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Caccia al tesoro del Colonnello in famiglia guerra sulla spartizione
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Ecco le enormi ricchezze dello sceicco Gheddafi (32 miliardi di dollari), accumulate sulla pelle della popolazione, pronte ad essere spartite in famiglia

LA CACCIA al tesoro silenziosamente è già partita. E, che siano custodite in conti bancari segreti nel Golfo o in Europa, è certo che le opache fortune accumulate in 41 anni di regime dalla famiglia Gheddafi sono enormi. Non solo perché, sedendo sulle ottave riserve di oro nero del pianeta, la natura è stata generosa con il Colonnello. Ma anche perché il dittatore è stato un abile re Mida che, con l'aiuto dei figli, ha fatto fruttare i petrodollari in una ragnatela di lucrosi interessi che vanno ben al di là dell'energia: abbracciano una fetta considerevole dell'economia nazionale, e non solo.

Da cablogrammi inviati negli anni dall'ambasciata americana di Tripoli emerge il ritratto di un Paese gestito come feudo personale da Muhammar e parenti. In particolare, un dispaccio dall'eloquente titolo di "Gheddafi Inc.", del maggio del 2006, sostiene che la famiglia ha "diretto accesso a investimenti nel settore del gas e del petrolio, delle telecomunicazioni, dello sviluppo di infrastrutture, hotel, mass media e distribuzione di beni al consumo". Altro che solo petrolio, quindi, anche se "si ritiene che tutti i figli di Gheddafi e i suoi favoriti abbiano redditi derivanti dalla National Oil Company e dalle sussidiarie" del settore. E che una significativa parte del guadagni del greggio (il 95% dell'export) siano finiti nelle casse personali dei Gheddafi lo conferma anche Tim Niblock. Esperto di Paesi arabi all'Università di Exter, Niblock ha rilevato una discrepanza di parecchi
miliardi tra i proventi del petrolio e le spese del governo. "Difficile però - sostiene - fare una stima della ricchezza di famiglia".

Un altro cablo della diplomazia Usa parla di 32 miliardi. Fatto sta che altri fiumi di soldi ai Gheddafi sono arrivati dalla creazione dei due fondi di investimento: la Lybian investment authority (Lia) e la Lybian arab foreign investment company (Lafic). Entrambi detengono un vasto portafoglio stimato in 70 miliardi: un capitale "torbido" secondo un'esperta della banca Nomura. Eppure la sua natura non ha spinto le società europee, tanto meno quelle italiane, a sbarragli la strada. Lia detiene, tra le altre cose, il 2,5% di Unicredit; l'altro fondo il 7,5% della Juventus. Gli asset sono del governo, ma a volte gli investimenti della Lia portano la sigla della Gheddafi Spa. È successo nel 2009, quando Saif, il figlio laureato a Londra, comprò per 11,8 milioni di euro una villa con otto camere e piscina a Hampstead. Oppure nel 2008, quando il Colonnello, in Italia per il G8, si infatuò del borgo reatino di Antrodoco e promise di investire 16 milioni in un complesso alberghiero. Sempre lui, secondo il professor Niblock, avrebbe finanziato il presidente dello Zimbabwe Mugabe e una tribù del Darfur negli anni '90.

La ricchezza della Gheddafi Spa è sì sconfinata, ma anche contesa. Un cablo del marzo 2009 rivela una guerra intestina tra gli otto rampolli con dettagli sufficientemente "squallidi per una soap opera". Una delle battaglie fratricide fu per il controllo della produzione locale della Coca-Cola. A scannarsi furono Saif, con interessi nei media, Mohammed, il primogenito, e Saad, il calciatore mancato. Oggi su un punto saranno d'accordo: spedire gli ultimi proventi in segreti off-shore. Prima che arrivino le sanzioni di Europa e Onu.

VALERIA FRASCHETTI

Fonte >
Repubblica.it


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