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L’ex unica superpotenza rimasta
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Il sistema missilistico anti-missile che Bush voleva installare in Polonia e in Cechia (per difendere noi europei dai terribili missili iraniani) non si farà più. Lo hanno (quasi) deciso, in un incontro ad Huntswille (Alabama) una dozzina di generali del Pentagono, fra cui il vice del capo del Joint Chiefs of Staff (capi di Stato Maggiore congiunti).

Il motivo l’ha confessato esplicitamente il generale Kevin P. Chilton, il comandante dell’US Strategic Command: oggi la «priorità» di Washington è «la stabilità con la Russia e con la Cina», due Paesi delle cui «sensibilità» bisogna tenere conto.

Per nascondere o addolcire questa ritirata, i generali hanno ventilato altre soluzioni contro i terribili e presunti missili intercontinentali di Teheran da cui bisogna ad ogni costo difendere noi europei: anti-missili navali AEGIS (magari in versione terrestre), spiegamenti mobili  in Israele o in Turchia - secondo accordi ancora da scrivere - o forse nei Balcani, più probabilmente nella titanica base che gli americani hanno allestito in Kossovo, detta Camp Bondsteel. Tutte versioni, è stato sottolineato, che dovrebbero alleviare le «sensibilità» di Mosca e di Pechino, il massimo creditore dell’unico super-debitore rimasto, che è bene non irritare.

Insomma il programma è chiuso. Ne dà il (per lui) triste annuncio il capo della lobby che premeva per l’antimissile: perchè esiste una lobby anche per questo, si chiama Missile Defense Advocacy Alliance, e pretende di avere 10 mila sponsor interessati a piazzare i missili in Polonia. Potete immaginare quali: dirigenti di Raytheon, Lockheed o Northrop Grumman, israeliani del Jewish Institute for National Security Affairs, e qualche neo-falco polacco o dell’Est. Lo stesso capo della lobby, Ricki Ellison, è un ex dipendente di Lockheed.

Non è l’unico segno che Washington, ormai alle corde, sta cercando di arrotolare e mettere in deposito la bandiera unilateralista e aggressiva di Bush: senza sconfessarla (ed è proprio questo il problema) ma perchè non può permettersene i costi.

Per esempio, si vedano le prime mosse del nuovo segretario generale della NATO, il danese Anders Fogh Rasmussen. Questo maggiordomo dei poteri (ex) forti USA sta visitando gli «alleati» europei prima di andare a conferire a Washington, come segno di una nuova considerazione della vecchia Europa. Da scandinavo, Rasmussen ha visitato prima l’Islanda e la Lettonia, due paesetti piccoli che - per aver applicato con l’entusiasmo dei neofiti il liberismo finanziario senza regole - sono oggi economicamente devastati.

Ma il presidente della Lituania, che non ha ancora imparato la lezione, ha sollevato con Rasmussen la questione del rafforzamento dell’articolo 5 della NATO. Si tratta della questione dell’«aiuto ad un Paese dell’Alleanza aggredito», che Bush e i suoi neocon volevano rafforzare dopo la crisi in Georgia (contando di poter far entrare subito la Georgia nella NATO). Insomma, il lituano ha chiesto che la NATO difenda il suo Paese contro una ipotetica invasione della Russia, o che almeno lo dichiari apertamente.
Interessante la risposta di Rasmussen: sì, l’articolo 5 andrebbe rafforzato, specialmente per comprendervi «la cyber-guerra e la pirateria». Insomma, se la Lituania è attaccata, la NATO l’aiuterà ad aprire una pagina su Facebook.

Alcuni commentatori hanno commentato che un simile «rafforzamento» dell’articolo 5 equivale a vuotarlo completamente di senso. Il messaggio alla «nuova» Europa tanto coccolata da Rumsfeld, è chiaro: non ci sono i mezzi per continuare l’unilateralismo aggressivo dell’era Bush, o meglio della Israeli lobby; cercate di non litigare con Mosca.

Lo ha confermato implicitamente anche il nuovo capo supremo militare della NATO in Europa, l’ammiraglio della US Navy James Stavridis. Già il fatto - senza precedenti - che per questa carica sia stato scelto dagli americani un ammiraglio è molto indicativo: la US Navy è, dei centri di potere militare USA, quello che più chiaramente s’è opposto all’unilateralismo sfrenato dell’era Bush. Basti ricordare che fu l’ammiraglio James Fallon, alla testa del Central Command nel 2007-2008, che si oppose chiaramente alla linea della durezza incondizionata contro l’Iran, sottolineando la necessità di un approccio diplomatico ai problemi dell’area, largamente destabilizzata da Israele e Bush. Stavridis ha più che confermato la linea Fallon: davanti agli alleati europei nel Comitato militare dei primi d’agosto, ha ricordato d’essere nato da famiglia greca in Turchia, ha auspicato buoni rapporti fra Grecia e Turchia, ha parlato per metà in francese (lingua ufficiale della NATO, anche se nessuno se lo ricorda più), ed ha indicato il suo programma come una volontà di stabilire «ponti» anzichè muri.

