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L’attualità di Torquemada
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Contro gli opposti errori per eccesso e per difetto del Conciliarismo e del Servilismo

Torquemada confuta, nel XV secolo, i tre errori ecclesiologici che si ripresentano ai tempi nostri

Il cardinal Juan de Torquemada (1388-1468) ci ha lasciato uno dei primi manuali sistematici di ecclesiologia (Summa de Ecclesia, Roma, 1489, II ed. Venezia, 1561[1]). Già il titolo (prima di lui vi erano solo le Summae theologiae) ci fa capire che egli si è specializzato nel problema della Chiesa e specialmente del Primato del Papa e della sua Infallibilità contro gli errori del suo tempo: il Conciliarismo e il Gallicanesimo, i quali conferivano alla sola Chiesa senza il Papa, ossia all’Episcopato (riunito nel Concilio imperfetto ossia acefalo oppure sparso nelle varie diocesi del mondo intero), un primato di potere sul Pontefice romano.

L’errore per difetto (poiché diminuisce il Primato petrino) di allora è tornato alla ribalta oggi, anche se in maniera più sfumata, 1°) con la Collegialità episcopale del Concilio Vaticano II (Lumen gentium, n. 22, 21 novembre 1964)[2], che limita il Primato monarchico del Papa sull’Episcopato subordinato dei Vescovi sia riuniti in Concilio sia sparsi nel mondo; 2°) con il disastroso Pontificato di Francesco I che ha riportato alla ribalta pure la dottrina radicale, figlia del Conciliarismo mitigato, secondo cui in caso di eresia formale, pubblica e ostinata del Papa il Concilio, l’Episcopato o il Cardinalato possono deporre il Papa o constatare la sua deposizione da parte di Cristo. Come si vede, dal Conciliarismo nascono due errori, sostanzialmente eguali, ma diversi solo accidentalmente, ossia nella maniera più o meno veloce e radicale, i quali non solo diminuiscono il Primato di Pietro, ma addirittura portano la Prima Sede al giudizio della Chiesa senza il Papa, benché questa sia come un corpo senza il capo, mentre la dottrina cattolica insegna che la Prima Sede non è giudicata da nessuno e giudica tutti gli altri.

Oggi vi è poi un altro errore (per eccesso di “obbedienza”) che porta all’appiattimento o al servilismo dei fedeli, dei Vescovi e dei Cardinali nei confronti di un Papa, che oltrepassa i suoi poteri, i quali son limitati dal diritto e dalla Rivelazione divini. Il Profeta li chiama “cani muti incapaci di abbaiare” (Is., LVI, 10). In questo caso è lecito ammonire il Papa dell’errore o dell’abuso di potere che sta compiendo (come fece San Paolo con San Pietro ad Antiochia, Gal., II, 11-14; At., XV, 13-21[3]) e guardare in faccia la triste realtà senza nascondere la testa nella sabbia come fa lo struzzo.

Il Torquemada insegna che le azioni del Papa sono riservate al giudizio autoritativo e giurisdizionale di Dio (Summa de Ecclesia, II, 94-96, f. 229v-232r) poiché il suo unico superiore è Cristo. Gli uomini possono emettere un giudizio privato o “dottorale” che non ha nessun valore giuridico (Summa de Ecclesia, II, 97-103, f. 232-244).

Il Papa è il Vicario di Cristo e non può mutare l’autorità che Gesù gli ha data come se il Papa fosse il Capo di Cristo (Summa de Eccl., III, 50; II, 104, f. 244-245r; San Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 64, a. 5, ad 2um; q. 67, a. 1, ad 2um; In IV Sent., dist. 2, qq. 1-4, qcl. 4c; dist. 4, q. 3, a. 3, qcl. 4c; dist. 5, q. 1, qcl. 1c; dist. 7, q. 3, qcl. 1). Il Pontefice Romano non può pubblicare nuovi articoli di fede, abrogare quelli esistenti, istituire nuovi sacramenti, perché tutto ciò rientra nella potestas excellentiae dovuta solo a Cristo in quanto Dio, mentre il Papa è il Suo Vicario e non può, perciò, contraddire le leggi di Cristo: “Il Sommo Pontefice non può far leggi, canoni, o stabilire alcunché contro la divina Scrittura, la dottrina del Vangelo” (Pacifico Massi, Il Magistero infallibile del Papa nella teologia di Giovanni da Torquemada, Torino, Marietti, 1957, p. 55).

Il Papa è soggetto di un potere ministeriale, ossia agisce come ministro e Vicario di Cristo, non è la regola ultima e assoluta della fede, dei costumi e del diritto, ma è subordinato alla Legge e alla Rivelazione divina come pure al magistero infallibile o costante (Pio IX, Tuas libenter, 1863) della Chiesa (Summa de Ecclesia, III, 51, f. 337; 57, f. 343)

Tuttavia il Torquemada ricorda che il Papa come persona privata è soggetto alla correzione fraterna, ma, se la respinge, non può essere punito o deposto, essendo il Capo della Chiesa e il Vicario di Cristo; potrebbe essere punito solo dal supremo Tribunale divino, al quale un giorno dovrà, comunque, reddere rationem (Summa de Eccl., II, 98, f. 234v-235r).

