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Nuova tattica a Sion
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D’improvviso, speranze e sorrisi. Shimon Peres, il presidente israeliano, arriva a Londra dice, secondo il Times (1): «Il più implacabile nemico del mio paese (l’Iran, ndr.) può essere portato al tavolo dei negoziati dato il nuovo climatolitico e i fattori economici, in particolare i prezzi del greggio in calo». E non basta. Peres confida al Times che «si aspetta che Israele arrivi alla pace coi vicini arabi durante la sua vita, e ha persino predetto che un giorno visiterà Damasco e Riyadh».

Peres ha 85 anni: dunque la «pace» è così vicina? Di colpo, non più neocon, non più estremismo hassidico, non più guerra perpetua al terrorismo, nemmeno più minaccia di annichilire le installazioni di Teheran? Anzi, il vecchio prevede «un tavolo di negoziati».  Come mai? Si può credere che Peres - vecchio socialista dopotutto -  condivida le speranze di massa nate dall’elezione di Barack Obama?

Ci si potrebbe credere meglio, se lo stesso improvviso rovesciamento di posizioni non dovesse essere registrato anche in Ehud Olmert: il capo del governo uscente che - non dimentichiamolo - è il delfino ed erede poltiico del duro Ariel Sharon. Ebbene: Olmert, che sta per uscire di scena (per scandali e corruzione), in attesa delle elezioni anticipate dov’è in gioco il suo partito Kadima fondato da Sharon, il 21 settembre scorso dichiarata Yedioth Ahronoth:

«Dobbiamo arrivare a un accordo coi palestinesi, il che significa il ritiro da quasi tutti, se non tutti, i territorii (occupati). Una parte dei territori può restare in mano nostra, ma dobbiamo dare ai palestinesi la stessa percentuale (di territori altrove); altrimenti, non ci sarà pace».

Dobbiamo cedere anche su Gerusalemme?, chiede il giornalista. Ed Olmert: «Anche Gerusalemme - con speciali accordi, io immagino, per il Monte del Tempio (la spianata delle moschee) e i siti sacri» (2).

Non ci si crede. Questo è lo stesso Olmert che ancora ieri ordinava di espandere le «colonie» talmudiche e gli «insediamenti» dei fanatici su terre rubate ai palestinesi; che completava la pulizia etnica; quello che ordinava la costruzione accelerata di «centinaia di nuove abitazioni» per soli giudei a Gerusalemme Est, nella parte araba di Har Homa. E che di fronte alle flebili rimostranze di Angela Merkel, in vista nel marzo scorso, replicava: «Ci sono posti dove si costruisce e si costruirà perchè questi posti resteranno nelle mani di Israele. Costruiamo a Gerusalemme perchè è escluso che Israele (la) cederà».

Un cambiamento di rotta di 180 gradi. Molto rischioso politicamente all’interno, perchè Sion va ad elezioni anticipate a febbraio, e il partito di Olmert (il Kadima, inventato da Sharon) rischia di perdere a vantaggio del Likud, dell’estremista   Netanyahu.

Più che un rischio, queste dichiarazioni sono la garanzia, per il Kadima,  di perdere l’appoggio dei partiti «religiosi» e dei rabbini con molto denaro e vasto seguito fra i fanatici. Da sempre questi partiti contano molto; la scusa dei «moderati» è sempre stata quella che avevano le mani legate da questi talmudici occupatori di terre e sparatori contro i palestinesi, li dovevano accontentare. E di colpo, i talmudici non contano più.

Anzi. Il 13 novembre, come scrive stupefatto Haaretz, Olmert va alla Knesset e   «deplora la ‘deliberata e intollerabile discriminazione’ che gli arabi soffrono per mano dell’establishment israeliano». Intende i pochi arabi che hanno cittadinanza israeliana, su cui Sion ha sempre negato di esercitare discriminazione. Ma Olmert, di colpo, punta il dito sulla «sproporzione fra il numero dei cittadini arabi in Israele e quanti di loro sono ammessi nel pubblico impiego».

