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Turchia: processo ai «dunmeh»?
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Chiamatelo processo alla «Gladio  turca», o ai «servizi deviati», o un episodio della «strategia della tensione» orchestrato dai militari kemalisti. Ma il clamoroso processo al nucleo segreto «Ergenekon», in corso ad Ankara da una settimana, è in realtà la messa sotto accusa - senza dichiararlo - dei «dunmeh»: ossia dei cripto-giudei, discendenti dei fedeli del falso messia Sabbatai Zevi (1666), che da un secolo detengono il potere di fatto in Turchia (1).

Quel potere «laicissimo» e ultra-nazionalista (in opposizione ideologica all’universalismo ottomano), tanto lodato dai poteri europei come «progressista» e «garante della costituzione laica», e perciò condonato nelle sue azioni anti-democratiche, sembra oggi alle corde.

La rete clandestina «Ergenekon» (dal nome della mitica terra d’origine della nazione turca, in Asia) è stata scoperta nel giugno 2007, durante un’operazione antiterrorismo in un sobborgo di Istanbul.  Dalla scoperta di armi e di esplosivi, gli inquirenti sono risaliti, a quanto pare, ai mandanti di attentati e omicidi e alle teste strategiche. E alla loro strategia: lo scopo di «Ergenekon» era di colpire, minare e far cadere il governo legittimo, che la popolazione turca ha confermato ancora nel luglio 2007 dando il 47% dei suffragi al primo ministro Recep Erdogan. Ma per i kemalisti, il partito di Erdogan e del presidente della repubblica Abdullah Gul, AKP (partito della giustizia e dello sviluppo) ha il torto di ispirarsi apertamente all’Islam, la religione della quasi totalità della popolazione. Dai tempi di Ataturk (lui stesso un dunmeh cripto-giudeo) l’emersione di partiti del genere è stata soppressa e repressa con la motivazione che attentavano alla «laicità dello Stato», anche con le spicce e con metodi, diciamo, extra-legali, non escluso il putsch ricorrente (di solito applaudito in Europa: certi golpisti sono «buoni», se «laici»).

Lo stesso AKP è stato messo più volte fuorilegge, ed è riapparso sotto nomi cambiati, forte del seguito popolare. D’altra parte, attorno al «laicismo» costituzionale e di evidente impronta massonica, s’è costituto un blocco di poteri e d’interessi forti, abituato al potere e per nulla disposto a cederlo.

La vastità di questo blocco d’interessi è testimoniata dai 56 imputati del processo Ergenekon: due generali a riposo (Hursit Tolo, ex generale dell’armata, e Sener Eruygur, della Gendarmeria) sono indicati come le menti del complotto nell’atto di accusa; seguono uomini d’affari, politici della «sinistra nazionale» (il laicissimo partito CHP), docenti universitari, alti burocrati, giornalisti, che fornivano gli strumenti di propaganda e di influenza ai capi, i militari. Apparentemente, forse per prudenza, è stato risparmiato il banco degli accusati ad elementi di spicco del potere giudiziario, storica colonna del kemalismo insieme ai generali.

La cellula segreta Ergenekon è stata smantellata prima che potesse passare all’azione.

«Apparentemente, il loro obbiettivo era seminare il panico nel Paese con manifestazioni, disordini e attentati che sarebbero stati attribuiti agli islamisti per delegittimare il governo», racconta a Le Monde il sociologo Gulcin Lelandais (2).

Insomma, strategia della tensione e terrorismo «islamico» false-flag: riconoscerete la firma.

La cellula, fra l’altro, è sospettata di essere mandante dell’assassinio di Hrant Dink, giornalista  della minoranza armena, eliminato a revolverate nel gennaio 2007 da un diciottenne venuto da  Trebisonda (della stessa città era il sedicenne che, un anno prima, uccise il sacerdote italiano Andrea Santoro). Dink non era un fanatico, al contrario dichiarò di voler ricostruire la verità sul genocidoo degli armeni «per cambiare questo conflitto storico in pacificazione».

Aggiungeva inoltre: «Discuto la versione officiale della storia perchè non scrivo in bianco e nero». Argomento delicatissimo per i kemalisti: non furono genericamente «i turchi», nè gli ottomani, a massacrare gli armeni, bensì la giunta militare dei Giovani Turchi che nel primo ‘900, con un colpo di Stato, esautorò il sultano. I tre capi della giunta «Unione e Progresso», i Giovani Turchi Enver, Talaat e Jamal, erano tutti e tre cripto-giudei.

E’ ovvio dunque che i laicissimi militari della Turchia cosiddetta  moderna non vogliano discutere la versione ufficiale. Proprio per questo, la casta militare ha ripetutamente incriminato Dink per «denigrazione della nazione turca».

E’ significativo, per contrasto, che invece al funerale di Dink abbiano partecipato importanti  membri del governo islamista, e che Abdullah Gul, allora ministro degli Esteri, abbia personalmente invitato alle esequie un vice-ministro armeno, benchè a quel tempo fra i due Paesi non ci fossero relazioni diplomatiche. E l’attuale governo Erdogan ha iniziato una fase di disgelo con l’Armenia. Gul, ormai presidente della repubblica, è andato ad assistere alla partita fra le due nazionali di calcio ad Erevan, nel settembre 2008. Per contro, Erdogan ha vivamente criticato l’aggressione in Gaza di Israele, stato da sempre «amico» per i militari turchi.

