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Crack in vista (e cominciano a dirlo)
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Crack in vista (e cominciano a dirlo)

Fino a ieri, i giornali finanziari anglo-americani non facevano che esaltare la continua salita delle borse, il «trionfo» e i «successi» del sistema capitalista globale, il «miracolo» della eterna ripresa americana, che si regge nonostante l’astronomico debito pubblico e privato.
Ciò è normale: bisogna attrarre gli ingenui alla giostra della finanza creativa e tenerli legati al Luna Park globale, perché i pescecani possano spolparli ancora un po’. Solo, da alcune ore, il clima è cambiato. Ora, non parlano più di «successi» né di «miracolo».
Anzi, il Financial Times ha un allarme esplicito: «Chiudere le paratie stagne prima dell’uragano economico» (1).
E questo non è normale. Vuol dire che l’uragano in arrivo sarà così tremendo, che conviene ormai far passare agli ingenui il messaggio: ve l’avevamo detto. Non vi abbiamo ingannato.
Se siete rovinati, è colpa vostra: non avete «diversificato».
Probabilmente, il crack mondiale sarà tale, da far temere rivolte di massa.

Un segno sinistro nei giorni scorsi: i frutti dei Buoni del Tesoro americano a scadenza decennale sono scesi sotto i frutti dei BOT USA biennali.
Di solito, sono i BOT decennali a «dover» rendere di più, a compenso del rischio e degli incerti di un prestito a tasso fisso prolungato nel tempo.
Quando accade il contrario, quando sono i tassi dei bond a breve a salire, vuol dire che gli speculatori si aspettano che i tassi d’interesse crollino: ciò che avviene in caso di recessione e, perciò, di bassa inflazione.
A prima vista ciò è impossibile: la Federal Riserve è obbligata a retribuire chi presta all’America con tassi d’interesse crescenti, quanto più cresce il debito USA, a scanso di una rovinosa fuga di capitali dal dollaro.
Ma questa tendenza al rialzo è anche insostenibile, e bisogna che i tassi americani, ora altissimi (5%) prima o poi scendano.
Ecco qui un esempio lampante dei vicoli ciechi, delle contraddizioni impossibili, in cui si è avvolto il capitalismo finanziario terminale. Quello della finanza sarà, nel 2006, un mondo più fantastico de «Le Cronache di Narnia», rileva sarcastico Frank Partnoy, ex banchiere della Morgan Stanley che s'’è messo al sicuro facendo il docente di diritto alla San Diego University (2).

Per esempio, dice, nel 2006 il mercato dei «prodotti derivati» crescerà vorticosamente fino a raggiungere la cifra di mezzo quadrilione di dollari (mille trilioni, una cifra con 14 zeri).
Ciò rappresenta dieci volte il prodotto interno lordo del pianeta.
Ironizza Partnoy: anche ammesso che i fautori della finanza derivata abbiano ragione a dire che i loro fantasiosi «derivati» siano un bene per l’economia, e servano soprattutto ad assicurare contro i rischi finanziari e a disperderli fra masse di clienti (hedging), non si vede perché qualcuno voglia «coprirsi» dal «rischio» rappresentato dal prodotto lordo globale del pianeta più di una volta.
La verità è che questa finanza non ha più alcun rapporto con l’economia reale, ma è una minaccia reale per tutti: perché quell’enorme flusso di derivati da mezzo quadrilione è, in ultima analisi, un immenso debito, o accumulo di montagne debitorie, per nove decimi inesigibile.
Così, nel 2006, la speculazione globale sintetizzerà una nuova generazione di animali fantastici, chimere e OGM della finanza, per celare ancora per qualche settimana la sua insolvenza colossale. Spunteranno, per offrirli a risparmiatori e pensionati, «fondi d’investimento virtuali»: ossia fondi che non possiedono alcun attivo finanziario, né azioni né obbligazioni, ma usano i derivati
per «simulare» di averli.
Già sono nati in laboratorio due prodotti, i «portable alpha» e le «obbligazioni con collaterale a debito sintetico», che pretendono di replicare le rendite dei Buoni del Tesoro, senza possedere Buoni del Tesoro.
E già sono sul mercato gli «Ecaps», ibridi di azioni e obbligazioni: centauri, ircocervi e chimere inesistenti nel mondo reale, «scatole nere» illusioniste di effetti imprevedibili sui mercati.

