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Keynes, l’autarchico
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«Produciamo in patria ogni volta che ciò è ragionevolmente e praticamente possibile; e soprattutto, facciamo in modo che la finanza sia nazionale».

«Mi sento più vicino a chi vuol diminuire l’interdipendenza delle economie nazionali, che a coloro che la vogliono accrescere».

«... Tendo a pensare che, dopo un periodo di transizione, un grado più alto di autosufficienza nazionale ed una maggiore indipendenza economica fra le nazioni di quella che abbiamo conosciuto nel 1914 possano servire la causa della pace, piuttosto che il contrario».

Chi l’avrebbe detto? L’autore di queste affermazioni, eretiche rispetto al liberismo globale, è John Maynard Keynes. È nel 1933 che egli scrive una argomentata difesa dell’autarchia («autosufficienza nazionale»), in un testo National Self-Sufficiency che è pubblicato sulla The Yale Review nel giugno di quell’anno (volume 22, numero4, pagine 755-769).

In Italia, già dal 1925 Mussolini aveva lanciato «la battaglia del grano», il grande programma di autosufficienza nazionale alimentare. La prima misura fu protezionista: ripristino dei dazi sui grani importati. La seconda: detassazione del petrolio per i motori agricoli. la terza: la selezione delle sementi (sementi «elette»). Nel 1931, dopo sei anni dalla campagna, l’Italia aveva raggiunto gli 81 milioni di quintali, la quasi autosufficienza, e l’eliminazione dalla bilancia commerciale di un passivo di 5 miliardi di lire.

Risultati che Keynes si guarda bene dal riconoscere al regime fascista. Ma è sicuramente il quadro in cui avvia il suo ripesamento del libero-scambismo e dell’interdipendenza globale, due dogmi della dottrina di Adam Smith e nerbo dell’ideologia imperiale britannica. E ripensamento è, come Keynes ammette fin dall’esordio del suo articolo:

«Come la maggior parte degli inglesi, sono stato educato nel rispetto del libero scambio, considerato non solo come dottrina economica che nessuna persona razionale ed istruita potrebbe mettere in dubbio, ma come un elemento della morale. Consideravo le offese a questo principio come stupide e scandalose. Pensavo che le inconcusse convinzioni dell’Inghilterra in materia di libero scambio, mantenute da più di un secolo, spiegassero la sua supremazia economica davanti agli uomini e a Dio».

Ciò che gli ha fatto cambiare idea, dice, «è il fatto che le mie speranzze, preoccupazioni e timori sono cambiati, come quelli della maggior parte della nostra generazione nel mondo intero. È un lungo processo strapparsi dai modi di pensare che erano quelli del secolo decimonono. È sorprendente notare come una mente si trascini degli orpelli obsoleti anche dopo aver cambiato le sue concezioni centrali. A oggi, percorso un terzo del secolo ventesimo, stiamo per lo più uscendo dal precedente...».

Uno dei corollari del dogma liberista suona così: l’aumento degli scambi fra Stati, l’interdipendenza economica degli uni dalle merci degli altri, favorisce la pace mondiale; non si può fare la guerra al tuo fornitore o al tuo cliente...

Keynes, proprio perchè si dichiara «pacifista convinto», obbietta ironico:

«Non è evidente che concentrare i propri sforzi nella conquista dei mercati stranieri, introdurre nelle strutture economiche di un Paese le risorse e l’influenza di capitalisti stranieri, e dipendere strettamente dalle politiche degli altri per la propria vita economica, sia una garanzia di pace fra le nazioni; l’esperienza e la previdenza ci spingerebbero anzi ad affermare il contrario».

Anzi, dice, la globalizzazione è la faccia dell’imperialismo espansivo – aggressivo – del capitale:

«La protezione da parte di un Paese dei suoi interessi allestero, la conquista di nuovi mercati, i progressi dell'imperialismo economico, non sono che elementi ineliminabili della politica di coloro che vogliono massimizzare la specializzazione internazionale e la diffusione geografica del capitale, dovunque risieda colui che lo possiede».

Contro i capitali mobili

Fatto stupefacente, Keynes si dichiara contro la libera circolazione dei capitali nel mondo, e persino contro le società per azioni.

