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Obama dopo le chiacchiere
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Lo so. Siamo tutti esausti per l’immane, scemissima chiacchiera TV italiota - a canali unificati - sulla notte presidenziale USA. Ma una o due cose bisogna pur dirle, su Obama.

L’immenso, ben audibile sospiro di sollievo e di speranza che si è levato dal mondo intero (non esclusi l’Iran, il Venezuela, Gaza) dice una cosa precisa, che troppo facilmente ci dimentichiamo, proprio perchè è elementare: il mondo ha vissuto troppi anni senza «comando»; e il mondo - lo sappia a no - vuole essere «comandato», aspira che qualcuno «comandi».

Questo sollievo è un atto di accusa contro Bush, o meglio contro la cupola che lo ha manovrato, i neocon: hanno potuto scatenare due guerre, devastare il Libano in una terza, minacciarne una quarta e una quinta contro l’Iran e contro la Siria; hanno potuto mandare assassini ad ammazzare questo o quello, trattare con arroganza il mondo esibendo il possesso di una superiorità militare totale, violare sovranità ad libitum; ma questi non hanno comandato un solo giorno.

Far paura, intimidire, uccidere, perseguitare, non è comandare. Il comando vero comincia invece con un atto cordiale, anzi due: il primo, è la chiamata a partecipare «a qualcosa di grande insieme». Il secondo, è che chi sarà soggetto di comando aderisce al progetto che intravvede in chi comanda, alla sua chiamata.

Proprio questo è avvenuto: il mondo intero sta sperando che il presidente Obama lo comandi, che dia una direzione ai problemi globali, prenda la guida della crisi globale (1).

Atto d’accusa: Israele, con i suoi neocon, ha fatto adottare dal’America su scala globale i suoi metodi di dominio - quelli che crede siano «comando», quelli che usa a Gaza, in Cisgiordania, in Siria e Libano - ed ha mostrato la sua incapacità di comandare. Essa, per il suo stesso esclusivismo religioso e razziale, non ha un progetto a cui chiama l’umanità; anzi, il suo progetto esclude espressamente gli altri uomini, nel «mondo a venire» assegna a loro un ruolo di soggetti, di «animali parlanti» da soma.

L’israelismo ha avuto la sua chances, per otto anni orribili, e ha mostrato la sua incapacità di comando. Con questo, non è fuori gioco; agirà ancora come al solito, dietro le quinte, con le sue lobby, potrà fare disastri ulteriori, su cui vigilare; ma il «dietro le quinte» non è il comando, è il suo contrario.

Quello che circonda Obama, al di là dei suoi meriti e qualità, è una grande forza. Magari entrasse subito alla Casa Bianca e annunciasse una conferenza internazionale sul collasso della finanza e sulle vertenze internazionali: portato da questo vento di speranza e di fiducia, otterrebbe moltissimo dall’Europa (che scodinzolante non aspetta che di subire un comando di cui si sa ormai incapace), e otterrebbe moltissimo da Teheran, moltissimo da Chavez, da Hamas, da Hezbollah persino (con l’eccezione di Mosca).

Purtroppo, Obama non eserciterà il comando se non tra due mesi; e il vento del sollievo e della speranza può essere per allora spento.

Non dimentichiamo la profezia di Joe Biden e di Colin Powell sulla «crisi generata» che lo attende immancabile, che non si sa cosa sia, ma che è stata decisa, e «metterà alla prova la sua stoffa», e farà precipitare (è deciso) la sua popolarità.

Nelle TV italiane, centinaia di ore di chiacchiera con la partecipazione di decine di politici (Larussa!?), giornalisti, «esperti», si è riusciti a non accennare mai - nemmeno una volta - ai potenti gruppi d’interesse e alle lobby che condizionano «ogni» presidenza USA e il Congresso: i colossi del complesso militare-industriale, la «Israeli Lobby» (2), le grandi finanziarie speculative, le petrolifere.

Con Bush, il complesso militare-industriale è stato addirittura al governo (con Rumsfeld e i tre suoi viceministri israeliani a doppio passapprto), la finanza siede al Tesoro con la Goldman Sachs; che si rassegnino a perdere influenza, è escluso.

Colpi di coda, fughe in avanti, «fatti compiuti» sono possibili per spingere il presidente (qualunque presidente) là dove non vuole. E in caso di necessità, non va escluso il ricorso alla tradizionale ultima carta dei poteri forti USA: l’omicidio presidenziale.

Questi esiti sono tanto più possibili, in quanto sul potere dei gruppi d’interesse vige il tabù del silenzio. Si inneggia alla «grande prova di democrazia», dimenticando che anche Obama ha certe lobby che l’hanno scelto finanziato e promosso, e non si chiamano in causa le forze e gli individui che auspicarono nel 2000 «una nuova Pearl Harbour» (e fecero l’11 settembre); la loro doppia lealtà; gli interessi privati di compagnie come la Halliburton (l’azienda semi-presidenziale che ha accaparrato i profitti di guerra); la complicità del Pentagono con i suoi fornitori industriali.

Il tabù dice che il loro potere non è per nulla intaccato. E una delle prime richieste di Obama agli «alleati» europei saranno più truppe per l’Afghanistan: come non potranno accontentarlo i nostri politici, dopo aver finto di credere per anni che là c’è bin Laden ed Al Qaeda, c’è il terrorismo islamico che «se non viene combattuto lì verrà qui da noi» (Bush) e le donne da liberare dal Chador?