Un altro segnale, se ce ne fosse bisogno, è venuto da Londra, l’alleato-modello dei passati otto anni di avventurismo neocon. Incastrata dal laborista Toni Blair nell’assurda palude afghana, l’Inghilterra si darà  probabilmente presto un governo conservatore. Ebbene: Liam Fox, il ministro della Difesa del futuro governo Tory (il partito che fu della Tatcher) ha sollecitato un’intervista all’Observer (un giornale della soi-disant sinistra), in cui ha detto che cercherà di abbreviare i tempi dell’impegno britannico in Afghanistan - ormai mal sopportato dal 60% dei britannici - cercando di «definire chiari obbiettivi per il successo militare», ossia di definire obbiettivi più modesti e realistici in cui poter dichiarare vittoria... e andarsene. Naturalmente, ha però aggiunto lo sconsolato futuro ministro della Difesa, tutto dipende da Washington: là sarà presa la «più importante decisione politica» sull’Afghanistan, e Londra non ha autonomia di decisione: ammissione perlomeno imbarazzante, Londra dichiara di essere stata una marionetta in mano ai neocon, ed ora spera nel marionettista nuovo.
Ma c’è da sperare?

Come ha rivelato la BBC, Richard Holbrooke, che Obama ha nominato inviato speciale per l’Afghanistan (emarginando la segretaria di Stato Hillary Clinton, lasciata a visitare i Paesi al margine dell’impero), ha fatto una litigata «esplosiva» con Hamid Karzai, la marionetta posta da Bush nominalmente a capo degli afghani. Holbrooke ha scoperto (oh che sorpresa) che le elezioni afghane sono state truccate, ed ha persino minacciato di indire (lui l’americano, non il sedicente presidente afghano) nuove elezioni: dopotutto, non siamo lì con le nostre truppe per donare agli afghani la «democrazia»?

Il fatto è che Karzai ha tenuto testa. Ha aggiustato le elezioni facendo accordi con un buon numero di capi delle kabile - è per questo che nella zona controllata dagli italiani, su indicazione del capo-tribù, hanno votato anche il 60%, mentre nella zona degli inglesi hanno votato 150 degli 80 mila aventi diritto - e quindi ha una sua «base»: non proprio democratica, ma più concreta e reale dell’appoggio o dell’ostilità dell’ex unica superpotenza rimasta. La perdita di potenza e di prestigio USA è entrata nel calcolo.

Del resto, come osa dire Paul Reynolds, inviato della BBC e suo primo commentatore di questioni militari, che cosa offre Obama, via Holbrooke?

«Nuove tattiche s stessa strategia». Citando un anonimo «diplomatico occidentale» chiaramente britannico, «la strategia non cambierà realmente. Nessuno ha mai detto che i talebani possono essere sconfitti con mezzi militari, e Holbrooke parla come se noi (britannici) stessimo facendo questo». E’ l’effetto collaterale di essere servi di un padrone irascibile: viene il momento che il padrone ti accolla le colpe che sono sue. Karzai l’ha capito. Lo capiremo noi europei?

Holbrooke insegna a noi alleati-servi - dopo otto anni di occupazione e massacri di villaggi - che oltre allo sforzo militare, bisogna garantire «lo sviluppo» economico e la sicurezza legale in Afghanistan. Come se questa fosse la grande novità strategica. Ma, come dice l’anonimo diplomatico, il problema non è la strategia, «ma la sua applicazione» o implementazione. E qui, di idee non se ne vede nemmeno una.

Il che porta la questione sulla scrivania del presidente Obama. Un presidente in picchiata nei sondaggi, reso impotente da una crisi economica non risolta, preda della follia americana istigata dalle centrali neocon che l’attaccano sull’assistenza sanitaria gratuita, ma in realtà vittima della sua insufficienza di coraggio politico: sta sforzandosi di correggere le politiche di Bush e di ridurne i disastri, senza osare denunciarne le responsabilità e i crimini. Con ciò, resta chiuso sotto la cappa della menzogna «ufficiale», delle auto-illusioni di un americanismo virtuale e di un capitalismo distruttore. Ma chi avrebbe il coraggio di smascherare i responsabili del disastro?

E’ la nota lobby che - come già fece quando comandava in URSS - ha ridotto il Paese ex più potente della storia a un mendicante finanziario, dissanguato dai debiti e dalle speculazioni dei suoi finanzieri alla Madoff, Goldman & Sachs, e in un regime totale della menzogna impenetrabile.

Ora la lobby sta già abbandonando al suo destino quell’osso spolpato. E Obama diventa ogni giorno di più il Gorbaciov dell’americanismo, quello che affossò definitivamente il sistema proprio perchè cercava di «riformarlo», anzichè rovesciarlo e dichiararlo esaurito.



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