«Se si potesse evitare la fuga dei capitali, opportune direttive economiche interne sarebbero più facili da attuare. C’è un vero divorzio tra i proprietari del capitale e i gestori delle imprese, quando, a causa della forma giuridica delle aziende, il loro capitale è suddiviso tra una miriade d’individui che comprano azioni oggi, le rivendono domani e non hanno la conoscenza né la responsabilità di ciò che possiedono per poco tempo. Questo è già grave allinterno di un Paese; ma le stesse pratiche estese su scala internazionale diventano intollerabili in periodi di tensione».

Keynes addita in questo il nascere di un capitalismo irresponsabile; anzi, la circolazione globale dei capitali caldi provoca una generale de-responsabilizzazione.

«Un calcolo puramente finanziario può mostrare che è vantaggioso per me investire in qualche parte del mondo dove lefficacia marginale del capitale è massima o dove i tassi dinteresse sono più alti. Ma si vede dallesperienza che il fatto che il proprietario sia lontano dalla gestione nuoce ai rapporti tra gli uomini; e questo provoca presto o tardi delle tensioni ed inimicizie che finiscono per annullare i calcoli finanziari».

«Mi sento dunque più vicino a coloro che vogliono diminuire linterconnessione delle economie nazionali, più che a quelli che la vogliono aumentare. Le idee, il sapere, la scienza, lospitalità, il viaggio devono essere per natura internazionali. Ma produciamo in casa ciò che è razionalmente e praticamente possibile, e soprattutto facciamo che la finanza sia nazionale. Tuttavia coloro che vogliono svincolare un Paese dai suoi legami è bene lo facciano con prudenza e senza precipitazione; non si tratta di strappare la pianta con le sue radici, ma di abituarla a poco a poco a crescere in una direzione diversa».

«... Una più grande indipendenza economica fra le nazioni di quella che abbiamo conosciuto nel 1914 può servire alla causa della pace. L’internazionalismo economico non è riuscito a scongiurare la guerra».

Si deve qui ricordare che il mondo della Belle Epoque fino alla Prima Guerra Mondiale, era un mondo ampiamente globalizzato, come volevano le potenze egemoni, l’impero britannico e gli Stati Uniti. Fino alla crisi del '29, capitali americani correvano a investirsi in Germania dove spuntavano profitti più alti che in patria, e Londra era il mercato mondiale dei debiti pubblici. Esisteva persino una moneta unica mondiale: l’oro sotto il Gold Standard a cui erano legate le valute nazionali. Per questo Keynes può dire che quella prima globalizzazione non ha affatto mantenuto le promesse di pace perpetua. Anzi, egli denuncia il carattere malsano di «un internazionalismo economico» dove «uno speculatore di Chicago prende una partecipazione azionaria in una impresa tedesca, o una zitella inglese negli investimenti della municipalità di Rio de Janeiro». Oggi denuncerebbe i capitali roventi che confluiscono nei Paesi emergenti e in Cina, attratti da tassi di profitto inarrivabili.

Costi e vantaggi del patriottismo economico

«Sono chiaro: un livello elevato di specializzazione internazionale è necessario (...) ogni volta che è dettato da importanti differenze climatiche, di risorse naturali, di livello di cultura e densità di popolazione. Ma per una gamma sempre più vasta di prodotti industriali, e forse anche di prodotti agricoli, non penso che le differenze economiche dovute alla auto-sufficienza siano superiori ai vantaggi – diversi da quelli economici – che si possono avere riportando progressivamente il prodotto e il consumatore nellambito di una stessa organizzazione economica e finanziaria nazionale».

Tanto più, rileva l’economista, che nelle economie avanzate i servizi, gli alloggi, le infrastrutture locali – che non sono oggetto di export-import – aumentano il loro peso relativo rispetto ai prodotti di base e a quelli manifatturati.

«Se anche il costo di questi ultimi aumentasse un poco, a causa di una più grande autosufficienza nazionale, le conseguenze non sarebbero gravi, in confronto ai vantaggi di altra natura: in breve (...) è un lusso che possiamo offrirci, se lo desideriamo».

