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E’ il capolinea dell’«anglo - pensiero»
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Sulla crisi economica globale, un lettore mi chiede:

«S’avvicina la tempesta, ne saremo tutti investiti. Le chiedo pertanto ora, sinchè sono in tempo, un parere: la succesione di eventi che ci sta portando alla sicura rovina è il frutto di un dolo o di una colpa? L’han fatto apposta o hanno solo perso il controllo delle facoltà mentali? Sono pazzi o criminali? Avevano un piano, o non hanno saputo guardare oltre la punta del loro naso? Cordiali saluti. Sergio64»

Grazie, Sergio, per la domanda, che stimola ad una questione profonda. Ti dirò: non credo che il collasso economico, tragico, convergente e totale in cui siamo coinvolti, sia il risultato di un progetto o complotto dei poteri finanziari anglo-americani, nè che sia un progetto, nè che sia pilotato.

Magari sarò smentito da fatti ulteriori, ma penso proprio che stavolta abbiano «perso il controllo». Hanno perso il controllo del mondo che avevano creato. E non perchè siano diventati pazzi, ma a causa di qualcosa di più radicale: perchè nella loro mentalità c’è un limite, che non riescono a superare.

Sì, se fossimo spiriti disincarnati, se non dovessimo mangiare (cosa che la crisi rende problematica) ci potremmo godere questo fatto epocale: lo scacco finale del modo con cui i britannici si pongono di fronte alla realtà. Ma hai ragione: finchè siamo in tempo, proviamo a spiegarlo, a filosofare su questa mentalità che ha trovato, catastroficamente, il suo limite.

Di recente m’è capitato di trovare una frase di Margareth Thatcher, che diceva più o meno così: «Non esiste la società, ma solo gli individui che la compongono».

Questo è l’assioma da cui nasce il liberalismo britannico in politica, e il liberismo in economia, su cui la Tatcher ha fondato la sua riforma – tutta privatizzazione e «mercato». Quella che oggi, essendo stata estesa al mondo ed applicata fino all’estremo logico, ci porta miseria invece della prosperità promessa, bancarotta al posto dell’arricchimento, e disparità sociale iniqua, e dunque disordine sociale, al posto della promessa armonia.

Chi sa un po’ di filosofia riconoscerà nella frase tatcheriana una tipica asserzione dell’empirismo britannico, che ha la sua più cosciente espressione in John Locke: la realtà è sempre «singola e individuale», perchè la nostra esperienza ci fa sperimentare solo cose singole e individuali.

Questa filosofia nega che la «società» abbia un essere, in qualche modo superiore (o almeno irriducibile) alla somma degli individui che la compongano – e dunque abbia sue esigenze proprie non riducibili agli individui di cui è composta, e richieda ordinamenti sovra-individuali. Questa visione finisce per negare anche allo Stato ogni «essenza» sua propria; esso è solo una protesi artificiale, utile solo in quanto regola i possibili eccessi degli individui; ma in quanto «protesi», è sgradevole – come un corsetto d’acciaio o una gamba di legno – ed è auspicabile che sia più «piccola» e meno pesante possibile – e infine che sia resa inutile, quando tutti gli individui, perseguendo i propri scopi individuali (egoistici), armonizzino la realtà sociale e i suoi scontri nella spontanea armonia del «mercato».

Ma l’empirismo britannico ha una radice più antica, che sembra propria della mentalità anglosassone. Furono infatti i medievali pensatori inglesi, a cominciare dai francescani di Oxford, a praticare il «nominalismo». Essi sostenevano che «gli universali» (ad esempio, l’Uomo) non erano che «nomi», flatus vocis, al massimo generalizzazioni che ricaviamo dai tanti uomini singoli che incontriamo. E questi incontri, le esperienze sensibili, sono le sole realtà che contano. Da qui il nome che si darà a questo pensiero, «empirismo», dal greco empeìria, esperienza.

Guglielmo da Occam (1280-1349): «Dichiaro fermamente che nessun universale (...) è qualcosa che esiste fuori della mente (...) nessun universale appartiene  all’essenza di qualsiasi sostanza».