Beh, certo, è il noto stato di apartheid: fino ad ieri, chi lo faceva notare era linciato in Europa e USA come antisemita. Ne sa qualcosa l’ex presidente Jimmy Carter; l’onest’uomo, da quando ha osato scrivere un saggio intitolato: «Palestine – Peace not Apartheid», è diventato una non-persona. Tanto che Barack Obama, da candidato, per prudenza non ha voluto che Carter parlasse a suo favore nelle riunioni del partito democratico, nè tanto meno comparisse al suo fianco nelle manifestazioni pubbliche.

Invece oggi, il cuore gonfio di compassione umanitaria, Olmert annuncia non solo misure per «aumentare il numero di arabi negli impieghi statali», ma di voler «dichiarare tutti i villaggi non ebraici aree di sviluppo industriale A», a cui stanziare investimenti per favorire la nascita di industrie. Egli si dichiara deciso dunque a dare agli arabi anche l’uguaglianza sociale.

«L’uguaglianza, da slogan, deve diventare realtà», dice.

E dall’11 novembre, viene annunciato che «Il governo israeliano ha cominciato a  promuovere attivamente  il servizio militare volontario per gli arabi israeliani». Arabi nel glorioso (e mono-razziale) Tsahal persecutore! In un paese militarizzato,  che è stato fatto vivere nella paura e nell’odio per gli arabi, e che vota regolarmente generali, spie ed aguzzini come suoi governanti perchè si sente «in pericolo nella sua stessa esistenza».

Sogno o son desto? Eppure, bisogna arrendersi alla realtà. Israele cambia.

Almeno sulla carta, perchè continua a massacrare a Gaza e a devastare oliveti coi carri armati, nè risulta che abbia smesso di costruire a Gerusalemme. Ma nelle asserzioni - sicuramente concertate fra il laborista Peres e lo sharoniano Olmert - è persino più avanti di Barack Obama, che è andato a giurare davanti all’AIPAC il suo filo-israelismo fino alla morte (dell’ultimo americano), che si è messo a capo di gabinetto il figlio del terrorista israeliano Rahm Emanuel, che ha paura di farsi vedere in giro con Carter, e che non fa che domandare a Peres: «Cosa volete che faccia per Israele?».

Sion sembra addirittura «prevenire» Obama. Ed è questa, forse, la chiave, o una delle possibili chiavi del mutamento: una nuova forma di guerra preventiva.

Se Obama è visto come l’uomo di pace, e accompagnate dalle più rosee speranze del mondo, Israele diventa rosea e pacifista ancor prima: mica ha paura della lobbby ebraica, Israele. Così si posiziona meglio nelle possibili trattative.

Infatti, il già citato articolo di Times attribuisce a Obama «un ambizioso piano» che consiste in questo: Israele si ritira nei confini pre-1967, e gli stati arabi in cambio riconoscono Israele (3).

Non è una novità. E’ la proposta avanzata dall’Arabia Saudita nel 2002, e su cui Bush, i neocon e Israele hanno fino ad oggi sputato. Ora invece, dice il Times, il regime israeliano appare interessato. Eppure, secondo questo piano, Sion dovrebbe restituire alla Siria il Golan, e consentire che un pezzo di Gerusalemme diventi capitale di un sub-staterello palestinese, governato da Al-Fatah. In cambio, certo, Israele «otterrebbe il veto definitivo al ritorno dei palestinesi cacciati nel 1948».

Ma non sembra abbastanza. C’è qualcosa d’altro in serbo, che solo  gli eventi futuri ci riveleranno. Certo è che per adesso, Sion sta’ al gioco.

A luglio Obama, quando era solo un candidato, andò in Israele  e disse «privatamente» (privatamente, mi raccomando) che per Israele sarebbe stata «una pazzia» rigettare la proposta saudita, che «darebbe agli ebrei la pace col mondo islamico». Ed evidentemente Sion sapeva, a  luglio, che era Obama il futuro presidente. E con lui avrebbe dovuto trattare.

Soprattutto, un gruppo di importanti analisti di politica estera delle due parti «ha suggerito ad Obama di dare priorità immediata al piano saudita subito dopo la vittoria elettorale».

Si tratta delle personalità che componevano lo «Iraq Study Group», il gruppo di pezzi grossi  messo insieme da Bush padre per «consigliare» (mettere sotto tutela) Bush figlio, troppo palesemente in mano agli allievi di Leo Strauss (neocon israelo-guerrafondai) e troppo pronto alle loro strategie disastrose di guerra perpetua. A questi si è aggiunto Zbig Brzezinski.