Voi magari non li comprerete.
Ma li compreranno in tutto il mondo i fondi d’investimento e soprattutto i fondi pensione, e persino le Banche Centrali.
Istituzioni «tecnicamente in bancarotta», dice Portnoy, che vi fanno credere di essere ancora in grado di pagarvi la pensione, e per reggere l’illusione ancora per un po’ acquistano questi cloni e ibridi: ciò che equivale a «fare scommesse a rischio crescente».
Come il giocatore rovinato, che aumenta le puntate alla roulette con denaro preso in prestito, nella illusione di «rifarsi».
Cerca di essere tranquillizzante Adam Posen, analista massimo dell’Institute for International Economics di Washington, paragonando il crack imminente all’uragano Katrina che ha devastato New Orleans: non possiamo farci niente, arriverà; ma almeno possiamo alzare qualche diga per ridurre le perdite umane.
Naturalmente lui, da liberista selvaggio, propone come medicina dosi più alte dei noti veleni.
Gli preme soprattutto tenere aperto il mercato globale del nulla finanziario, ciò che teme è «un grave trauma» prodotto «da un rinnovato protezionismo e da un aggiustamento del dollaro», dove «aggiustamento» è un eufemismo per «crollo».
La bolla immobiliare americana unita ai deficit pubblici produce una situazione «insostenibile», che mette a rischio «l’intero sistema commerciale».

Posen riconosce la «fragilità finanziaria» (la colossale insolvenza mondiale) che è «l’elemento primario per cui collassi limitati (di qualche banca o fondo) possono diventare crisi macroeconomiche» (leggi: crack globale tipo ‘29).
Basta un rialzo anche piccolo dei tassi di altri Paesi, per far defluire dagli USA di colpo tutti i capitali prestati all’America.
Ciò può portare a «un istantaneo declino degli attivi» (leggi: immobili, azioni e obbligazioni non valgono più nulla per mancanza di compratori) e «perciò del settore finanziario» (bancarotte a catena). Perciò, consiglia le Banche Centrali di USA, Europa e Giappone di obbligare le banche ad accantonare maggiori riserve.
La Banca Europea dovrebbe premere a fondo sugli «stabilizzatori automatici»: insomma Posen propone una più spietata applicazione del famigerato tetto del 3% del deficit pubblico, misura di per se recessionaria.
Ma il fatto è che i debiti sono già troppi, e i finanzieri consigliano di salvare i loro business, prima delle vite delle popolazioni.
Le Banche Centrali devono salvare gli speculatori, anzitutto, impedendo «eccessivi movimenti dei prezzi verso l’alto o vero il basso»; quanto alla gente comune, basterà approntare «sussidi di disoccupazione sufficienti» in USA e Giappone.
Posen prevede dunque milioni di disoccupati dai primi mesi del 2006.
Prevede selvagge fluttuazioni dei prezzi: o rincari (inflazione) o ribassi eccessivi (deflazione).
Il grave è che non sappia prevedere la direzione dei movimenti.

Non lo sa nessuno. Una recessione come quella che si aspettano i finanzieri, con milioni di nuovi disoccupati nei Paesi avanzati, provocherebbe mdeflazione, calo dei prezzi.
Ma c’è in giro tanta di quella massa monetaria, con i trilioni di dollari stampati dagli USA per pagare i suoi consumi a forza di carta straccia, che l’effetto probabile sarà l’inflazione. Un'’inflazione esplosiva, tipo Germania anni ‘20, quando un francobollo costava 30 miliardi di marchi.
Potremmo vedere persino uno scenario inaudito di deflazione-inflazione contemporanea: calo (deflazione) dei prezzi immobiliari e rincaro (inflazione) del petrolio.
I poveri esseri umani, messi alla fame da pensioni tagliate e salari scomparsi, e in più senza risparmi (volatilizzati nel crac o, come in USA, da tempo sostituiti dai debiti per il consumo) non avranno più nemmeno il beneficio deflazionistico dei prezzi generalmente calanti.
Un paesaggio economico atroce, mai prima sperimentato. La fine del capitalismo terminale.
Persino la Banca d’Inghilterra, tempio dell’ortodossia liberista, ritiene opportuno invitare alla prudenza, con parole inaudite: «L’affannosa caccia al profitto finanziario a breve (yeld) può indurre alcuni investitori a sottovalutare il rischio. Le attuali condizioni possono aver generato un eccessivo ottimismo sul rischio sottostante certi prodotti finanziari».
Fuori di eufemismo: sotto quei prodotti non c’è nulla.

