipazione agli utili futuri.


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