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Israele, le soldatesse parlano
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«Li facciamo stare in piedi, e c’è una canzoncina delle guardie confinarie che dice (in arabo) ‘Un hummus, un fagiolo, io amo le guardie di frontiera’; gliela facciamo cantare. Devono cantare e saltare, come si fa con le reclute... lo stesso, solo molto peggio. E se uno di loro ride, o noi decidiamo che qualcuno ha riso, lo prendiamo a pugni: perchè hai riso?, e giù un colpo... La cosa può andare avanti per ore, dipende da quanto si annoiano i soldati. Un turno di otto ore è lungo, bisogna passare il tempo in qualche modo».

Così ha raccontato una soldatessa israeliana della Seam Line Border Guard. E’ una delle cinquanta testimonianze anonime che la benemerita associazione israeliana «Rompere il Silenzio» (Breaking the Silence) ha raccolto; cinquanta ragazze che hanno fatto il servizio militare a contatto coi palestinesi, hanno sorvegliato coi loro camerati maschi i posti di blocco ad Hawara, a Naalin o altrove, hanno partecipato alle brutalità quotidiane. E solo mesi dopo si accorgono di non poter superare la violenza che hanno vissuto e compiuto.

«Abbiamo scoperto», dice Dana Golan, direttrice di Breaking the silence, «che le femmine erano anche più brutali e violente dei ragazzi, per mettersi alla pari». (Female soldiers break their silence)

«Una donna soldato deve provare di più... solo se una donna soldato picchia, gli altri la considerano una vera combattente», confessa una delle soldatesse che non riescono a dormire: «Quando sono arrivata (nella mia compagnia) c’era un’altra ragazza oltre a me, ed era lì prima di me... Tutti i ragazzi la portavano ad esempio, la ammiravano per come umiliava gli arabi senza problemi. La dovevi vedere, come li umiliava, il modo in cui li schiaffeggiava – accidenti – se ha pestato quel tizio...».

Una soldatessa della unità di polizia militare Sachlav, di base ad Hebron (città dove abitano 80 mila palestinesi e i soldati proteggono 480 ‘coloni’) ha raccontato di un bambino che provocava i soldati tirando delle pietre.

«Un giorno ha persino spaventato un soldato nostro, che è caduto dalla torretta e s’è rotto una gamba. Allora due soldati l’hanno messo in una jeep, e due settimane dopo l’abbiamo rivisto con entrambe le braccia ed entrambe le gambe ingessate... ne abbiamo riso molto nell’unità... ci hanno raccontato come l’avevano messo a sedere, messo le sue mani su una sedia, e gliele hanno spezzate lì sulla sedia...».

Ci sono stati comportamenti del genere contro donne? «Sì», ha risposto la soldatessa, «schiaffi, cose del genere. Per lo più schiaffi».

E contro uomini adulti? «Certo. Sono per lo più le soldatesse che picchiano gli uomini. Ce ne erano due (nella mia unità) che godevano a picchiare la gente, ma anche i maschi non avevano problemi a pestare una donna».

Un’altra soldatessa delle Border Guards dice: siamo noi donne a picchiare gli uomini, perchè li umilia di più.

«Quando una ragazza schiaffeggia un adulto, sono così umiliati che non sanno cosa fare.... uno dei loro modi di reagire all’umiliazione è ridere... Io sono una donna forte e ben fatta, e questo è ancora più umiliante per loro. Una volta uno mi ride in faccia... Il mio comandante mi guarda e mi dice: Cosa?! Glielo lasci fare? Non vedi che ti ride in faccia? Ho dovuto salvaguardare la mia dignità. Ho ordinato all’uomo di avvicinarsi... molto vicino. L’ho avvicinato moltissimo, come se stessi per baciarlo, e gli ho gridato in faccia: Vieni, vieni, di che cosa hai paura? Vienimi vicino! E gli ho dato un calcio nei coglioni. “Perchè non ridi adesso?”. Lui era completamente sotto shock... L’ho colpito con  i miei scarponi militari, nelle palle. Non se sei mai stato scalciato nelle palle, sembra che faccia molto male. Lui smise di ridermi in faccia per il male che gli avevo fatto. Poi lo portammo alla stazione di Polizia, e io ho pensato: mamma mia, adesso lui mi denuncia e sono nei guai. Ma lui non ha detto una parola... Come poteva dire che una ragazza l’aveva pestato sulle palle?».



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Un’altra soldatessa che è stata in servizio al posto di blocco di Eretz ha detto: «C’era una procedura per cui, prima di lasciare rientrare un palestinese nella Striscia, lo porti dentro la tenda e lo picchi».

Una procedura?!, chiede l’intervistatrice di Rompere il Silenzio: «Sì, una procedura, coi comandanti». E quanto durava il pestaggio? «Non tanto, entro 20 minuti i camerati tornavano alla base, ma si fermavano a bere caffè e fumare sigarette mentre quelli del posto di comando lo picchiavano... Non era una cosa che accadeva tutti i giorni, ma c’era una sorta di procedura...».