Allegria, allegria, dice il Financial Times: dopotutto, la crisi imminente avrà almeno un vantaggio: toglierà di mezzo i fondi speculativi sui derivati «meno efficienti e che rendono meno».
Distruzione creativa, allegria.
Un accenno fuggevole al problema più preoccupante per lorsignori: l’enorme crescita, nell’ultimo anno, di fusioni e acquisizioni (M&A) «finanziate dal debito».
Queste fusioni sono un bella cosa, le banche d'affari che le preparano, trovando il denaro a credito, ci guadagnano miliardi in commissioni. Ma il troppo stroppia.
Comprare un’azienda concorrente con denaro preso in prestito prosciuga la cassa e può avere «un impatto deleterio nella diffusione e nella qualità del credito»; lo dice persino Standard & Poors.
Certo, tali debiti sono «coperti» dal valore delle aziende comprate, e che si possono rivendere a pezzi e bocconi. «Ma non c'è patrimonio meno liquido di un'azienda che nessuno vuol più comprare», come accadrà quando la crisi sarà tra noi.
Insomma: i privati hanno comprato a carissimo prezzo case che varranno molto meno; e i grandi manager hanno strapagato aziende che fra poco varranno nulla. E gli uni e gli altri, stanno pagando interessi sui debiti contratti per quelle operazioni (3). Debiti insostenibili, appena i tassi d'interesse saliranno. Allegria, allegria.

Sta per crollare tutto?
«Non ancora, ma diversificate», consiglia la rivista Bloomberg in un articolo che vuole essere allegro (4).
Cita una newsletter della finanziaria Liman-Gregory che dice, per rassicurare: «attualmente i rischi più grossi coinvolgono scenari di collasso economico assoluto (meltdown scenarios: dunque è vero, sta per crollare tutto), il più pericoloso dei quali è un periodo di prolungata e grave deflazione. Riteniamo questo rischio reale, ma abbastanza remoto da non doverci coprire contro di esso attivamente». Per ora. Cosa volete farci, sorride Bloomberg: «Questa è la vita dell’investitore nel 21mo secolo, sempre sull’orlo del disastro». Allegria, allegria.
La vera questione, per chi ha messo quattrini nei fondi d'investimento, «non è se questi rischi esistono, ma cosa fare. Per fortuna, esistono strategie che possono aiutarci». Quali?
«Diversificare». Un po’ meno azioni e un po’ più BOT e attivi monetari. Anche oro, benché ormai sia caro.

Investire ancora in Cina?
«Economia cresciute troppo rapidamente sono suscettibili di crescenti dolori»: un po’ tardi, ma finalmente lo si dice. Non sembrano consigli particolarmente sagaci. E non lo sono.
Il fatto è che nessuno sa cosa consigliare, di fronte al ciclone in arrivo.
«Diversificare» ormai, di fronte alla prospettiva di un crack del sistema complessivo, è un consiglio scemo, e persino Bloomberg se ne rende conto: «Non esiste una copertura perfetta» da ogni rischio. E ricorda: «A volte, gli investitori più diversificati devono fronteggiare problemi simultanei in molti mercati diversi». Crack contemporanei su tanti mercati diversi: è l’esatta descrizione del collasso sistemico, del «meltdown», della fusione del nocciolo di una centrale atomica, contro cui non si può far niente se non attendere l’inevitabile innesco della reazione a catena. Se hanno cominciato a dirlo, vuol dire che sta per accadere. Anzi che sta già accadendo, e lorsignori si sono messi in qualche modo al riparo; non restano scialuppe di salvataggio per le persone comuni.

Maurizio Blondet


(articolo pubblicato il 30/12/2005)




1) Adam Posen, «Batten down the hatches in case the economic storm hits», Financial Times, 28 dicembre 2005.
2) Frank Partnoy, «Investing in fantasy land», Financial Times, 28 dicembre 2005.
3) Può in parte consolare che gli italiani sono meno indebitati degli altri, il che è un bene in tempi di crack sistemico. Solo il 10% delle famiglie italiane fa debiti per concedersi consumi, contro il 50% dei britannici, il 28% dei francesi e il 16% dei tedeschi. L’indebitamento degli italiani è pari «solo» al 40% del loro reddito disponibile (per lo più mutuo per la casa), contro i francesi che sono indebitati per il 62% dei loro redditi, e i tedeschi per il 100%. La «crescita» europea, per quanto asfittica, è tutta a credito. Il «successo» americano, meno asfittico, è dovuto all’indebitamento colossale per consumi; e così il «successo» britannico.
4) «Is the sky falling? Not yet, but diversify», Bloomberg News, ripreso da


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