Monarchia ecclesiastica

Il Nostro Autore insegna che vi è “un solo Corpo di Cristo” (Summa de Ecclesia, cit., lib. II, 43-68)[4]. La Chiesa di Cristo, quindi, è come una sola persona morale perché tutti i suoi membri partecipano della natura umana di Cristo, che è il suo Capo invisibile asceso al Cielo, mentre i suoi membri vivi partecipano anche della natura divina di Cristo, avendo in sé la grazia santificante, che è la “partecipazione della natura divina di Cristo” (II Petri, I, 14[5]). Già qui si vede il taglio netto e preciso dell’ecclesiologia del Torquemada, che insegna la verità del Primato monarchico papale[6] sulla Chiesa universale e sull’Episcopato subordinato, contro l’errore per difetto del Conciliarismo, che vorrebbe un Episcopato “insubordinato” superiore al Papa, e contro l’errore per eccesso, che propugna un Episcopato “appiattito” e servile anche nei confronti di eventuali errori del Papa come persona privata[7].

La teologia ecclesiologica del Torquemada è molto ben strutturata. Essa parte dal principio che il Papa è il Vicario di Cristo e come tale è l’unico Capo visibile della Chiesa, avente la pienezza del potere di giurisdizione, dal quale segue necessariamente il potere di magistero[8], che a certe condizioni può godere dell’assistenza infallibile di Dio, il quale lo premunisce dall’errore. Come si vede la sua Summa de Ecclesia può essere compendiata in un sillogismo, che l’Autore prova nella sua premessa Maggiore e Minore per giungere alla Conclusione, ampiamente documentata e dimostrata. Il potere e l’acume teologico del Torquemada si notano nella sua capacità di analisi approfondita dei problemi ecclesiologici più ardui e nell’abilità di sintesi, che lo porta a riassumere tutta la sua vasta produzione teologica in pochi princìpi universali, dai quali seguendo una traccia sillogistica fa dipendere tutto il suo lavoro teologico. Analisi profonda e sintesi logica sono le proprietà dei grandi teologi.

Papa “Vicarius Christi”

Il Pontefice Romano in quanto successore di Pietro, cui Cristo ha dato il Primato su tutti gli Apostoli[9], è anch’egli il Vicario di Gesù[10].

Ne segue che, se il Papa è il “Vicario principale”, universale (per tutta la Chiesa), supremo, unico di Cristo, i Vescovi sono “Vicari particolari” (nelle loro diocesi) e sono nominati e scelti dal Papa (cfr. S. Tommaso d’Aquino, Contra errores Graecorum, XV, 256). I Vescovi sono anche i successori e i Vicari degli Apostoli, subordinati a Pietro e al Papa (J. de Torquemada, Summa de Ecclesia, II, 37). Ciò significa che il Papa riceve il Primato e la pienezza del potere immediatamente da Cristo (Summa de Eccl., II, 38) e non dai Cardinali, dal Concilio o dalla Chiesa (S. de Eccl., II, 40-44). Quindi il rapporto che intercorre tra il Papa e i Vescovi è lo stesso che intercorre tra Cristo vivente e gli Apostoli, perché il Papa “tiene il luogo” di Cristo, ossia ne è il Vicario principale, e i Vescovi quello degli Apostoli. Quindi il Papa rappresenta “Cristo in terra” e ne fa le veci e “la Chiesa di Cristo deve essere governata da Gesù mediante il suo Vicario principale” (S. de Eccl., II, 38, p. 152).

Il Papa forma con Cristo l’unico Capo della Chiesa. Qui occorre ben distinguere e non cadere nell’equivoco di ritenere che vi sia un governo simultaneo di due Capi (Cristo/Papa[11]) nella Chiesa. Torquemada riprende l’insegnamento di S. Tommaso d’Aquino (S. Th., III, q. 8, a. 6; Summa contra Gentiles, lib. IV, cap. 76) che parla di un duplice influsso sulle membra della Chiesa: a) uno interno mediante la grazia santificante e in questo modo Cristo è il Capo e la Causa dell’unità della Chiesa; b) l’altro esterno, attraverso il governo visibile dell’Autorità pubblica, che è il Papa, Vicario di Cristo e successore di Pietro. Ora in quest’ultimo caso “non vi sono due Capi: Cristo e il Vicario di Cristo, ossia il successore di Pietro”.

Seguendo l’Aquinate (Quodl., l. IX, q. 7, a. 16; S. Th., II-II, q. 1, a. 10 sed contra; ivi, q. 11, a. 2, ad 3um) il Nostro Autore (Summa de Eccl., II, 112, f. 258r) ammette un solo soggetto del Potere sommo e dell’Infallibilità e non due soggetti distinti: il Papa e la Chiesa universale sine Papa o i Concili imperfetti. Infatti la Chiesa senza il Papa che è il suo Capo, ossia considerata come “congregatio distincta aut separata a Papa[12], non gode dell’Infallibilità.

In conclusione il titolo papale significa che il Sommo Pontefice riceve la pienezza di Cristo per quanto è possibile alla natura umana (S. de Eccl., II, 53, p. 169 ad 2um). Inoltre il Papa forma con Cristo un solo Capo (visibile e invisibile) della Chiesa universale: infatti Cristo la santifica con la grazia soprannaturale, che è invisibile all’occhio umano, e il Pontefice la governa visibilmente con il triplice potere (legislativo, giudiziario ed esecutivo). La pienezza del potere di giurisdizione appartiene al Papa in quanto sommo e principale Vicario visibile di Cristo e a lui solo perché è l’unico Suo Vicario principale e universale (S. de Eccl., II, 53, p. 169, ad 2um).