Oggi è perfino difficile capire fino a che punto questo modo di pensare abbia sovvertito tutto il modo di pensare precedente, greco e classico. Per Platone, la vera realtà erano proprio gli universali (le idee), e noi comprendiamo le cose individuali che sono oggetto della nostra esperienza proprio perchè rivelano una «essenza» (o una «forma»), ossia rispondono a una norma superiore, a cui «partecipano». Platone poneva queste realtà ultime universali nell’iper-uranio. Aristotile le pone nell’aldiquà; ma non che neghi la realtà degli universali, nega solo la loro realtà «separata» dalle cose individuali. Le idee sono, per lui, «dentro» le cose, sono quello che dà «forma» alla loro materia.

Esempio: un coltello può essere fatto di bronzo, d’acciaio o anche di pietra e di bambù (la materia, fino a un certo punto è indifferente); ciò che lo rende «coltello», è la forma che l’artefice ha dato alla materia. La sua «essenza» è quella, la sua «idea».

Conoscere, per il mondo classico, per Agostino e San Tommaso, è conoscere «le essenze». Per Agostino, l’oggetto esterno non è che uno stimolo per l’anima, che conosce attraverso una illuminazione interna: dunque, ancora, per partecipazione agli universali.

Per Occam invece l’oggetto dell’esperienza è un puro dato immediato; non rimanda ad alcuna idea o ragione superiore. Al massimo, ciò che Aristotile chiamava universali, sono «generalizzazioni» alquanto confuse: sappiamo che un oggetto è un coltello, perchè abbiamo visto e maneggiato tanti coltelli. E l’esperienza sensibile è il centro dell’attenzione del filosofo, come di tutti gli inglesi.

E’ facile vedere che questa mentalità «empirica» è anti-metafisica, e distrugge l’ontologia, e anche la contemplazione – fine supremo dell’uomo per i greci. Lo stesso Occam, benchè credente, sostiene che Dio, in quanto realtà posta al di fuori dell’esperienza, può essere conosciuto solo per la Rivelazione.

Passaggio terribile per l’umanità: infinite generazioni hanno intuito, in un grandioso tramonto o nel fiorire degli alberi a primavera, il «dito di Dio», ed hanno ringraziato il Creatore che si manifestava nelle sue opere. Occam ha svalutato questa «esperienza» intuitiva del sovrasensibile.

Dopo di lui, altri inglesi l’avrebbero obliterata: un tramonto è solo un tramonto, i suoi colori spiegabili con le condizioni fisiche dell’umidità e delle nubi. Ovviamente, l’esperienza mistica-ascetica dei contemplativi non era nemmeno presa in considerazione, come forma di conoscenza troppo rara, non propria all’uomo medio.

La «conoscenza è empirica», ed a questo deve il suo successo: da qui nasce la scienza moderna, ossia come ausiliaria delle tecnologia, della costruzione di mezzi di dominio.

L’empirismo inglese è dunque una forma di riduzionismo (la società si riduce agli individui che la compongono; una specie è la somma dei suoi individui); per conseguenza ovvia, è «individualista». Fino al punto di essersi reso incapace di cogliere il senso «olistico» della realtà, le misteriose concatenazioni per cui il mondo è «un tutto», e l’uomo stesso è un tutto – la medicina organicistica, che cura «le parti» e gli organi anzichè l’uomo integrale, è in fondo un prodotto dell’empirismo britannico.

In fondo, anche il darwinismo nasce da questo, dall’incapacità di cogliere la natura vivente come un ordine olistico (1). Una rosa, per Hume, non è che il complesso delle impressioni semplici che colpiscono i miei sensi: il colore, il profumo, il liscio dei petali.

L’empirismo è anche un materialismo di un tipo speciale, anche quando si manifesterà, in Berkeley (nato nel 1685), come «immaterialismo»: per Berkeley la materia si riduce alle qualità percepite dalla mente; esse non esistono fuori della mente (come per Occam gli universali, e per la Tatcher la società), ma sono «affezioni della mente». L’essere, per Berkeley, è solo «essere percepito» (esse est percipi).