Uno di questi imperialisti moderati, Brent Scowcroft (ex consigliere della sicurezza nazionale), ha fatto notare ad Obama che il Medio Oriente è la fonte dei guai peggiori per gli Stati Uniti e che, se il presidente deve occuparsi dei guai interni (il collasso del’economia), è bene che dia una nuova spinta al piano arabo, onde «cambiare il clima psicologico nella regione». Deve approfittare delle speranze che ha creato, il momento favorevole passa.

Hans Riedel, un dirigente della CIA che è stato messo a fianco di Obama per la spinosa questione del Pakistan (quotidianamente violato dalle incursioni americane alla caccia di Talebani), è giunto persino ad ammettere che la sua CIA aveva sbagliato tutto, in Pakistan come in Afghanistan.

L’aria è cambiata, a Washington.

Veramente, Obama non ha risposto alla lettera di auguri che gli ha mandato Ahmadinejad, per non irritare la lobby. Ma  Peres, ostentatamente più coraggioso di lui, pensa che «se Obama ha successo nell’unire la comunità internazionale dietro una politica comune, Israele vede una possibilità di dialogo con l’Iran». Nientemeno.

Su questo voltafaccia sono possibili varie ipotesi, tutte provvisorie.

Olmert sa che a febbraio non governerà più, e può permettersi qualche verità imbarazzante, imbarazzante per chi gli succederà, se sarà Netanyahu. Oppure la dirigenza israeliana ha valutato che i Wolfowitz, i Perle, i Leeden hanno adempiuto al loro compito (hanno fatto sparire l’Iraq dalla carta geografica), e che sarebbe pericoloso spingere l’America ancora su quelle politiche di guerra mondiale e preventiva, di unilateralismo aggressivo, che l’hanno dissanguata; dunque, che restino in panchina per questo giro, secondo il dettame di Lenin su come far avanzare la rivoluzione: «due passi avanti e uno indietro».

Forse, giudicano controproducente sfidare in modo troppo vistoso e arrogante il nuovo presidente, accompagnato da speranze corali di «pace», finchè dura il sogno; d’altra parte, con alle costole Emanuel, sanno che Obama è abbastanza fermamente sotto il controllo della lobby, per non dover temere da lui fughe in avanti e indipendenza (4).

Con Emanuel, Israele è nell’Ufficio Ovale.

Forse, infine, assecondano il volonteroso neo-presidente nelle sue velleità di «pace» in Medio Oriente perchè sanno che è imminente la tanto profetizzata «crisi generata» che lo obbligherà a cambiare programma, e combattere ancora una volta il Male apocalittico, ossia Al Qaeda al-Mossad.

Solo una cosa non credo possibile: che veramente accettino di dividere Gerusalemme coi palestinesi, e la cessione delle terre «sacre», per avere «la pace col mondo islamico».

Tale pace sarebbe, per Israele, l’inizio della fine. Come aveva ben capito Sharon, che metteva Israele  in pericolo per poi ripetutamente salvarla; perchè solo il pericolo tiene uniti sei milioni di cittadini di cui molti hanno un’altra patria, un altro passaporto, case e interessi a Parigi, in USA, a Londra, a Roma.

Senza pericolo, milioni di israeliani se ne tornerebbero alle loro case, e il sogno sionista mostrerebbe la sua sostanza: un sogno artificiale, l’oppio del popolo (eletto).

Ma posso sbagliare. Può essere persino che siano davvero disposti alla «pace» alle loro condizioni (quali ostacoli hanno davanti ormai?), ed abbiano selezionato (5) Obama come  la giusta entità che farà la parte - come dice il nostro Domenico Savino - del benefico Capo universale del governo mondiale prossimo venturo, il Benefattore previsto da Solov’ev, «convinto spiritualista, ammirevole filantropo, pacifista impegnato» (6).

Il tempo è compiuto, l’utopia realizzata, «la Profezia si compie, e Obama è il suo Profeta». La «pace», finalmente! E tutta l’umanità pronta a salutare la «pace»!