Oggi i teologi della neoscolastica (Billot, Palmieri, Straub, Du Blanchy, con la sola eccezione del Pesch) seguono comunemente la tesi del Torquemada, ossia che l’Infallibilità, quando è esercitata dal Papa coi Vescovi riuniti in Concilio o dispersi nelle loro diocesi, risiede principalmente e primieramente nel Papa, mentre è nei Vescovi solo per partecipazione e in modo dipendente.

Il Concilio convocato dal Papa non ha un potere distinto da quello del Pontefice Romano, ma «habet potestatem una cum Papa” / ha potere “assieme al Papa[13] e non distinto da lui, in quanto il Papa comunica e partecipa al Concilio la sua potestà, come il vigore del corpo umano gli deriva dalla sua testa, tagliata la quale, il corpo intero muore» (S. de Eccl., III, 35, f. 315r).

I Vescovi nei Concili ecumenici non sono “con-giudici” alla pari o in maniera adeguata col Papa, ma il Papa definisce e i Vescovi, come cause seconde e in maniera inadeguata concorrono all’effetto non alla pari con la causa prima. I Vescovi sono veri giudici, però esercitano la loro funzione sotto e subordinatamente all’influsso e al potere del Capo supremo della Chiesa: cum Petro et sub Petro.

La conseguenza di ciò è che solo Cristo può giudicare autoritativamente, ossia giuridicamente, il Suo Vicario, tutti gli altri possono portare sul Papa solo un giudizio “dottorale”, privato o speculativo, che pre-richiede il “dottorato”, ossia la scienza teologica, ma non possono giudicarlo con giurisdizione auctoritative: Prima Sede valet de omnibus judicare et a nemine judicatur (S. de Eccl., II, q. 93, p. 227). Infatti se la Prima Sede è Suprema è impossibile che in terra vi sia un tribunale superiore ad essa, altrimenti non sarebbe “Prima”, ma seconda[14].

La Collegialità episcopale confutata dal Torquemada

Secondo il Torquemada il Papa è l’Episcopus omnium Episcoporum. In breve, come si è insegnato comunemente sino alla vigilia del Concilio Vaticano II (1962-1965), “Il potere gerarchico della Chiesa è un potere monarchico, in opposizione ad un potere collegiale o oligarchico/aristocratico; il potere ecclesiastico non è affidato ad una autorità collegiale, ma viene esercitato da un unico titolare del potere” (A. Lang, Compendio di Apologetica, Torino, Marietti, 1960, pp. 260-261).

L’autorità del Concilio deriva e dipende dal Sommo Pontefice, perché solo a Pietro e ai suoi successori Cristo ha dato la pienezza del potere di giurisdizione e di magistero. I Vescovi ricevono quest’autorità dal Papa in maniera subordinata a lui. Quindi anche il Concilio riceve l’autorità di giurisdizione e di magistero dal Papa. Né vale la distinzione tra Sede e sedente poiché colui che insegna e governa non è la “sedia” o il trono, ma colui che vi sta assiso. La Chiesa universale è infallibile non come comunità distinta dal Papa, ma come corpo del quale il Pontefice Romano è il Capo, da cui il corpo riceve l’influsso vitale. Perciò il supremo potere di magistero nei Concili ecumenici spetta solo al Papa, che lo partecipa al Corpo dei Vescovi, il quale è subordinato e sottomesso al Papa (S. de Eccl., III, f. 289v). Come si vede la dottrina cattolica tradizionale riaffermata dal Torquemada nel XV secolo, che è l’era del Conciliarismo, è in rottura e non in continuità con la dottrina pastorale del Concilio Vaticano II riguardo alla Collegialità episcopale (Lumen gentium, 22).

Riprendendo San Tommaso d’Aquino (De Pot., X, 4, ad 13; S. Th., I, q. 35, a. 2, ad 2um; ivi, q. 1, a. 10; II-II, q. 2, a. 2, ad 3um) il Torquemada (Summa de Eccl., III, 32, f. 309r ss.) insegna che il Papa e la Santa Sede danno al Concilio “robur et firmitatem definiendi. Ergo quidquid in Conciliis universalibus statuitur et definitur, auctoritate Summi Pontificis principaliter fit ” (S. de Eccl., III, 32, f. 309). In breve, per fare un esempio, il Papa di fronte al Concilio è come la volontà che muove tutte le altre facoltà (S. de Eccl., III, 32, f. 311r).

Quanto alla Collegialità episcopale insegnata pastoralmente dal Vaticano II (Lumen gentium, 22) si potrebbe obiettare: il Papa ha stabilito questa dottrina e quindi così bisogna credere. Si risponde: in primis Paolo VI non ha voluto definire né obbligare, avendo scelto una forma di magistero puramente pastorale e non dogmatica[15]; in secundis per divina Istituzione i Vescovi ricevono la giurisdizione dal Papa, che solo ha la pienezza del potere e il Primato di giurisdizione. Ora il Papa non può sorpassare i limiti che gli vengono dal diritto e dalla Rivelazione divini e quindi, siccome la Chiesa per volontà di Dio ha una costituzione monarchica, in cui vi è un solo Capo supremo, la sua divina costituzione sarebbe sovvertita se il Pontefice Romano volesse o potesse, per assurdo, comunicare ad altri (il Corpo episcopale come ceto stabile, v. Lumen gentium, 22 e la Nota explicativa praevia) la pienezza del suo potere, perché si avrebbero due capi nella Chiesa, ossia una specie di mostro, cioè un corpo con due teste come Giano bifronte. Ma ciò non è consentito al Papa perché esula dai suoi poteri in quanto contraddice la divina volontà di Cristo nel fondare la Sua Chiesa sopra un solo Capo (Pietro/Papa) e sugli Apostoli e i Vescovi subordinati a lui.

