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Bergoglio: parola alla difesa
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I lettori riconosceranno l’autore di questa mail: è Stefano, il giovane aspirante francescano che nei conventi e nelle iniziative intese ad attrarre vocazioni, trovava banalità, insipidezza, proiezioni di film del pecoreccio italiota... Quella lettera si può trovare qui.

Egregio Direttore Blondet

ho seguito con fatica il dibattito sollevato tra le pagine di EFFEDIEFFE circa le ambiguità che sembrano emergere da questo inizio di pontificato di Papa Francesco. Fatica non dovuta al poco tempo per la lettura o per la ricerca di approfondimenti, ma perché la questione in qualche modo mi spaventa e mi ferisce, e trovo che vi sia qualcosa che stride e si contrappone ad una giustizia più alta, alla quale noi cristiani sempre dovremmo obbedire.

Meno di un anno fa Le scrissi una lettera, alla quale seguì un intenso scambio di mail, poi pubblicata nell’articolo "La Chiesa può ancora accogliere una vocazione?" che ha avuto molto seguito tra i lettori del giornale. In quella lettera io denunciavo non senza una vena di rabbiosa polemica una certa pastorale giovanile, che ho incontrato in ambito francescano ma che è diffusa un po’ ovunque nella Chiesa, e che giudicavo fallimentare.

A distanza di parecchi mesi da allora e in occasione di questo nuovo dibattito nato attorno alla figura dell’attuale pontefice, devo dirLe che c’è qualcosa che non mi convince. Non tanto nell’attuale Papa. C’è qualcosa che non mi convince tanto nelle mie parole (di allora) quanto nelle sue.

Leggendo il suo ultimo saggio dal titolo "C’è un doppio Bergoglio?" mi è venuto quasi spontaneo mettere in parallelo la sua analisi polemica con la mia lettera sopracitata, che sebbene trattasse un argomento diverso (allora nessuno immaginava che sarebbe arrivato un nuovo Papa con il nome di Francesco), mi sembra abbia qualcosa in comune con la sua attuale critica al pontefice. In me allora agiva uno spirito di polemica, dettato più dal timore e dalla debolezza umana, che dalla fede e dall’amore per la Chiesa. Dico questo perché ho sempre avuto la sensazione che quel mio discorso, sebbene toccasse argomenti importanti e in buona parte condivisibili, non rendesse giustizia alla verità di un cammino vocazionale, tanto che la risposta alla domanda posta come titolo dell’articolo, poteva essere una nuova domanda: "Ho abbastanza fede io per accogliere una vocazione religiosa dentro la Chiesa?". E leggendo le mie parole di allora, la risposta sarebbe stata no.

Deve sapere che a seguito di quella lettera ho attraversato un brutto momento, da un punto di vista spirituale. Nelle settimane successive mi sono sentito pervaso da un sentimento di vaga angoscia, come se avessi commesso una grave colpa, quasi come se avessi non dico tradito, ma almeno rinnegato il Signore. E per qualche tempo ho pure smesso di pregare.

A distanza di tempo, e dopo averci riflettuto con calma, ho capito che l’errore principale che ho commesso era legato alle mie motivazioni più profonde, dove la critica razionalmente condivisibile alla pastorale francescana, si mescolava a tutte le mie paure, alle mie mancanze e alla debolezza della mia fede. Tanto per intenderci, oggi potrei ribadire molto di quello che ho scritto, ma lo farei con parole diverse. Non perché vorrei mascherare meglio quelle insicurezze profonde che allora mi animavano, e che certamente anche oggi abitano in me, con una forma più diplomatica e opportunista. Bensì perché ogni cristiano ha una responsabilità nei confronti degli altri suoi fratelli: non deve scandalizzarli, né spaventarli, né corromperli, diffondendo subdolamente il proprio disagio mascherato di orgoglio. In questo senso, ogni critica deve essere costruttiva e indirizzata al bene e all’unità della Chiesa, secondo una visione che non ci appartiene ma che ci viene donata dall’alto, alla quale siamo chiamati di volta in volta a conformarci. Ci vuole parecchia umiltà per riconoscere il proprio orgoglio e le proprie debolezze, e a mio modo di vedere in quella lettera, così come nella sua critica all’attuale Papa, c’è poca umiltà e molto orgoglio e spirito di polemica.