«Possono passare anche due o tre ore prima che (il palestinese) riesca a rientrare nella Striscia. Nel caso di un ragazzo, gli ci è voluta tutta una notte  (in attesa al posto di blocco); il che è pazzesco, perchè si tratta di deici minuti a piedi. Li fermavamo continuamente mentre andavano, e ogni soldato gli dava un ‘buffetto’, compresi i comandanti».

Una soldatessa, di leva nella guardie confinarie, ha raccontato come una volta andò con gli ufficiali a vedere un evento culturale a Tel Aviv: «Tornata al posto di blocco a Gaza, mi ha colpito la dissonanza: mezz’ora prima  stavamo applaudendo a teatro, e mezz’ora dopo ci comportavamo come bestie. Quando sei al checkpoint, entri in un altro mondo. I palestinesi camminano con carrelli della spesa, con carretti coi muli, con borse e valige sul lato della strada... e le guardie di frontiera li bersagliano con spazzatura presa dal camion dei rifiuti... gli tirano resti di cibo, verdure marce...».

La soldatessa racconta di aver protestato, ma che i suoi ufficiali le hanno ingiunto di stare zitta.

«Allora ho scelto la soluzione: partecipare a un corso-ufficiali, per non stare al checkpoint».
 
I poveri beni dei palestinesi in attesa ai checkpoint vengono rubati o vandalizzati. La stessa soldatessa operante al valico di Eretz ricorda: «Spesso i soldati aprono il cibo dei palestinesi. E glielo prendono. Prendono cose sempre ai checkpoint dei territori. Non si vede mai un soldato senza della musabha (pasta di ceci, analoga alla hummus israeliano)... e loro sono così disperati di esser lasciati pasare, che cercano di corrompere i soldati con queste piccole cose...».

Un’altra soldatessa ha parlato dei bambini che si avvicinando al checkpoint con dei giocattoli da poco prezzo da vendere: «Le guardie di confine negoziano con loro: bene, apri la borsa... Oh, ho bisogno di batterie... Le prendono, prendono qualunque cosa gli piace. Giocattoli, batterie, qualunque cosa. Sono certa che prendono anche soldi, ma non ricordo un episodio specifico…».

Una volta, aggiunge, la scena di uno di questi saccheggi fu ripresa con una telecamera, «e la cosa esplose… Il comandante di compagnia ci radunò e ci sgridò: ‘Non pensavate che qualcuno può vedervi?’. Ma non è stato punito nessuno. Davvero, era un clima dove ci era permesso picchiare e umiliare».
 
Una soldatessa che è stata in servizio ad Hebron ricorda un altro divertimento: colpire quelli che aspettano al posto di blocco con i proiettili di pistole-giocattolo. «Ne avevamo un sacco... Ti annoi, sei seduto a fare la guardia e ‘tac, tiri ad uno, ‘tac’, tiri a un altro». Una volta una reporter palestinese scattò una foto: un soldato israeliano che teneva puntato il mitragliatore alla testa di un ragazzo. Una «pattuglia speciale» si formò, entrò a Hebron e tornò con le foto.

«Non so se l’abbiano minacciata o l’abbiano pagata, la reporter. Le foto sono state distrutte il giorno stesso».

Ma spesso non ci si limita ad usare proiettili-giocattolo. Le guardie di frontiera giudee hanno in dotazione proiettili di acciaio coperti da uno strato di gomma (li chiamano «proiettili di gomma», appunto).

«C’era il protocollo chiamato ‘smantellare la gomma’, ossia spelare la gomma dai proiettili». Con questo, i cosiddetti «proiettili di gomma per il controllo delle folle» diventano letali. «E’ procedura normale mirare all’addome».



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Un posto di blocco in Israele. Donne, vecchi, bambini palestinesi che sperano di esser lasciati passare




Un’altra soldatessa ha raccontato di un bambino di 9 anni ucciso a Jenin: aveva cercato di superare la barriera, era caduto e stava scappando indietro, quando gli hanno sparato: «Gli hanno sparato quando era già nei Territori e non poneva alcun pericolo. E’ stato colpito alla pancia; i soldati hanno detto che era in bicicletta, per cui non sono stati in grado di mirare alle gambe».

La donna è rimasta colpita da come i soldati colpevoli e i loro superiori hanno immediatamente «aggiustato» il resoconto dell’avvenimento, segno di una lunga abitudine.

«All’inizio si guardavano e dicevano: è stato un omicidio ingiustificato... c’è stata un’inchiesta, e loro hanno dichiarato che il ragazzino stava cercando di identificare vie di fuga per i terroristi, qualcosa del genere... e il caso è stato chiuso».

Una soldatessa dell’intelligence ha testimoniato come, vicino ad Etzion, un cecchino israeliano uccise un ragazzo sospettato di aver lanciato una molotov: «I soldati hanno coordinato i loro resoconti, e quel che mi ha urtato di più era l’atmosfera di allegria che circondava l’incidente. Hanno scritto nel rapporto di situazione che dopo l’incidente tutto è diventato più calmo, che quella era la migliore deterrenza».