In termini filosofici tomistici, che il Torquemada conosceva molto bene[16], si può dire che i Vescovi stanno al Papa come le cause seconde alla Causa prima, la quale conferisce loro la capacità di agire. Il Nostro (S. de Eccl., II, c. 18) fa anche degli esempi che ci aiutano a capire meglio tali rapporti: il sole (il Papa) illumina le stelle (i Vescovi), la radice (il Papa) dà la linfa vitale agli alberi (i Vescovi). Infine come nel corpo umano le mani, i piedi, gli occhi… non riescono a raggiungere la capacità e la forza della testa, così nel “Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa” (S. Paolo, Ef., I, 23) tutte le membra (fedeli, chierici e Vescovi) messe assieme non eguagliano il potere del Capo visibile di essa, che è il Papa (S. de Eccl., II, 22, p. 135).

In breve tutto quello che i Vescovi e la Chiesa (considerati senza Papa, ossia senza Capo) hanno per partecipazione, quanto al potere di giurisdizione e di magistero, si trova per sé, in misura maggiore e come nella sua fonte originale, nel Papa, il quale lo ha ricevuto direttamente da Dio e lo partecipa ai Vescovi (J. de Torquemada, Apologia Eugenii IV sive de Summi Pontificis et generalis Concilii potestate, Firenze – Venezia, 1759 ss., Mansi, 31B, 1998; De Summi Pontificis auctoritate flores Sententiarum Divi Thomae, Firenze, 1715, p. 44 ).

I rapporti di Pietro con gli Apostoli prima e dopo la Risurrezione di Cristo

Prima delle Resurrezione, quando Pietro aveva avuto solo la promessa del Primato (Mt., X, 15[17]), ma non aveva ancora ricevuto il potere di esercitarlo, gli Apostoli ricevettero da Gesù immediatamente il potere di predicare (Mc., XVI, 15: “Euntes in universum mundum”), ma dopo la Resurrezione, quando Cristo sul lago di Genezaret conferì realmente in atto il Primato, che aveva soltanto promesso a Pietro a Cesarea di Filippo, la missione di predicare e di evangelizzare il mondo data agli Apostoli va intesa “in ordine ad Petrum quem Christus Vicarium dimittebat in terram” (cfr. J. de Torquemada, S. de Eccl., II, 54, f. 169v-171r; II, 61; III, 28-31).

Quindi dopo la Resurrezione, ossia alla fine dell’opera della Redenzione, gli Apostoli non ricevettero il potere di giurisdizione immediatamente da Cristo, ma da Lui mediante Pietro. Infatti Cristo non dette agli Apostoli direttamente e per sé l’autorità e il potere di giurisdizione, ma mediante Pietro, al quale consegnò tutto il gregge delle pecorelle e degli agnelli.

Perciò gli Apostoli anche per predicare erano soggetti all’autorità di Pietro, che inaugurò per primo il ministero della predicazione il dì di Pentecoste (At., II, 14 ss.).

Quindi gli Apostoli, quando dopo la Pentecoste si divisero per evangelizzare l’universo mondo, ricevettero non solo il potere di predicare da Pietro “quem sciebant loco Christi esse Caput et Praelatum eorum” (S. de Eccl., II, 61, f. 178v-179r), ma anche l’assegnazione delle province o diocesi in cui predicare. All’obiezione che San Paolo afferma di aver ricevuto il potere di predicare direttamente da Cristo (I Cor., II, 23; Gal., I, 12), il Torquemada risponde che l’Apostolo delle Genti volle autenticare la missione ricevuta da Cristo mediante la conferma e la piena approvazione di Pietro, Princeps Apostolorum.

Una delle prerogative che ebbero gli Apostoli, ma non trasmissibili ai Vescovi loro successori, è proprio la missione universale e immediata di evangelizzare, che però dovevano sottomettere a Pietro per averne la convalida (S. de Eccl., II, 61, f. 180v ad 4um; II, 112, f. 258v).

I rapporti del Papa coi Vescovi

I Vescovi ricevono il potere di giurisdizione immediatamente dal Papa (v. San Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, lib. IV, cap. 76). Il Torquemada commenta la tesi dell’Angelico e spiega che, se gli Apostoli ricevettero dopo la Risurrezione la giurisdizione mediante Pietro o tramite la sua conferma anche i Vescovi, che sono i loro successori, la ricevono tramite il Papa (S. de Eccl., II, 54-56, ff. 169v-174v[18]).

Certamente la giurisdizione dei Vescovi è di diritto divino, ed essi sono i successori degli Apostoli per diritto divino, ma tramite la mediazione del Papa quale successore di Pietro, cui Cristo stesso, ascendendo in Cielo e togliendo alla Chiesa la Sua presenza visibile e corporale, aveva affidato il pieno governo della Chiesa, avendolo nominato Suo Vicario visibile, supremo, principale e universale, il quale deve provvedere a conferire gli uffici ai suoi subordinati, come farebbe il primo ministro del re se questi si allontanasse dal suo regno per lungo tempo (S. de Eccl., II, 61, f. 179r).