Ho seguito l’elezione del nuovo Papa non senza perplessità, dovute dall’inedito caso di un Papa dimissionario, poi accresciute dal nome sconosciuto del nuovo pontefice e confermate ulteriormente da quel saluto iniziale molto informale ed emotivo. Ma fin dall’inizio mi sono imposto di non precipitare in un giudizio personale e affrettato, ma di ascoltare attentamente, mettendo davanti a me anziché la diffidenza e la paura, già pronte ad esplodere in polemica, la fiducia. Correndo cioé il rischio di essere deluso. Ma con la convinzione che questo rischio è sintomo di un’apertura molto più cristiana, a mio modo di vedere, della diffidenza.

Così ho ascoltato il Papa, in diverse occasioni, non con il ciglio alzato in cerca dell
errore dottrinale, ma con la mia fragilità di cristiano del XXI secolo estremamente bisognoso di un pastore. Sono andato a cercare su youtube qualche discorso e qualche omelia completa, ho osservato molti dei suoi gesti con l’ingenuità e l’apertura di un bambino. E da allora qualcosa ha iniziato a cambiare in me, e quella diffidenza è scomparsa del tutto, lasciando spazio ad un rinnovato coraggio ed entusiasmo.

Non conosco bene la vicenda che ha riguardato l’Ordine dei Frati dell’Immacolata, e quindi faccio fatica ad esprimere un giudizio netto in merito. Non conosco le premesse, i vari personaggi in gioco, le dinamiche interne dell’Ordine. Personalmente sono molto dispiaciuto per l’accaduto, mi immedesimo in uno qualsiasi di quei frati disorientati, e spero che sappiano trovare in questa vicenda dolorosa l’umiltà che consente di aprirsi a visioni ancora più ampie, limpide e sante della propria vita religiosa dentro la Chiesa. Come appena detto, non conosco bene questo Ordine e il suo carisma, che condivido sotto il profilo della conservazione e riproposizione di una liturgia antica e preziosa, meno invece per quanto riguarda la forte ascendenza mariana che i frati dell’Immacolata spingono fino alla promozione del dogma della corredenzione di Maria.

D’altra parte ho assistito da casa, ma non per questo con meno appassionato coinvolgimento, la visita ad Assisi che Papa Francesco ha voluto fare in occasione della solennità dedicata a san Francesco, il 4 ottobre di quest’anno. C’era allora il timore e l’aspettativa che il Papa pronunciasse parole forti in merito alla questione della povertà nella Chiesa. Invece ho visto un Papa profondamente rabbuiato dai recenti fatti di Lampedusa, un Papa sofferente, serio, piegato da un dolore intimo del quale ha parlato ma che in parte mi è sembrato talmente profondo da non poter essere detto. La stoccata contro la ricchezza della Chiesa non è arrivata, almeno in quell’occasione, e se anche qualche parola circa questo argomento il Papa l’ha spesa, è rimasta sfocata e in secondo piano.

Ciò che invece mi ha colpito con grande sorpresa ed entusiasmo sono state la parole del Pontefice durante l’omelia, in particolare un passaggio che voglio riportarLe e che immagino avrà notato anche Lei, caro Direttore, e che risponde a mio modo di vedere proprio alle questioni che avevo sollevato nella lettera che Le scrissi l’inverno scorso. Davanti ad una piccola folla di frati e di cristiani, nella piazza antistante la Basilica di san Francesco, nel giorno della solennità del santo, il Papa ha detto:

"La pace francescana non è un sentimento sdolcinato… Questo san Francesco non esiste! E neppure è una specie di armonia panteistica con le energie di cosmo. Anche questo non è francescano, ma è unidea che alcuni hanno costruito. La pace di san Francesco è quella di Cristo e la trova chi prende su di sé il suo giogo."