A David Hume, questo parrà anche troppo: dopotutto, la mente rischia di essere una «essenza». Invece no, è un flatus vocis. La mente è solo il luogo in cui si proietta un incessante e sempre variabile, momentaneo «fascio di sensazioni».

L’empirista ha una religiosità sentimentale e un po’ ipocrita: Hume sostiene che la religione non nasce dal bisogno di conoscere le realtà ultime, i principii primi dell’essere, ma dal «bisogno pratico» di essere protetti, pregando esseri superiori, dai pericoli che ci minacciano in vita. Di qui alla religione vista come illusione, il passo è breve. Non possiamo sapere se l’anima è immortale perchè non ne abbiamo esperienza, dice Hobbes; e quanto a Dio, è incomprensibile a maggior ragione.

La morale dell’empirista inglese sarà ovviamente «utilitaristica»: siccome non esistono idee e criteri universali, per Hume, i concetti di «buono» e «cattivo» si riducono all’«utile» e al «dannoso», anche se poi espandiamo il nostro punto di vista individuale fino a capire ciò che è di vantaggio o di svantaggio per l’insieme degli individui che compongono la società. Sicchè il «bene» e il «male» diventano nozioni sociali. Ci mettiamo nei panni degli altri, per un moto di simpatia, che ci fa soffrire vedendo le sofferenze altrui: la morale empirista raggiunge così lo stadio del «disinteresse», ma ciò in base ad impulsi sentimentali, senza fondamento nella ragione. Inutile dire che una morale utilitarista è molto relativa. Gli inglesi lasciarono morire di fame alcuni milioni di irlandesi, quando le patate furono colpite dalla «malattia» in Irlanda, perchè non provavano alcuna simpatia per gli irlandesi papisti.

Ma già John Milton pensava alla «libertà» britannica come un’emancipazione dalla morale «eteronoma», ossia venuta da un’autorità superiore.

«Che vantaggio c’è», scriveva, «nell’essere adulto e non più scolaretto, se appena sfuggiti dalla verga del pedagogo, si passa sotto la bacchetta di un imprimatur?».

Si noti la parola «vantaggio». E’ morale ciò che è vantaggioso, la libertà è un vantaggio. Questa morale utilitarista si rovescerà ben presto in immoralismo: Mandeville, un contemporaneo di Milton, teorizzerà che sono i «vizi privati» e non le «pubbliche virtù» a far prosperare l’economia – sono i lussi dei vanitosi che fanno lavorare i tessitori di seta e di velluti, i vizii dei beoni che stimolano la produzione di vino e liquori... c’è già qui la radice del capitalismo liberista anglosassone a cui Adam Smith darà forma di sistema quasi filosofico – l’economia di mercato è la filosofia degli empiristi – ma già il cinquecentesco Hobbes ne aveva tratto la conclusione più brutale:

«Il valore (value) di un uomo, come di ogni altra cosa, è il suo prezzo, vale a dire la somma che si pagherebbe per far uso del suo potere».

Pare di sentire un finanziere di Wall Street: utilitarismo, immoralismo, materialismo, scientismo operativo,  individualismo, tutto in un unico grumo. A questo porta la negazione degli «universali».

Ma per secoli, e fino a un certo punto, la «moderazione» britannica (tipica dell’empirismo) si è ritratta dal ricavare l’esito totalitario di queste asserzioni. Dopotutto, sarebbe stato ancora riconoscere un principio universale, lo Stato-Leviathan. La tendenza al pratico induce John Locke a fondare quel tipico liberalismo inglese più su una «prassi empirica» che su esplicite leggi (anche le leggi sono «universali» da evitare). In questo liberalismo politico c’è un certo spazio per la «tolleranza» (non, si badi, per la libertà religiosa), basata per Locke sul fatto che, in fatto di divinità, non si può stabilire quale sia la concezione migliore.