Se questa ipotesi è giusta, non ci resta che evocare un’altra profezia. Quella folgorante di San Paolo nella I Tessalonicesi (5, 3-6):

«Quando diranno ‘pace e sicurezza’, allora improvvisamente precipiterà su di essi la rovina, come i dolori del parto sulla donna incinta; e non avranno scampo. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, che quel giorno vi sorprenda come un ladro... Pertanto non dormiamo come gli altri, ma vegliamo e siamo temperanti».    




1) Richard Beeston, «Barack Obama brings hope of Iran talks, says Shimon Peres», Times, 17 novembre 2008.
2) John Spritzler, «A new path for Israel?»,  www.newdemocracyworld.org, 17 novembre 2008. 
3) Uzi Manhaimi, «Barack Obama links Israel peace plan to 1967 borders deal». Times, 16 novembre 2008.
4) Paul Craig Roberts, «Conned Again», Counterpunch, 6 novembre 2008. «If the change President-elect Obama has promised includes a halt to America’s wars of aggression and an end to the rip-off of taxpayers by powerful financial interests, what explains Obama’s choice of foreign and economic policy advisors? Indeed, Obama’s selection of Rahm Israel Emanuel as White House chief of staff is a signal that change ended with Obama’s election. The only thing different about the new administration will be the faces.  Rahm Israel Emanuel is a supporter of Bush’s invasion of Iraq. Emanuel rose to prominence in the Democratic Party as a result of his fundraising connections to AIPAC. A strong supporter of the American Israeli Public Affairs Committee, he comes from a terrorist family. His father was a member of Irgun, a Jewish terrorist organization that used violence to drive the British and Palestinians out of Palestine in order to create the Jewish state. During the 1991 Gulf War, Rahm Israel Emanuel volunteered to serve in the Israel Defense Forces. He was a member of the Freddie Mac board of directors and received $231,655 in directors fees in 2001.  (…)  Richard Holbrooke, son of Russian and German Jews, was an assistant secretary of state and ambassador in the Clinton administration. He implemented the policy to enlarge NATO and to place the military alliance on Russia’s border in contravention of Reagan’s promise to Gorbachev. (…) Madeline Albright was born Marie Jana Korbelova in Prague to Jewish parents who had converted to Catholicism in order to escape persecution. She is the Clinton era secretary of state who told Leslie Stahl (60 Minutes) that the US policy of Iraq sanctions, which resulted in the deaths of hundreds of thousands of Iraqi children, had goals important enough to justify the children’s deaths. Albright’s infamous words: «we think the price is worth it.»  (..) Dennis Ross has long associations with the Israeli-Palestinian «peace negotiations.» A member of his Clinton era team, Aaron David Miller, wrote that during 1999-2000 the US negotiating team led by Ross acted as Israel’s lawyer: «we had to run everything by Israel first.» This «stripped our policy of the independence and flexibility required for serious peacemaking. If we couldn't put proposals on the table without checking with the Israelis first, and refused to push back when they said no, how effective could our mediation be?»  Ross is «chairman of a new Jerusalem-based think tank, the Jewish People Policy Planning Institute, funded and founded by the Jewish Agency».
5) Il motivo della selezione l’ha forse centrato un giornalista del Chicago Sun-Time: «Uno dei colleghi di Obama all’Università di Chicago, Rashid Khalidi, mi ha detto questo dopo aver avuto un colloquio con il president eletto sul Medio Oriente: ‘Te ne vai dicendoti: bello, è d’accordo con me. Ma più tardi, arrivato a casa, ripensi alla conversazione, e non sei più sicuro’. Ccome è stato notato più volte durante la campagna presidenziale, Obama ha la qualità di fare in modo che ogni sorta di gente proietti le sue aspirazioni su di lui. (...) Un esempio tipico s’è visto dopo la rituale telefonata di congratulazioni del presidente polacco Lech Kaczynski.  Costui ha poi riferito che Obama l’aveva assicurato che il programma di Bush, di  piazzare missili nell’Est-Europa, sarebbe continuato. Un portavoce di Obama ha smentito, Obama non ha preso nessun impegno sulla questione».  Steve Huntley, «Obama worries national security hawks», Chicago Sun Times,  18 novembre 2008.
6) Domenico Savino, «Obama il Profeta», EFFEDIEFFE, 16 novembre 2008.


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