Più chiaro di così? Se questo Papa, che ha scelto il nome di Francesco, ha sentito il dovere di fare un’osservazione così precisa e lucida in occasione della sua prima visita ufficiale ad Assisi, davanti al mondo francescano, allora non posso che prendere coraggio e imparare da lui la sua umiltà, così diversa dalla mia.

La differenza tra le parole del Papa e le mie di un anno fa sta tutta nell’umiltà, che a me è mancata. Umiltà che è il principio di ogni azione buona e santa, anche e soprattutto nella critica. Mentre le mie parole di allora, così polemiche e orgogliose, invece erano parole di divisione.

Non sono un teologo, né uno storico vaticanista esperto. Ma con la semplicità di un cristiano qualsiasi ripenso a tutti i gesti compiuti dal Papa fino a qui, e provo a leggerli con un ottica diversa, non la mia, ma quella dello Spirito Santo, cercando di intravedere in quei gesti e in quei discorsi la Presenza autentica di Dio che si serve dell’uomo Bergoglio, nominato successore di Pietro in quest’epoca così difficile e inedita. E vedo così un uomo come tanti, con le sue debolezze e i suoi possibili errori, ancora capace però di obbedire all’ispirazione divina, con la fede sincera di chi è ancora un fanciullo, e sa dare spazio allo Spirito perché lo Spirito parli attraverso di lui e vada dove vuole. Certo, ci saranno momenti dove l’uomo Bergoglio prevarrà sullo Spirito, o meglio, momenti in cui lo Spirito Santo semplicemente tacerà, e parlerà soltanto la persona con le sue discutibili opinioni. Ma siamo sicuri: alla fine, le tenebre non prevarranno. Significa cioè che la fiducia che dobbiamo dare a questo Papa non è legata alle nostre personale aspirazioni o giudizi, ma è dovuta alla fede che abbiamo nel Cristo e nel suo Vangelo. Non una fede cieca, certo, ma aperta all’ascolto, senza paura, docile e mansueta.

In questo senso non condivido affatto la sua critica, caro Direttore, al dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, e leggendo e rileggendo quelle domande e quelle risposte, penso che anche io avrei finito per dire le stesse cose che ha detto il Papa. Cosa si può dire ad un ateo che non ha la minima intenzione di aprirsi alla fede e che è perlopiù accecato dall’istituzione religiosa che rappresenta della fede? Secondo Lei direttore era più corretto condannare Eugenio Scalfari con fare inquisitorio, promettendogli fiamme e inferno se non si fosse convertito immediatamente? Oppure tacere? Nel primo caso, ciò avrebbe generato polemiche non soltanto tra gli atei, rafforzando il loro orgoglio, ma soprattutto tra i cristiani, facendo sembrare Eugenio Scalfari quasi un martire, più vicino a Cristo di un Papa che invece condanna come un antico sacerdote ebraico nel sinedrio. Tacere invece sarebbe stato soltanto il perdere un’occasione di dialogo.

Invece il Papa in quella occasione ha ottenuto quello che voleva: ha fatto arrivare la sua voce ad una grande fetta di persone che altrimenti non avrebbero mai ascoltato una sola parola uscire dalla bocca di un Pontefice, se non per criticarla. Ha teso una mano, anzi un braccio, ad un uomo molto anziano e tramite lui e migliaia di altri lettori. Ed Eugenio Scalfari alla fine ha mostrato soltanto la sua pochezza intellettuale, la debolezza delle sue domande, il vago dubbio che abita dentro al suo cuore. Il chiedere se per caso esiste un perdono anche per chi non è credente, superficialmente può apparire come la provocazione di un ateo verso un religioso, ma rivela in realtà un dubbio e una fragilità profonda, che non riguarda più l’intervista da pubblicare su un diffuso quotidiano anticlericale, ma il destino di quel pover’uomo così lontano dalla fede. E qualsiasi lettore di Repubblica sono sicuro ha avvertito quella debolezza, l’ha sentita dentro di sé.