Nell’insieme, l’empirista britannico cerca «il ragionevole» piuttosto che il razionale.

Per Locke il Vangelo è accettabile in quanto insegna ragionevoli norme morali, non in quanto rivela verità trascendenti. I dogmi (questi «universali») sono lasciati cadere, specie se paiono contrari al «buon senso».

La ricerca del ragionevole anzichè del razionale, produce ovviamente una filosofia di rango inferiore, alquanto incerto e confuso (per esempio, il rigoroso processo razionale viene sostituito da Hume con «associazioni di idee» e «inferenze») (2). Eppure, l’empirismo anglosassone ha esercitato il massimo influsso nella filosofia europea – anche Kant non esisterebbe senza Hume, e dunque non l’idealismo tedesco, non Hegel e Marx – fino ad impregnare tutte le mentalità, e non solo in Occidente.

Come mai? Per i suoi successi pratici, la sua dinamicità flessibile e adattabile. Non c’è dubbio che è l’Inghilterra che ha fatto nascere «il moderno», inteso come civiltà tecnica di massa, ossia in cui l’uomo medio acquista una potenza invincibile attraverso gli strumenti. Solo là si son visti arisocratici signori andare a finanziare lattonieri e fabbri che promettevano «invenzioni» come il treno e i telai a vapore, appassionandosi alle possibilità pratiche di queste invenzioni; solo là le scoperte tecniche venivano accolte senza alcun pregiudizio o timore religioso, e adottate immediatamente: la famosa rivoluzione industriale. E ciò, si badi, non perchè quei signori pensassero che le macchine alleviano la fatica dell’uomo (anzi, nelle loro neonate fabbriche a vapore, mettevano al lavoro per 14 ore al giorno bambini di otto anni), ma per il profitto e il vantaggio imperiale che questa potenza consentiva di ottenere.

E di fatto, questo tipo di scienza «moderna» non nasce con Galileo. Nasce con Francis Bacon, Francesco Bacone, cancelliere della regina Elisabetta I (1558-78).

E’ lui a sostenere per primo che il fine ultimo della scienza è l’azione, il dominio sulla natura. Bacone chiamerà la scienza «philosophia activa», sognerà i robot ed altre macchine semoventi, si opporrà con più forza ad Aristotile perchè la sua scienza mirava a contemplare la natura e non ad adoperarla. Da due secoli, questa visione si è realizzata con pieno successo, e ci ha sedotto tutti, suoi volontari cooperatori, o schiavi che vi vedono un tornaconto.

Nulla ha più successo del successo. Non a caso, l’estrema propaggine dell’empirismo anglosassone si esprime in USA, nella tipica filosofia americana, il «pragmatismo».

Essa si riduce a questo: che il criterio di verità è il successo. Se un’affermazione è vera, lo si vedrà a posteriori: mettendola in pratica, e vedendo se «riesce», se «funziona».

E il mercato «funziona», eccome. Ciascuno perseguendo i suoi vantaggi privati, crea insieme ai privati vantaggi perseguiti da tutti gli altri un’armonia (della domanda che incontra l’offerta) che si auto-regola senza bisogno di un’autorità superiore che la sorvegli. Il mercato è giusto (nel senso della morale utilitaria), è «libero» e deve essere sempre più libero, è «ragionevole» per cui non c’è da chiedersi se sia «razionale».

Ma Adam Smith pensava ancora il mercato come luogo dell’offerta di merci fisiche, grano, metalli. La finanza anglo-americana ha creato un mercato di secondo, terzo, quarto grado (nel senso in cui esistono equazioni di secondo e terzo grado), dove le merci non sono più zucchine o scarpe, qualcosa che ha una utilità d’uso; sono invece «valori» che sono puri «prezzi», e prezzi che salgono non per la bonta della merce, ma perchè tutti la vogliono comprare allo stesso momento.

E’ un mercato disincarnato, sempre meno controllabile. Paradossalmente, un mercato che tratta «flatus vocis», puri nomi, ben più incerti degli «universali» e delle «idee platoniche».

