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Province salve e Italia paralizzata
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Ne siamo certi: la Corte costituzionale avrà avuto le sue buone ragioni. Non per nulla molti davano per scontata la bocciatura sia della riforma delle Province contenuta nel decreto salva Italia, sia del successivo più morbido tentativo di riordino con l'accorpamento di alcuni enti. La Consulta ha ritenuto illegittimo il ricorso al decreto legge per interventi di tale portata, visto che quello strumento dovrebbe essere limitato ai casi di straordinaria necessità e urgenza.

Per avere una più completa conoscenza delle motivazioni bisognerà aspettare il deposito della sentenza. Certo, una riforma come l'abolizione delle Province, che doveva essere fatta più di 40 anni fa contestualmente alla nascita delle Regioni, non poteva essere ritenuta tanto impellente da giustificare un decreto. Anche se forse sarebbe il caso di ricordare il contesto in cui il decreto salva Italia vide la luce. C'era appunto, da salvare il Paese che in quel momento si trovava in una situazione così difficile da dover affidare il proprio destino a un governo tecnico, con la necessità di prendere nel giro di poche ore provvedimenti in grado di placare i mercati resi pazzi dalle furiose spallate della speculazione internazionale. Di più. Rimettere in carreggiata l'Italia era un passaggio cruciale per la sopravvivenza stessa della moneta unica, tanto erano drammatici i toni della lettera che il 5 agosto del 2011 arrivò all'Italia dalla Banca centrale europea.

Con suggerimenti di misure durissime da adottare immediatamente, e fra queste si citava proprio l'abolizione delle Province, sempre promessa da tutti i partiti ma mai realizzata. Alla luce dei fatti, quella riforma poteva essere o meno considerata urgente? Al di là del merito, comunque, la sentenza della Corte costituzionale conferma se ce ne fosse stato ancora il bisogno che l'Italia è un Paese in preda a una totale paralisi. Non c'è decisione che non corra il rischio di finire sotto la tagliola della Consulta, del Tar o del Consiglio di Stato. Può capitare indifferentemente alla riforma delle Province, come alla vendita di un immobile dell'Inps, o alla costruzione di un elettrodotto, oppure alla delibera di un'authority, quando non al licenziamento di un dipendente pubblico corrotto.

È successo perfino al taglio del 10 per cento degli stipendi dei magistrati, cassato dalla suprema Corte perché ledeva l'indipendenza dei giudici, Colpa di una legge scritta male, di una sciatteria burocratica, di un errore formale. Talvolta addirittura di una fantasiosa interpretazione delle norme. Una giustificazione c'è sempre. Fatto sta che non abbiamo più alcuna certezza: inutile lamentarsi del tempo biblico per fare un'opera pubblica, degli anni che necessari a risolvere un contenzioso, degli investimenti esteri sempre più impalpabili. Così non si va da nessuna parte. Ed è bene esserne tutti coscienti, giudici compresi.

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