Vede, Direttore, lerrore della sua critica alle parole del Papa in quell’intervista, sta tutto qui. Nel leggerla con gli occhi di un cattolico, per giunta impaurito dai gesti di un Papa che presta facilmente il fianco alle correnti progressiste e fa l’occhiolino al mondo laico. Invece quell’intervista va letta con gli occhi di un ateo a cui questi discorsi non interessano minimamente e che vive al di là di un muro. Non c’è scandalo nel dire che la salvezza è aperta a tutti, anche agli atei, perché ciò che conta agli occhi di Dio è il cuore, misura di tutte le cose. Sappiamo, noi cattolici, che tale verità non solo è perfettamente coerente con il Vangelo, ma anche che portata alle sue più radicali conseguenze, conduce alla conversione a Cristo Gesù, che non è un’idea o un dogma, ma una Persona. Ma questo gli atei non lo sanno, e fino a quando ci sarà un muro di separazione non potranno mai capirlo. E chi altri poteva citare il Papa se non il cardinal Martini, nel dialogare con un Eugenio Scalfari? Forse avrebbe dovuto proporre una figura come quella di sant’Ignazio di Loyola? E a chi avrebbe giovato? A Scalfari e ai suoi lettori? Oppure all’orgoglio assopito dei gesuiti? Non avrebbe giovato a nessuno e sarebbe stato come gettare perle ai porci. Invece il Papa ha scelto di citare il cardinal Martini, sapendo di trovare in quella figura il mezzo per ottenere maggiore fiducia da parte del proprio interlocutore.

Non sono un ammiratore del cardinal Martini, sono consapevole dei danni provocati da una certa vaghezza dottrinale e pastorale negli anni del post-concilio, sono amante della liturgia antica e della solennità del latino, convivo anche io con lo scandalo di un altare girato verso il popolo che dà le spalle a Dio, e del Tabernacolo nascosto nelle navate laterali. Ma questo non mi ha impedito di convertirmi, di sapere che nelle mani del sacerdote c’è il Corpo e il Sangue di Cristo Gesù, di riconoscere l’azione salvifica necessaria che proviene dai Sacramenti. E se ho avuto modo di capire tutte queste cose, allora chiunque può farlo, e il mio compito oggi è di aiutare il prossimo a vedere tutto questo, con l’esempio di Gesù e di tutti i santi che sono nati nella Chiesa, ovvero con la mansuetudine, la mitezza e la pace del cuore.

E che dire dello splendido discorso che il Papa ha fatto ai giovani seminaristi, ponendo l’accento sulla castità, o dell’intervista concessa durante il volo di ritorno dall’America Latina, dove Papa Francesco tra le altre cose ha ribadito che la questione del sacerdozio femminile è chiusa, o ancora delle tante omelie in cui il Papa affida se stesso e le nostre preghiere alla Madonna, oppure della proposta di una giornata di digiuno e di preghiera all’indomani di un attacco sconsiderato delle forze militari occidentali in Siria?

Questo Papa a mio modo di vedere merita tutta la fiducia da parte di noi cristiani, una fiducia che non sia condizionata o attenta alle virgole di ogni singolo discorso, ma che sappia lasciarsi condurre dallo Spirito verso la sostanza dei gesti e delle parole, in funzione dell’unità. E se dovessimo alla fine rimanere delusi, sapremo a chi rivolgerci per consolare il nostro dolore e i nostri dubbi. Ma allontanandoci adesso dal nostro Papa, ci allontaniamo inevitabilmente anche dal Signore che l’ha posto a capo della sua Chiesa, e restiamo più poveri, più orgogliosi e più distanti.