Ne segue che il Papa ha un potere immediato di giurisdizione su tutta la Chiesa direttamente da Cristo, mentre i Vescovi lo hanno solo sulla loro singola diocesi mediante il Papa (S. de Eccl., II, 65, f. 188r).

Tuttavia ciò non pregiudica il potere dei Vescovi, che è di diritto divino, conferito loro mediante Pietro, perché essi sono necessari per volontà di Cristo al governo dalla Chiesa universale, attesa la moltitudine dei fedeli e l’estensione della Chiesa in tutto il mondo, alla quale il Papa da solo non potrebbe fisicamente badare (S. de Eccl., II, 68, f. 190v-191). Così la Chiesa con l’Episcopato monarchico del Papa e l’Episcopato subordinato dei Vescovi ha un ordinamento simile a quello dell’universo, dove accanto alla Causa prima (Dio/analogicamente il Papa) agiscono le cause seconde (creature/analogicamente i Vescovi), contribuendo all’ordine, all’armonia e alla bellezza del mondo (analogicamente della Chiesa). Quindi l’Episcopato subordinato al Papa, mentre fa sussistere e manifesta la forza, l’ordine, l’armonia e la bellezza della Chiesa, al tempo stesso è nobilitato, protetto, unificato dal Papa (S. de Eccl., II, 62, ad 5um, ff. 181v-182r). Quindi il Papa è superiore alla Chiesa universale come la testa lo è al corpo, ma anche il Capo ha bisogno del Corpo dei Vescovi[19] (S. de Eccl., II, 69, f. 191v-192; II, 70-80, ff. 192v-213r).

Di qui si vede la necessità dell’Episcopato anche perché voluto jure divino, mentre il Cardinalato è solo de jure humano/ecclesiastico. In questo il Torquemada pur avendo mirabilmente esposto la prima parte della tesi, tende a sopravvalutare il potere del Cardinalato e a dargli una importanza ontologica e non solo onorifica che non gli spetta. Secondo il Nostro i Cardinali sarebbero i successori degli Apostoli come i Vescovi.

Certamente il Torquemada non sminuisce l’Autorità e il Primato del Papa a favore del “Cardinalismo”, tuttavia ritiene che, ove il Papa debba deliberare in materia grave, gli occorra la consultazione dei Cardinali: “maturitate consilii, quod in hujusmodi arduis materiis, quae fidem tangunt, cum dominis Cardinalibus, Romanus Pontifex semper habet” (S. de Eccl., II, 112, ad 6am obiectionem, f. 260r). La sua posizione non è quella del “Cardinalismo” stretto, il quale ritiene che senza l’aiuto dei Cardinali il Papa non possa esercitare il suo Primato di governo e di magistero, ma ritiene che i Cardinali sono i successori degli Apostoli, il che non è vero, ed inoltre sembra propendere a ritenere in pratica e non de jure necessaria la consultazione dei Cardinali da parte del Papa (S. de Eccl., II, 46, f. 333), mentre ritiene che l’Episcopato anche riunito in Concilio cum Petro et sub Petro sia inferiore non solo quanto al titolo onorifico, ma ontologicamente al Cardinalato. L’Aquinate invece ha insegnato la sana dottrina anti-conciliarista secondo cui il Papa non è obbligato a convocare il Concilio ecumenico per esercitare il suo Primato (De Potentia, q. 10, a. 4, ad 13), ma non ha mai detto che de facto anche se non de jure il Papa sia obbligato a sentire il consiglio dei Cardinali (J. de Torquemada, S. de Eccl., III, 64, f. 353).

Secondo il Torquemada il Collegio cardinalizio è il successore del Collegio degli Apostoli e quindi si riallaccia direttamente a Cristo (S. de Eccl., II, 16-18; I, 80-84) e partecipa alla responsabilità del Papa nel governo della Chiesa, essendo il Senato della Chiesa e “pars corporis Papae”.

Giovanni de Torquemada[20], facendo una triplice distinzione dello stato degli Apostoli: quando a) assistevano Cristo durante la sua vita; b) assistevano Pietro prima della loro dispersione nel mondo; c) predicavano il Vangelo ad ogni Nazione durante la loro dispersione nel mondo intero; ne tirava le seguenti conclusioni: il Collegio cardinalizio succede al Collegio degli Apostoli considerato nei primi due momenti, mentre i Vescovi succedono agli Apostoli in opus ministerii solo nel terzo momento. Quindi i Cardinali sono superiori ai Vescovi e sono veri successori degli Apostoli più di questi ultimi poiché gli Apostoli furono chiamati prima al Cardinalato e poi all’Episcopato nell’attività pastorale.

Questa opinione non ha nessun fondamento nella S. Scrittura e nei Sacri Canoni. Infatti gli Apostoli furono eletti non ad assistere Cristo e Pietro, ma a predicare il Vangelo. Il periodo in cui il Collegio apostolico visse accanto a Gesù non può essere scambiato con il Collegio cardinalizio, come volevano nel XV secolo alcuni Cardinali, ma è solo la prima fase della chiamata dei Dodici Apostoli all’Episcopato[21] (e di Pietro al Sommo Episcopato), che comporta uno stato di perfezione religiosa (“Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus Te”) unitamente ad uno stato di Pastori di anime (“Faciam vos fieri piscatores hominum”). Tutte queste funzioni si riferiscono solo all’Episcopato[22] e non al Cardinalato.