Nell’aprile 2007, quando lo AKP ha presentato Abdullah Gul come suo candidato alla presidenza della repubblica, gli Stati Maggiori militari hanno fatto sapere che avrebbero considerato la sua elezione un «casus belli»: il consueto tintinnio di sciabole laicissime, accompagnato da alte strida dei giornalisti «indipendenti» per il fatto che la moglie di Gul porta regolarmente il foulard, vietato in Turchia. Ma Gul è stato votato lo stesso. Alla cerimonia del suo insediamento il capo di Stato maggiore era ostentatamente assente.

Da quel momento, il governo Erdogan ha cominciato a tagliare le unghie al potere dunmeh, cosiddetto kemalista (3). Ha relegato il Consiglio di Sicurezza Nazionale, attraverso cui i gallonati laicissimi dettavano le politiche estera e interna al Paese (il cosiddetto «Stato profondo», in turco derin devlet, centro dell’oligarchia segreta burocratico-militare) a semplice organo consultivo, decretando inoltre che il suo segretario generale sarebbe stato d’ora in poi un civile e non un generale.

Il 26 giugno scorso il parlamento, a maggioranza AKP, ha approvato una legge che vieta ai tribunali militari di giudicare persone civili, e invece consente ai tribunali civili di imputare degli ufficiali; ossia ha posto fine al più pesante privilegio che la casta dei Giovani Turchi aveva accordato a se stessa.

Le minacciose proteste della casta sono state alquanto indebolite da un fatto: proprio in quei giorni, un giornale indipendente pubblicava il «Piano per sconfiggere il Fondamentalismo Islamico», firmato dal colonnello Dursun Cicek, un esperto di guerra psicologica, che trattava di «mobilitare agenti» per screditare in vari modi l’AKP; fra l’altro piazzando armi ed esplosivi, destinati ad essere «scoperti» nelle case dei membri della fraternità islamica di Feitullah Gulen, uno dei maggiori intellettuali del mondo musulmano, favorevole al dialogo inter-religioso e detestato dai kemalisti in divisa.

Insomma, colpo su colpo.

Il processo «Ergenekon» avviene mentre l’esercito - di fatto sul banco degli accusati - resta  in silenzio. Sono passati i tempi in cui l’Europa e la NATO accettavano volentieri un golpe in Turchia per «salvaguardare la laicità dello Stato»:  domina il politicamente corretto, e le possibilità della Turchia di entrare in Europa con un governo militare si ridurrebbero a zero.

«Ma in Turchia le cose non sono mai prevedibili», dice il sociologo Lelandais; «ciò che avverrà nel processo dipende dagli equilibri che riusciranno a trovare le due forze», ossia il musulmano-moderato Erdogan e il laicismo sorvegliato dagli stivali.




1) Sabbatai Zevi, proclamatosi messia e recatosi nel 1666 a Costantinopoli (con vasto seguito di fedeli ebrei) al dichiarato scopo di togliere la corona al sultano, fu arrestato e posto davanti alla seguente alternativa: o manteneva la sua pretesa messianica e sarebbe stato giustiziato, oppure si convertiva all’Islam, e avrebbe avuto salva la vita. Sabbatai Zevi si convertì. Ai suoi seguaci sgomenti, spiegò poi che il messia doveva fare questa azione perchè doveva andare «fin nel fondo dell’iniquità»; migliaia dei suoi fedeli fecero altrettanto, convertendosi esternamente e assumendo nomi musulmani, ma continuando a praticare, nelle case private, l’endogamia e riti di un ebraismo deviato: ossia con venature anti-nomiche (per esempio, con orge sessuali) perchè nella credenza ebraica, l’arrivo del Messia comporta la liberazione dalla Legge. Generazione dopo generazione,  questo gruppo (in Turchia indicato come «dunmeh», apostati) ha assunto le maggiori posizione di potere economico e militare, fino a determinare, con Kemal Ataturk, prima la rivoluzione (militare) dei Giovani Turchi, e poi la detronizzazione dell’imperatore ottomano e la trasformazione della Turchia in repubblica laica e nazionalista. Si veda Maurizio Blondet, «Cronache dell’Anticristo», EFFEDIEFFE.
2) Helène Belmezian, «Le procès Ergenekon ébranle la Turquie», Le Monde, 20 luglio 2009.
3) Amberin Zaman, «Receding Power of Turkey’s Military: A Leap for Democracy or Another Power Struggle?», German Marshall Fund of USA in Turkey, 17 luglio 2009. In Herman Marshal Fund è una «fondazione cultural» filo-atlantica, che tiene sotto controllo i paesi della NATO in Europa che gli americani sentono il bisogno di sorvegliare nella loro fedeltà all’Alleanza Atlantica;
oggi è in mano a noti neocon isaelo-americani come Robert Zoellick, uno degli esponenti del governo Bush-Cheney.



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