Altre hanno testimoniato le difficoltà ad Hebron di tenere a freno i «coloni»; la loro violenza contro i passanti palestinesi le ha stupite: «I bambini (ebrei) tirano pietre ai palestinesi e i genitori non dicono niente... avviene tutti i giorni a Tel Rumeida. Siccome il bambino è ebreo e l’altro è un palestinese, allora va bene... Dovevo girare un interruttore nella mia testa per continuare ad odiare gli arabi e giustificare gli ebrei».

Un’altra soldatessa ha confessato di aver sputato su un palestinese: «Non mi aveva fatto niente, stava solo passando. Ma era approvato che lo facessi, ed era la sola cosa che potevo fare: sai, mica potevo vantarmi di aver catturato un terrorista... però potevo sputare addosso a loro, degradarli, deriderli».

Un’altra dell’unità Sachalv ha descritto come, sotto i suoi occhi, una bambina ebrea di otto anni ha deciso di tirare una pietra in testa ad un passante palestinese: «Bum! Quello passava per strada, lei gli è saltata addoso e gliel’ha picchiata proprio sulla testa... poi ha cominciato a gridare: “Yuck, yuck, ho il suo sangue addosso!”».

Siccome il palestinese s’era voltato verso la ragazzina, il gesto è stato interpretato come una minaccia da uno dei nostri soldati, che l’ha preso a pugni... l’arabo s’è riparato la ferita in testa con la mano ed è scappato.... Ero lì e guardavo con orrore... una bambina innocente, nel suo vestitino dello Shabbat... una volta l’ho vista che portava un suo fratellino sul passeggino, un bambino. Gli dava dei sassi e gli diceva: tirali agli arabi».

La ragazza che aveva scalciato il palestinese «nei coglioni», tre anni dopo, ha deciso di parlare perchè quel ricordo (ed altri) la tormentavano di notte.

«Sul momento avevo provato un senso di forza e di potere... oggi penso che il sistema vada cambiato. E’ gravemente sbagliato. Gravemente. L’intera amministrazione, il modo in cui queste cose sono gestite, non è giusto. Non so come ho poutto fare... Non ho mai creduto che quella (umiliare e picchiare) fosse la cosa giusta da fare, ma sentivo che era la sola cosa da fare. E’ inevitabile in quelle circostanze... tanto per cominciare, noi ragazze siamo in minoranza nella unità...».

Il portavoce di Tsahal ha risposto così alla pubblicazione di queste testimonianze: «Si tratta di testimonianze anonime, senza alcuna precisazione quanto ai luoghi e ai tempi, la cui credibilità non possiamo controllare».

William Boykin
   Naomi Hazan
Coraggiose organizzazioni come «Rompere il Silenzio» (su cui i nostri media mantengono il silenzio), per le loro denunce, corrono sempre più rischi nel clima di fanatismo dominante in Israele. Mentre scrivo, è in corso una campagna di persecuzione contro un altro gruppo che lotta contro l’apartheid, New Israel Fund, e la sua fondatrice Naomi Hazan, una ex parlamentare israeliana del partito Meretz. Gruppi settari hanno scoperto che il «New Israel Fund» viene citato dal Rapporto Goldstone con lode, per aver denunciato e reso note le atrocità commesse a Gaza.

Immediatamente, le città israeliane sono state coperte di manifestini come questo:



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Naomi Hazan, ribattezzata «Naomi Goldstone Hazan», viene raffigurata con un corno di rinoceronte, e accusata di aver fatto la spia al giudice Goldstone. Un manifestazione minacciosa è stata tenuta davanti alla casa dell’ex deputata a Gerusalemme sabato scorso.

Ma quel che è più grave, è quel che è successo subito dopo. Naomi Hazan scrive da anni un commento periodico sul Jerusalem Post. Ha ricevuto una e-mail dal direttore del giornale, David Horowitz, in cui le è stato comunicato che la sua collaborazione era sgradita, e quindi cessava da quel momento. Nemmeno una telefonata: una mail. (Amid row over contentious ad, Jerusalem Post fires Naomi Chazan of New Israel Fund)

«Ridurre al Silenzio» è più forte di «Rompere il Silenzio».

William Boykin
   John Hagee
Nel manifestino minaccioso contro la Hazan, si noti la firma: «Im Tirtzu». Si tratta di un’organizzazione di fanatici ebrei che, però, risultano largamente finanziati (con 100 mila dollari l’anno) dai «Christian United for Israel» (CUFI), fondazione del ricchissimo telepredicatore John Hagee, uno dei grandi sostenitori «cristiani» dell’occupazione di tutta la terra santa da parte di Israele.

Nel 2008, John Hagee proclamò pubblicamente che Hitler aveva compiuto la volontà di Dio, in quanto aveva indotto gli ebrei a tornare in massa in Israele secondo la promessa biblica; questa asserzione indusse il candidato repubblicano McCain a rinunciare altrettanto pubblicamente all’appoggio di Hagee. Ma Hagee insiste: nei suoi libri sostiene che Hitler era mezzo ebreo, ancorchè discendente dalla tribù di Esau, il fratello di Giacobbe...



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