Si legga a questo proposito Rodolfo Dell’Osta, Un teologo del potere papale e i suoi rapporti col cardinalato nel secolo XV. Teodoro De’ Lelli Vescovo di Feltre e Treviso (1427-1466), Belluno, Tipografia Silvio Benetta, 1948. Il cardinal Pietro Parente e Monsignor Antonio Piolanti (in Dizionario di Teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed. 1957, p. 84, voce Conciliarismo) hanno definito il De’ Lelli “uno dei pochi difensori del Primato pontificio nel secolo XV” anche contro le pretese di una parte del Cardinalato, che riteneva di essere successore degli Apostoli.

Perciò il potere di magistero nel Papa è pieno, supremo e universale come lo è il suo potere di giurisdizione, mentre nei Vescovi il potere di giurisdizione e di magistero deriva da quello del Papa poiché solo il Papa possiede la pienezza del magistero e della giurisdizione, mentre nei Vescovi è derivato e limitato da quello del Papa. Inoltre i Vescovi ricevono l’Ordine sacro episcopale scelti dal Papa e con esso tutto quanto ne consegue e lo accompagna. Quindi anche il potere di pascere (governare) e predicare (insegnare) il popolo dei fedeli cristiani.

L’Infallibilità del Papa

Seguendo l’Aquinate (Quodlib., IX, q. 7, a. 16) il Nostro Autore (S. de Eccl., II, 112, f. 258v) fa derivare l’Infallibilità del Papa dalla promessa di Cristo dell’assistenza di Dio, basata sulla efficacia divina della sua preghiera. In virtù di questa preghiera e di questa assistenza il Papa non può esser considerato un uomo come tutti gli altri, perché è oggetto di una provvidenza e di un’assistenza divina del tutto speciale, in quanto Vicario di Cristo, che deve mantenere l’unità di fede e di comunione nella Chiesa colla pienezza del potere di governo e di magistero. Dio è la Causa prima ed efficiente principale di questa assistenza e il Papa è la causa seconda e strumentale (cfr. San Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 1, a. 9; Quodlib., IV, q. 7, a. 16). In breve l’assistenza di Dio preserva il Sommo Pontefice dall’errore nel suo insegnamento su materia di fede e di costumi, come Pastore supremo della Chiesa universale, quando definisce e obbliga a credere (S. de Eccl., III, 36, f. 316; cfr. Concilio Vaticano I, DB, 1839). Al verificarsi di questi requisiti di cui parla il Torquemada e poi definiti dal Vaticano I “Il Papa gode della stessa Infallibilità di cui Cristo volle dotata la sua Chiesa. Non per questo vi sono due Infallibilità. L’Infallibilità data da Cristo alla Sua Chiesa è una sola: quella conferita a Pietro e ai suoi successori. Tale prerogativa essendo stata largita per il bene della Chiesa si dice data alla Chiesa, ma è esercitata dal suo Capo. Come la vita dell’uomo è una sola, e, pur derivando dall’anima si diffonde per tutto il corpo, così l’Infallibilità è diffusa e circola in tutta la Chiesa, ma dipendentemente dal suo Capo” (A. Piolanti, in Dizionario di teologia dommatica, Roma, Studium, IV ed. 1957, p. 215, voce Infallibilità pontificia)[23].

Conclusione

Giustamente don Pacifico Massi (Il Magistero infallibile del Papa nella teologia di Giovanni da Torquemada, cit., p. 125) nota che “le dottrine contrarie al Primato pontificio sono state originate dall’istinto di conservazione, operante anche nel corpo della Chiesa come in ogni ente vivente, contro l’eventualità di un Papa indegno, che conducesse la Chiesa alla rovina. Anche Torquemada sentì questo istinto, ma seppe conservare un sano equilibrio che non gli consentì di recedere dai princìpi, e neppure gli permise di tacere di fronte ad eventuali errori passati o ipoteticamente futuri dei Papi in un’acquiescenza passiva e colpevole”.

Oggi si ripropongono queste varie soluzioni di fronte alla situazione disastrosa in cui versa l’ambiente ecclesiale specialmente durante il Pontificato di Francesco I. Infatti oggi 1°) c’è chi ripropone la teoria conciliarista e vorrebbe deporre il Papa in quanto eretico; 2°) chi asserisce che bisogna accettare i Decreti del Concilio Vaticano II obbligatoriamente anche se sono solamente pastorali, come pure l’insegnamento puramente “esortativo” di Francesco I (cfr. Esortazione Amoris laetitia, 19 marzo 2016); 3°) infine chi, come il Torquemada, afferma la vera dottrina cattolica evitando i due errori per eccesso (servilismo) e per difetto (Conciliarismo) come i due burroni, che circondano la vetta della montagna, sulla quale si trova la vera soluzione “in medio et in culmine altitudinis et non mediocritatis / nel giusto mezzo di altezza e non di mediocrità” (R. Garrigou-Lagrange).

d. Curzio Nitoglia



1] Nel presente articolo cito l’edizione di Venezia.