Mi permetto di chiudere queste mie osservazioni, probabilmente inutili o eccessivamente prolisse, tornando a quella mia lettera di circa un anno fa. Che cosa ho imparato da allora? Forse non molto, ma almeno una cosa certamente sì. E cioè che nonostante esista un problema nella pastorale nella Chiesa, che più che avvicinare i giovani con i suoi canti stonati e un carisma sdolcinato, spesso li allontana lasciandoli preda degli inganni degli idoli moderni, esiste un rischio peggiore, che è quello di porci come dei Savonarola, o peggio ancora dei Lutero, puntando il dito contro la Chiesa e i suoi rappresentanti, diffondendo dubbi, che è quanto di meno francescano esista. E’ la differenza tra fra Dolcino e frate Francesco.
Noi da che parte stiamo?



Caro amico, non ti sembri strano: condivido tutto ciò che hai scritto. Anch’io ho sentito con entusiasmo papa Bergoglio dire cose giustissime, tradizionali perfette; e l’ho anche detto e scritto. Forse per la prima volta da anni ho potuto sentire talvolta in questo pontefice, il “mio”, il padre dei cristiani che per troppo tempo c’è mancato, dal “Papa Buono” in poi. Anch’io non voglio “ascoltare il Papa con il ciglio alzato in cerca dell’errore dottrinale”. Ho persino attraversato il suo “brutto momento” di colpa, nel dubbio di aver criticato per poca umiltà e molto orgoglio e spirito di polemica, temendo di portare divisione; assumere lo spirito di un Lutero, puntando il dito contro la Chiesa e i suoi rappresentanti, è paradossalmente il rischio delle posizioni “tradizionaliste” in cui in parte mi riconosco. Naturalmente il mio è stato un momento meno brutto del suo, perché io non sono al suo livello spirituale e la mia coscienza è meno sensibile, forse più callosa (malattia professionale dei giornalisti. Però il timore di essere un attore di divisione e frattura, e un pericolo per la mia anima, s’è fatto sentire eccome.

Infatti non volevo scrivere nulla sul Papa, non volevo replicare alle critiche spesso furenti e pregiudiziali che vengono da certi miei lettori. Ciò che mi ha spinto vedere che, dopo la doppia conversazione con Eugenio Scalfari e la lunghissima intervista gesuita, Palmaro e Gnocchi hanno protestato con un fortissimo titolo: “Questo papa non ci piace”, sul foglio. E Mastino ha commentato: “Io credo che il tutto potrà soltanto degenerare. Ci stiamo preparando misteriosamente così a qualcosa di enorme che sento alle porte, e mi fa anche paura”.

Siccome apprezzo Mastino e conosco personalmente Palmaro, e so che è molto più cristiano di me, so che hanno elevato la loro protesta né a cuor leggero né per tifoseria, ma convinti di esercitare un dovere. Hanno dato voce a dubbi che ci sono ed è inutile negare. L’epurazione immediata di Palmaro e Gnocchi da Radio Maria, con la loro messa in stato d’accusa senza nominarli in un’omelia a Santa Marta, mi ha fatto risuonare il campanello d’allarme - quel campanello che è inserito nel cuore del vecchio anti-totalitario che sono stato, continuamente esposto a simili cacciate, demonizzazioni, censure e dannazione di memoria e testimone di infinite altre espulsioni di dissidenti. Azioni .che di solito non vengono da chi ha come sola cura quella della verità.

Ciò mi ha spinto a scrivere su Bergoglio, cosa che non volevo. Ho scritto forse troppo ; sicuramente troppo diffidente – una diffidenza che personalmente non sento del tutto. Anch’io capisco che lui, il papa, ha profonde ragioni nel voler alleggerire e svecchiare una cultura che – per chi non ce l’ha – può essere d’ostacolo alle conversioni. Per credere non c’è da imparare il latino né assorbire Tomaso d’Aquino, non c’è obbligo di conoscere la storia del Sillabo e il motivo per cui la Chiesa è stata, fino al Concilio, quella che era: opposta al “mondo”. Capisco che San Paolo ha perfettamente ragione quando dichiara: “non mi sono presentato... con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso”.