L’ impareggiabile dinamicità empirista, ultima versione della scienza attiva di Bacone, ha creato per di più sempre nuovi «strumenti finanziari», sempre più complessi e sempre più lontanamente «derivati» dall’economia reale, dagli zucchini e dalle scarpe sottostanti.

Una seconda rivoluzione industriale, ma senza più industria; un materialismo smaterializzato molto più di quanto potesse immaginare Berkeley.

Hanno conformato il mondo in modo che questo mercato di puri nomi potesse espandersi senza ostacolo e senza controllo.

Gli Stati nazionali sono stati privati della sovranità – ossia della loro essenza storica – e ridotti ad aziende votate all’export e alla massima «efficienza competitiva»; i confini sono stati abbattuti perchè il mercato diventasse globale. Ogni allarme sul fatto che quel mercato totale diventava incontrollabile è stato tacitato, come una pretesa arcaica di ritorno ad un universale, il Bene, lo Stato etico, il dirigismo.

Che bisogno c’è di controllare e dominare il mercato da fuori, se si regola da sè, dall’interno? Perchè sorvegliarlo, se è intimamente «ragionevole»? Anzi: da quale punto di vista lo si può condannare, visto che «ha successo», che «funziona»?  Come fate a dire che è anti-umano? L’Uomo non esiste, esistono milioni di uomini. Come osate dire che nuoce alla società? Non esiste una essenza chiamata società, esiste solo un fascio di esseri che la compongono. E il loro valore è il loro prezzo.

Ora che questa fantastica costruzione – la torre di Babele terminale dell’empirismo anglosassone – sta crollando nello scoppio della bolla speculativa globale più distruttiva della storia,  l’empirismo anglosassone non sa più cosa fare. Non ha un’idea di riserva, è incapace di vedere che il liberismo contiene difetti, che possono essere corretti solo da una istanza superiore al mercato (lo Stato, il diritto, la società organizzata come tale, il corpo sociale in viaggio tra il passato e futuro, nella continuità delle generazioni).

E’ significativo quello che stanno facendo i vari Bernanke e Geithner: creano denaro dal nulla e lo pompano nelle banche, nella speranza di poter rigonfiare la bolla esplosa, e far continuare tutto come prima. Cercano di «salvare le banche». E non prendono atto che i banchieri del capitalismo terminale, non si occupano delle banche, si occupano dei banchieri: continuano ad arraffare bonus miliardari mentre producono perdite colossali, sempre convinti che il vantaggio privato sia più produttivo della pubblica virtù, totalmente presi dalla trappola del loro individualismo, dalla certezza che il loro prezzo è il loro valore, e che non esista istanza superiore ad uomini d’alto valore monetario.

Questo tentativo – patetico – di gonfiare di nuovo la bolla, dice esattamente che l’empirismo anglosassone, dopo secoli di successi, è giunto al capolinea. E’ il suo fallimento epocale.

Non è solo il fallimento (l’ennesimo) della finanza ultra-liberista. E’ il fallimento dell’utilitarismo, dell’individualismo, del liberalismo politico, della scienza come attività operativa – e più radicalmente, del rifiuto di riconoscere che esiste una realtà superiore a ciò che appare all’esperienza, qualcosa di non «singolo, concreto e individuale»; che gli «universali» sono la realtà, che la materia ha bisogno di ricevere una «forma» (un ordine) dall’intelligenza.

Da questo scacco, non sanno uscire. Per il motivo che gli empiristi-pragmatisti anglosassoni hanno raggiunto il muro: il loro limite mentale.