Un motivo di speranza - e non da poco - viene tuttavia dal discorso della vittoria del neo-eletto: Obama non ha mai pronunciato la parola «terrorismo» nè «lotta globale al terrorismo»; il confronto con le ossessive ripetizioni di Bush (i continui allarmi, la propaganda sulla pericolosità dell’invisibile fantasma islamico che poteva devastare una qualunque metropoli USA con antrace, esplosivi ed atomiche, il messaggio complessivo dell’Amministrazione: «Abbiate paura») è molto indicativo. Obama non ha mai creduto a questa propaganda e a questa minaccia.

Inoltre, è l’uomo che - se si è inchinato davanti all’AIPAC giurando che anche lui farà tutto per Israele - ha avuto il coraggio di annunciare la sua disponibilità ad aprire negoziati con Teheran, senza condizioni preliminari (3).

Il fatto che il suo principale consigliere sia Brzezinski - che detesta la lobby neocon e ne è detestato - assicura che la politica internazionale di Obama sarà nel segno del vecchio «imperialismo razionale», che almeno non ricorre alla forza come prima ratio, nè si fa dettare del tutto dal Likud quale debba essere l’interesse nazionale. Se mai, il nuovo nemico può diventare la Russia, ossessione del geopolitico Zbig: il vuoto di potere dell’Asia centrale da riempire.

Infine, anche un nuovo presidente ben intenzionato, e capace di conquistarsi una certa autonomia dai poteri forti, può fare solo ciò che la forze dell’America gli consentono. E le forze sono tragicamente diminuite dal collasso economico che inclina ad una Grande Depressione, dalla sovra-estensione delle forze armate con costi schiaccianti che minacciano il collasso del Pentagono, dallo Stato di debitore mondiale e di super-importatore, non più autosufficiente perchè de-industrializzato dalla globalizzazione.

Eppure l’ideologia stessa del liberismo globale non è messa in discussione, è ancora l’ideologia ufficiosa del regime USA.

In questo senso, non prenderei sottogamba la sparata genialoide di Vladimir Zhirinovsky, il Le Pen russo, vicepresidente  della Duma: Barack Obama è «il Gorbaciov americano» che distruggerà il sistema per volerlo riformare.




1) Ovviamente, i primi a chiedere di essere comandati sono gli elettori americani. Disperati fino al punto di passare sopra al fattore razziale. Perchè Obama non è il primo «colorato» a salire ad un posto di governo reale. In Louisiana, dopo Katrina, gli elettori hanno scelto come governatore Bobby Jindal, un americano di prima generazione - nato da genitori indiani - con un curriculum molto simile a quello di Obama: giovane (36 anni), uscito dalle migliori università del Paese, studente super-intelligente (dopo aver vinto una borsa di studio in medicina per Harvard, e una di legge a Yale, egli ha preferito andare ad Oxford  come Rhodes Scholar), persino «anormalmente» colto e intellettualmente raffinato per piacere alla società USA, decisamente anti-intellettuale. Il perchè lo ha spiegato Charles Cook, l’editorialista del National Journal, che in Luisiana ci abita: «La Louisiana non ha eletto Jindal per far colpo sul resto del Paese o del mondo con la sua apertura multiculturale o per fare un gesto simbolico. Dopo la devastazione di Katrina, lo Stato era in una situazione disperata. Gli elettori hanno deciso di correre un rischio. E’ come se la gente della Louisiana avesse detto: Siamo nella cacca fino al collo e abbiamo tentato tutto. Questo ragazzo sembra molto intelligente, a quanto pare sa una quantità incredibile di cose sui temi che ci riguardano, sembra così fiducioso e posato. Passiamogli la palla, e vediamo se il ragazzo può fare qualcosa». Evidentemente, persino gli americani ne hanno abbastanza della rozzezza intellettuale dei politici che hanno sempre votato appunto per quello, perchè sembravano «uno di noi». Potessimo arrivare a questo punto anche in Italia: ma noi gli indiani Sikh li vogliamo per mungerele mucche, i giovani egiziani che stiano in panetteria, e al Governo, vogliamo Bossi e Fini, o Berlusconi, o Veltroni (istituto tecnico). E non dimentichiamo Calderoli, che promette di andare con un maiale al guinzaglio e farlo pisciare là dove dovrebbe sorgere una moschea.
2) I due gruppi d’interesse sono uniti. Il loro centro di raccordo e convergenza è il think-tank chiamato «Jewish Institute for National Security Affairs» (JINSA), dove i neocon guerrafondai invitato i capi delle grandi ditte di armamenti, e ammiragli e generali, che appena in pensione vengono assunti come dirigenti delle suddette aziende. Già il nome di questo ente è inquietante: «Istituto ebraico per gli affari di sicurezza nazionale» (degli USA). Per confronto, proviamo a immaginare se in Italia esistesse un «Istituto valdese per gli affari di sicurezza nazionale italiani», dove i valdesi, in combutta coi nostri generali e la Oto Melara, mettessero a punto piani per manovrare la politica estera italiana in senso bellicista. Ma cosa fanno i valdesi?, si chiederebbero i media. Se si tratta invece di ebrei, scatta il tabù.
3) Quello delle condizioni preliminari è un tipico procedimento israeliano e neocon, allo scopo di rendere impossibile ogni accordo: «Prima Hamas riconosca Israele, poi si potrà mettere al tavolo»; «Prima l’autorità palestinese disarmi i suoi ‘terroristi’ e ci garantisca la sicurezza, e poi parleremo di armistizio»; «Prima l’Iran chiuda le sue installazioni nucleari, e ‘poi’ noi vedremo se...».


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