Il punto, forse, è che il Concilio e ancor più il dopo-Concilio hanno già buttato via molto, messo da parte molto. E con che risultato? Quello che lei notava nell’altra lettera: preti senza formazione (il mancato latino e Tomaso c’entrano per qualcosa), confessori convinti che l’inferno non esiste, frati che guardano filmetti pecorecci, in Lombardia “nessun nuovo postulante” da anni, i “giovani che partecipano alle marce francescane che si dimezzano di anno in anno”, per non parlare delle degenerazioni e liquefazioni dei “movimenti”, che dividono l’universalità e l’unità della Chiesa – alla lunga – in modo più decisivo che le miti proteste di Palmaro e Gnocchi. Fra vent’anni, un fedele “normale” entrerà in una chiesa e non riconoscerà la messa, perché lì la celebrano rinnovatori dello Spirito; in un’altra, non troverà la messa domenicale perché di quella chiesa si sono impadroniti i neocatecumenali, che la celebrano il Sabato ebraico; ci saranno i riti ciellini e quelli pentecostali, riti lefevriani e sedevacantisti e messe di lefebvriani “ritornati”, una ostile all’altra, e irriconoscibile l’una ai fedeli dell’altra. Addio universalità.

Lei oggi s’è pentito di aver criticato, perché ha fatto progressi spirituali decisivi; ora ha conseguito una umiltà che le fa’ essere grato perché “il Tabernacolo nascosto nelle navate laterali” non le ha “impedito di convertirmi, di sapere che nelle mani del sacerdote cè il Corpo e il Sangue di Cristo Gesù, di riconoscere lazione salvifica necessaria che proviene dai Sacramenti. E se ho avuto modo di capire tutte queste cose, allora chiunque può farlo”. Va bene, d’accordo; ma riportare il Tabernacolo al centro e rigirare l’altare – segno minimo di rispetto e di fede nel Cristo eucaristico – non dovrebbe ostacolare conversioni. In questa ostinazione a decentrare e mettere da parte, stringere le mani, a parlare di “mensa” anziché di sacrificio, non riconosco il “voglio sapere solo Cristo, e quello crocifisso” di San Paolo. C’è il sospetto di uno spirito contrario, ostile, per non dire anticristico. Fumo di Satana, come disse un papa che poi nulla fece per identificare la fessura.

Forse basterebbe che il papa rispondesse a Palmaro e Gnocchi come ha risposto a Scalfaro, invece di bollarli con impazienza come farisei; che cercasse di capire l’esasperazione di questi cristiani, e li ascoltasse. Palmaro e Gnocchi hanno scritto libri addolorati sulle derive liturgiche e anche dogmatiche e pastorali; non ricevono mai ascolto dalle gerarchie. Questo non venire ascoltati può esasperare, specie quando poi si “ ascolta” Scalfaro. Secondo me, il papa – come chiunque altro – avrebbe da guadagnarci a leggere Palmaro. Anche, se mai, per contrastarlo, per correggerlo. Ecco, m’è parso che in questo sia mancata un poco la paternità del paterno Francesco.

Tutto qui. Smetto per non passare un altro brutto momento di senso di colpa. Anche se – e la finisco proprio – quando uno scrive a un giornale, entra nell’arena dell’opinione e delle “reazioni”, dove c’è chi applaude e c’è chi fischia. E’ un livello spirituale basso, sono il primo a riconoscerlo. Se si vuole stare sul livello alto, dell’autorità spirituale, dove chi dissente è condannato, dove è in gioco l’infallibilità a cui siamo tenuti a credere (cosa che esige rispetto anche dall’infallibile), è meglio non scendere in quel tipo di arena. Lo dico, s’intende, non da teologo ma da semplice giornalista. Ciò alleggerisce il mio senso di colpa; so che il livello non è quello delle verità supreme, ma delle opinioni e dei pareri.

Detto tutto questo, pubblico volentieri la tua lettera. Da una persona come te, è una bella e giusta messa in guardia sui rischi che si corrono, per l’anima nostra, in questa polemica. Le tue critiche a me sono legittime e non me ne offendo, anzi. Prega per me.


Maurizio Blondet



 
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