Non è la prima volta che accade nella storia. Probabilmente, anche l’impero romano cadde perchè aveva raggiunto i limiti della mentalità romana. Per esempio, nel 200 dopo Cristo tutti gli abitanti dell’impero furono dichiarati cittadini, dunque con diritto di voto; ma per votare, bisognava andare di persona a Roma. In qualche modo, era stata mantenuta la mentalità della primitiva città-Stato, inadatta al governo politico di un mondo tanto vasto; eppure i romani – con tutte le loro spelndide capacità di comando – non riuscirono mai a concepire il voto per delega e rappresentanza. La genialità di Cesare e di Augusto trovarono un rimedio in qualche modo «pragmatico», la trasformazione della repubblica (da città-Stato) in monarchia – più rappresentativa delle istanze popolari che il Senato «repubblicano», composto di quattro ricchi gatti latifondisti, votati dalle loro clientele abitanti in città. Eppure non poterono mai dichiararsi monarchi, perchè la testa durissima dei romani (la testa dura va spesso insieme alla capacità di «comando») aborriva il termine, e continuava ad illudersi di vivere in una repubblica, e si opponeva con ferocia ad una trasformazione degli ordini «repubblicani» consacrati, anche se ormai vuoti.

Allo stesso modo, oggi, Obama non può nemmeno proporre la nazionalizzazione delle banche, perchè sùbito le dure teste americane lo accusano di «statalismo socialista».

L’impero romano nacque all’inizio come una rappezzatura, inconfessabile, dovuta a necessità di governo. Funzionò bene o male, essenzialmente come una federazione di città-Stato. E molte altre cose mancarono nelle teste, anche imperiali, per governare un impero: per esempio la concezione delle finanze pubbliche, del debito pubblico; sicchè gli imperatori furono sempre a corto di denaro, dei denari d’argento con cui pagare i legionari (non gli venne in mente di emettere BOT).

Tuttavia, caduto l’impero politico, restò di esso «l’idea», l’universale, come ispirazione ad un ordine mondiale, superiore e giusto. Ogni politica europea che non si contentasse di dominare per pura violenza, si riferì a quell’ordine. La Chiesa si disse romana appunto per adozione di quella ispirazione universale.

Dubito che dalla caduta dell’impero empirista angosassone resterà una così grande idea universale.

E’ come se alla testa inglese mancasse un piano, e precisamente il piano alto – non a caso detto «attico» – delle ampie visioni universali, delle idee platoniche non dedotte dall’esperienza.

Il fatto è che, a forza di adeguarci alla filosofia empirista, quel piano manca a tutti noi europei, non più eredi nè di Roma nè di Platone.

Vediamo avverarsi in senso catastrofico una profezia che Bacone pronunciò per beffa, sostenendo la superiorità della sua scienza operativa:

«Si dirà che la contemplazione del vero è più degna e più alta d’ogni utilità e grandezza di opere. Questo lungo e laborioso indugiare nell’esperienza e nel mondo materiale, che è il mare delle cose particolari, abbassa la mente umana alla terra, o piuttosto la caccia in un Tartaro di confusione e di caos, allontanandolo dalla serenità della sapienza astratta, che è uno stato più prossimo a Dio. Noi accettiamo volentieri tale osservazione...».

E infatti, eccoci affondati nel Tartaro di confusione e di caos, per aver troppo abbassato la mente alla terra. Che tristezza, per l’Occidente.




1) Lo svedese Linneo, il grande classificatore delle specie viventi, descrisse il mondo zoologico e botanico secondo un  ordine ascendente – eppure non sentì mai il bisogno di pensare evoluzionisticamente una specie come nascente, per modificazioni, da quella sottostante. Ciò perchè non era un empirista, vedeva la natura vivente come una splendida architettura, un tutto. Il pensiero classico, platonico-aristotelico, era chiaramente la sua guida, il mondo delle «idee». Non a caso il suo motto era: «Nomina si nescis, perit et cognitio rerum». Ossia: Se non conosci il nome, muore la conoscenza delle cose. Il «nome» è quel che c’è di intelleggibile nelle cose, la sua «essenza».
2) Per Hume, spazio e tempo sono solo «impressioni di spazio» e «di tempo». La fisica matematica di Newton non è una realtà, ma un’astrazione. La stessa matematica riesce a fissare rapporti esatti in proporizioni che si dimostrano vere, ma solo perchè lavora su puri «nomi», valori fissati per convenzione.


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