2] Eccone il testo: “L’ordine dei Vescovi, che succede al Collegio degli Apostoli nel magistero e nell’impero […] è pure soggetto di suprema (la più alta, ndr) e piena (totale o assoluta, cui non manca nulla e che può tutto da sola, ndr) potestà su tutta la Chiesa”. Si noti la novità del duplice soggetto del sommo potere di magistero e giurisdizione nella Chiesa: Papa ed Episcopato; mentre il soggetto è uno solo il Papa, che, se vuole fa partecipare l’Episcopato al suo supremo e pieno potere, in maniera temporanea e subordinata e non alla pari. Siccome il testo di Lumen gentium poneva dei seri problemi quanto alla sua ortodossia, Paolo VI fece aggiungere una Nota praevia, che tuttavia non cancella le ambiguità e gli errori del testo di Lumen gentium. La Nota praevia recita: “Il Collegio è un ceto stabile. […] Uno diventa membro del Collegio in virtù della consacrazione episcopale, e mediante la comunione gerarchica col Capo del Collegio. […]. Il Collegio dei Vescovi è anch’esso soggetto di supremo e pieno potere sulla Chiesa universale. Il Collegio necessariamente e sempre cointende col suo Capo”. Questa è la grande novità della Lumen gentium, che permane anche nella Nota praevia: il “Collegio dei Vescovi”, che necessariamente e sempre cointende col suo Capo”, è anch’esso “soggetto di supremo e pieno potere sulla Chiesa universale. Il Papa non è più l’unico soggetto per sua natura del supremo potere di magistero e d’imperio sulla Chiesa universale e solo se vuole può far partecipare, in maniera non adeguata o non alla pari, al suo potere l’Episcopato riunito in Concilio o sparso nel mondo, in maniera temporanea e per partecipazione o subordinatamente. La dottrina tradizionale era chiarissima, quella di Lumen gentium è per lo meno ambigua se non erronea gravemente in alcuni punti che permangono in rottura con l’insegnamento tradizionale, anche alla luce della Nota praevia. Come si vede la Collegialità è imparentata, anche se in maniera più sfumata o mitigata, col Conciliarismo, il quale tende ad assegnare al Concilio ecumenico una potestà suprema sulla Chiesa universale eguale a quella del Papa (cum Petro, sed non sub Petro).

3] Secondo il Torquemada Pietro ad Antiochia non definì alcuna dottrina intorno alle osservanze giudaiche, ma errò quanto al modo di agire, commettendo un peccato veniale di fragilità, essendo confermato in grazia. Inoltre le parole di San Paolo non indicano uno spirito di ribellione a Pietro, ma di correzione fraterna poiché “Petrus reprehensibilis erat” ed accettò la correzione fraterna di Paolo (Summa de Ecclesia, II, 98, f. 235). Cfr. San Tommaso d’Aquino, S. Th. I-II, q. 103, a. 4; Ad Galatas, cap. III, lect. 7-8.

4] Cfr. S. Frankl, Cardinalis de Turrecremata, doctrina de notis Ecclesiae, in “Collectanea Theologica”, n. 14, 1933, pp. 250-254.

5] Cfr. San Tommaso d’Aquino, In II Sent., dist. 26, q. 1, a. 3; S. Th., I-II, qq. 109-113; Concilio di Cartagine (a. 418), DB, 101 ss.; Concilio II di Orange (a. 529), DB, 174 ss.; Concilio di Trento, sess. VI, DB, 793-843; San Pio V, condanna di Bajo (a. 1567), DB, 1001 ss.; Innocenzo X, condanna di Giansenio (a. 1591), DB, 1902 ss.

6] Cfr. R. Bianchi, De constitutione monarchica Ecclesiae et de infallibilitate Romani Pontificis iuxta Divum Thomam Aquinatem ejusque scholam in Ordine Praedicatorum, Roma, 1870.

7] Per esempio, di fronte all’esternazioni “esortative” di papa Bergoglio è lecito e doveroso mostrare, educatamente e con cognizione di causa, il proprio dissenso quando esse vanno contro la Rivelazione e la Legge divina come nel caso dell’elogio della convivenza prima del matrimonio, della comunione eucaristica data ai peccatori che si ostinano nel peccato e dell’accettazione pratica del matrimonio tra omosessuali.