Ai «molti amici educati all’antica e spaventati dagli sprechi e dalle perdite economiche che vanno di pari passo col nazionalismo economico», Keynes ritorce che nemmeno il capitalismo ultraliberista ne è esente.

«Il capitalismo, internazionale e tuttavia individualista, decadente ma dominante dalla fine della guerra, non è un successo. Non è nè intelligente nè bello, nè giusto, nè virtuoso, e non mantiene le sue promesse. In breve, non lo amiamo e anzi cominciamo a disprezzarlo».

«Oggi (nel 1933, ndr) ci sono Paesi che mettono in questione questo modello. La Russia è ancora la sola a tentare una esperienza molto particolare, ma altri abbandonano le teorie del XIX secolo: Italia, Irlanda, Germania si interessano a nuove forme di economia politica (...) .Anche la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che rispettano ancora strettamente il vecchio modello (del liberismo globale, ndr) aspirano senza darlo a vedere a un nuovo concetto economico»: e difatti, proprio dal 1933, il presidente F. D. Roosevelt lancia «il nuovo corso», il New Deal, ampio piano di dirigismo statale, ricco di elementi copiati dal fascismo.

Dell’esperimento sovietico, Keynes denuncia i tre mali da cui un progetto autarchico deve guardarsi: «la stupidità del dottrinario», la «precipitazione» nella transizione economica, e «lintolleranza e repressione di ogni critica illuminata». Invece, Mussolini «sembra aver raggiunto letà della ragione»; quanto alla Germania, è appena «entrata nelle mani di irresponsabili scatenati, ed è troppo presto giudicare della sua politica economica» (vedrà, Keynes, negli anni seguenti, il solo miracolo economico del mondo occidentale nel tragico decennio della grande depressione...).

In ogni caso, insiste, abbandonare tutto all’iniziativa privata «è incompatibile con il livello di benessere materiale che lavanzamento tecnologico ci consentirebbe». Soprattutto, «i tassi dinteresse devono calare a un livello nettamente inferiore da quello che è fissato dal gioco naturale delle forze operanti secondo le antiche regole», o come si dice oggi, secondo «il mercato».

In piena depressione, «i tassi dinteresse dovrebbero calare fino a sparire per i prossimi trentanni. Ma ciò è impossibile in un sistema dove i tassi (...) hanno tendenza a uniformarsi a un livello mondiale per effetto del gioco normale delle forze della finanza (...). Linternazionalismo economico con quel che comporta di libero movimento dei capitali e di libero scambio delle merci, può condannare il mio Paese, per una generazione, ad un livello di prosperità materiale inferiore a quella che potrebbe conseguire in un altro sistema. Penso che una deliberata transizione verso una maggiore autosufficienza nazionale e un più grande isolamento economico ci faciliterebbe il compito, senza un costo eccessivo».

I guasti della corsa al profitto a tutti i costi

«Il XIX° secolo ha assegnato un posto eccessivo a quelli che si possono chiamare risultati finanziari”, li ha promossi a criterio unico di valutazione di ogni azione, sia pubblica o privata. Vivere era diventato una sorta di parodia di un incubo di contabile. Invece di usare le risorse materiali e tecniche sempre crescenti, per costruire una città splendida, gli uomini costruivano dei quartieri-dormitorio... perchè secondo i criteri dellimpresa privata, i quartieri-dormitorio sono redditizi”, mentre una città splendida sarebbe stata una folle prodigalità e, nel linguaggio stupido dei finanzieri, avrebbe ipotecato l’avvenire – anche se non si capisce come la costruzione oggi di grandi e magnifici edifici impoverirebbe lavvenire»...

C’è qui un confronto implicito e involontario con i «magnifici edifici» che il fascismo stava innalzando a Roma e in tante città? Chissà. Il fatto è che Keynes prosegue con una critica ustionante dell’ideologia totalitaria del profitto:

«La regola del calcolo finanziario, autodistruttrice, regge ogni momento della vita. Distruggiamo la bellezza della campagna perchè gli splendori della natura, non appartenendo a nessuno, non hanno alcun valore economico. Saremmo capaci di spegnere il Sole e le stelle perchè non rendono dividendi. Londra è una delle città più ricche della storia della civiltà, ma non può permettersi le realizzazioni più ambiziose di cui sono capaci i suoi abitanti, perchè non rendono”».

«Se io fossi al potere, con determinazione doterei le grandi città di tutte le attrezzature artistiche e culturali capaci di rispondere alle attese più ambiziose dei cittadini. Sono convinto (...) che il denaro speso in tal modo non solo sarebbe più utile di tutti i sussidi di disoccupazione, ma renderebbe inutili questi sussidi. Con quello che abbiamo speso per i disoccupati (pagandoli per fare niente) in Inghilterra dal dopoguerra, avremmo potuto fare delle nostre città le più magnifiche realizzazioni umane del mondo».

Invece, «abbiamo cosiderato che dovevamo assolutamente rovinare i contadini e distruggere uneconomia fondata su tradizioni antichissime, per guadagnare qualche centesimo su una michetta di pane. Niente doveva sfuggire allaltare di Moloch e Mammona uniti, tutto dovevamo sacrificare a questi mostri, il cui culto ci permetterebbe di vincere la povertà». Al contrario, tutto s’è ridotto «in pura perdita... perchè sono stati sacrificati valori diversi da quelli economici», più essenziali di questi per la vita umana.

Che gli individui pensino e agiscano secondo il profitto, da liberisti, va bene. Ma «è lo Stato più che lindividuo a dover cambiare i suoi criteri», conclude Keynes. E, quasi avesse conosciuto di persona Mario Monti, scrive:

«La cosa che dobbiamo cancellare, è la concezione di un ministro delle Finanze che si consideri come il presidente di una sorta di società per azioni (...). Le funzioni e gli obbiettivi dello Stato vanno estese, la scelta di quel che va prodotto allinterno della nazione e di ciò che deve fare oggetto di scambi con lestero dovrà figurare ai primi posti tra le priorità politiche».

Un tale statista, se esistesse nell’Italia della depressione globale e incatenata all’euro tedesco, vedrebbe due cose: che l’importazione di petrolio e gas pesa come passivo della nostra bilancia dei pagamenti per oltre 60 miliardi l’anno; e l’importazione di alimentari è un passivo di 6 miliardi annui. Sull’import energetico non possiamo (nè vogliamo) agire; ma la nostra agricoltura nazionale sarebbe benissimo in grado di ridurre quell’altro passivo di 6 miliardi annui. Se, s’intende, non fosse lasciata alla «competizione globale» delle Sei Sorelle del Grano, le cui gigantesche navi approdano da noi proprio quando i nostri coltivatori stanno raccogliendo i loro grani: un evidente dumping, inteso a distruggere la nostra produzione nazionale e i nostri coltivatori, per renderci dipendenti per sempre dalle Sorelle. Questa concorrenza sleale potrebbe essere stroncata facilmente sequestrando le navi di Cargill, Louis-Dreyfus, di Continental Grains e di Archer Daniel Midland (1), e imponendo multe milionarie, in base ai regolamenti igienico-sanitari: le granaglie di cui sono piene, provenienti da Australia o Ucraina, e spesso tenute per mesi nelle stive, sono spessissimo infette da muffe e funghi tossici, e tutte sono OGM. Basterebbero regolari ispezioni dei NAS. Ma ci vorrebbe un ministro delle Finanze che non si sentisse impegnato a salvare, più che l’Italia, la dottrina liberista globale.





1) Sono i nomi delle principali imprese trans-nazionali che si accaparrano il commercio mondiale dei grani; un giro d’affari colossale e inaccertabile, perché questi colossi hanno l’accortezza di non quotarsi in Borsa: sono aziende familiari, non scalabìli da azionisti estranei, e non pubblicano bilanci. Lungi dal competere fra loro sul libero mercato, queste imprese fanno cartello, ossia impongono i prezzi che hanno concorato tra loro, di fatto esercitando un monopolio strategico. Di questo Cartello del Grano ho parlato nel mio «Tutti i Complotti», EFFEDIEFFE, edizione 2010, pagina 195.



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