8] Secondo il Torquemada il potere di giurisdizione e di magistero non sono formalmente e realmente distinti, ma solo virtualmente, perché il magistero è contenuto formalmente nella giurisdizione, come la specie (umana/canina/equina…) nel suo genere (animale). Perciò il magistero specifica la giurisdizione, ossia, mentre quest’ultima dice per sé potere di governo, il magistero specifica che esso significa anche potere di insegnare, a certe condizioni anche infallibilmente. La tesi di Torquemada è seguita da Wernz-Vidal, Straub, Palmieri. Invece Franzelin, Billot ritengono che i due poteri siano realmente e formalmente distinti, sebbene connessi necessariamente nello stesso soggetto: il Papa. In breve per i primi il magistero è essenziale alla giurisdizione, come il razionale è essenziale all’uomo, che è appunto “animale razionale”; mentre per i secondi è una sua proprietà necessaria, come la risibilità o la capacità di capire sono proprietà necessarie dell’uomo. Mi sembra che la tesi del Torquemada sia più consona. Infatti se per un giudizio puramente dottrinale o scientifico basta la scienza personale, che non obbliga gli altri ad assentire, per un giudizio autoritativo, che tutti debbono accettare, oltre la scienza ci vuole la giurisdizione. Il teologo per quanto eminente possa essere ha solo il primo tipo di giudizio, mentre per avere il secondo occorrono il Papa e, se egli vuole, l’Episcopato subordinato a lui, riunito in Concilio ecumenico o sparso nel mondo e interpellato dal Sommo Pontefice ad esprimersi assieme a lui nel magistero ordinario universale: “Bisogna credere di fede divina e cattolica/definita tutte le verità che son contenute nella Parola di Dio scritta o tramandata e che son proposte dalla Chiesa da credersi [obbligatoriamente] come Rivelate divinamente, sia con un giudizio solenne [magistero straordinario, ndr] sia col magistero ordinario e universale / sive solemni judicio sive ordinario et universali magisterio” (Concilio Vaticano I, sess. III, cap. 3, DB, 1792). Quindi il magistero ordinario, se definisce e obbliga, basta a costituire una definizione dogmatica, ossia un dogma o una verità di fede Rivelata divinamente e definita dalla Chiesa col magistero ordinario senza dover ricorrere necessariamente al magistero straordinario, ossia ad una dichiarazione solenne del Papa da solo o nel Concilio ecumenico, in cui i Vescovi partecipano all’Infallibilità del Papa che li vuole associare a sé. Cfr. R. Garrigou-Lagrange, De Revelatione per Ecclesiam catholicam proposita, Roma, 1918.

9] Cfr. M. Maccarrone, Vicarius Christi, storia del titolo papale, Roma, Lateranum, 1952.

10] J. de Torquemada, Summa de Ecclesia, pars II, cap. 36.

11] Cristo è il Capo invisibile asceso in Cielo e vivifica l’anima della Chiesa con la grazia santificante e soprannaturale. Egli ha lasciato su questa terra alla Chiesa - che è una società soprannaturale, ma visibile - un Capo visibile, che è il Papa, il quale la governa visibilmente (col potere legislativo, giudiziario ed esecutivo) come si addice ad ogni società visibile.

12] Cfr. Apologia Eugenii IV sive de Summi Pontificis et generalis Concilii potestate ad Basileensium oratorem in Florentia responsio, Firenze-Venezia, 1759 ss., Mansi, 31B, 1979.

13]Assieme con” è il vero ed esatto significato di “una cum” Pontifice nostro.

14] Questa tesi è stata definita dal Concilio Vaticano I (DB, 1832) e dopo è stata illustrata dai grandi teologi della neoscolastica.

15] Cfr. cardinal J. Ratzinger, Discorso alla Conferenza Episcopale Cilena, Santiago del Cile, 13 luglio 1988, in “Il Sabato”, n.° 31, 30 luglio-5 agosto 1988: «Il Concilio Vaticano II si è imposto di non definire nessun dogma, ma ha scelto deliberatamente di restare ad un livello modesto, come semplice Concilio puramente pastorale».

16] Cfr. R. Bianchi, De constitutione monarchica Ecclesiae et de infallibilitate Romani Pontificis iuxta Divum Thomam Aquinatem ejusque scholam in Ordine Praedicatorum, Roma, 1870.

17] Il Torquemada (S. de Eccl., II, 61; III, 28-31) commenta anche Mt., XVII, 18; Gv., XX, 21; Lc., VI, 13.

18] Cfr. San Tommaso d’Aquino, I Sent., dist. 12, a. 3, ad 4um. La dottrina secondo cui i Vescovi ricevono la giurisdizione da Dio mediante il Papa è stata insegnata formalmente dal Magistero pontificio (cfr. Pio XII, Enciclica Mystici Corporis, 1943; Ad Synarum gentes, 1954; Ad Apostololum Principis Sepulchrum, 1958).

19] Cfr. L’Apologo di Menenio Agrippa: “Una volta le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso, ruppero gli accordi con lui e cospirarono dicendo che le mani non avrebbero portato cibo alla bocca, né che la bocca lo accettasse, né che i denti lo masticassero a dovere. Ma, mentre cercavano di domare lo stomaco, s’indebolirono anche loro stesse, e il corpo intero deperì. Di qui si vede come il compito dello stomaco non è quello di un pigro, ma che esso distribuisce il cibo a tutti gli altri organi. Fu così che le varie membra del corpo tornarono in amicizia tra loro e con lo stomaco. Così Senato e Popolo, come se fossero un unico corpo, deperiscono con la discordia, mentre con la concordia restano in buona salute” (Tito Livio, Ab Urbe condita, II, 32). Inoltre San Paolo, divinamente ispirato, ha ripreso la dottrina sociale di Menenio Agrippa narrata da Tito Livio e l’ha applicata alla società religiosa, ossia alla Chiesa: «Molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Né l’occhio può dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi […]. Anzi quelle membra che sembrano più umili sono le più necessarie. […]. Dio ha composto il corpo affinché non vi fosse disunione in esso, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tute le membra soffrono insieme; e se un membro sta bene, tutte le altre gioiscono con lui» (1 Cor., XII, 4-20).

20] Summa de Ecclesia, lib. II.

21] Cfr. Lc., VI, 12; Jo., XV, 16; Mc., XVI, 15.

22] Cfr. Ps., CVIII, 8; Lc., IX, 13; Jo., XX, 22; Mc., XVI, 20.

23] Cfr. San Tommaso d’Aquino, Quodlibetum IX, q. 7, a. 16.

 
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