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Hong Kong Clowns
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La meravigliosa perfezione dei chéngyǔ. Quattro caratteri, quattro sillabe, un distillato di saggezza multimillenaria: i proverbi in Cina sono fatti così.

Il chéngyǔ che si addice più alla situazione che andiamo a raccontare è 庸人自扰. Yōng rén zì rǎo. C’è chi lo tradurrebbe con lo shakespeariano «molto rumore per nulla», ma a noi sembra più significativa una traduzione para-letterale: «caos prodotto da persone mediocri».

È il bello della saggezza cinese: la storia è fatta delle solite quattro cose che si riciclano nei millenni. Una definizione migliore della cosiddetta “Rivoluzione degli Ombrelli” non esiste: «la confusione dei mediocri». E mediocri non sono solo i patetici attori visibili in TV; mediocri sono anche i pupari dietro le quinte, che sono a corto di idee e di materiale umano.

L’MI6 e soprattutto la CIA nel loro fallimento di Hong Kong hanno dimostrato di essere essi stessi Yōng rén, mediocri che producono rǎo, confusione inefficace, confusione trascurabile.

Avrete notato come, salvo colpi di coda dell’ultima ora, la faccenda si sia bella che sgonfiata. Pechino, ore fa, ha negato perfino gli incontri distensivi con gli studenti della protesta di Occupy Central. Stop: lo stile di autorità materiale cinese prevale sul vociare elettronico che l’asse angloide ha iniettato nella gioventù dell’ex colonia. Il Celeste impero vince; per Langley e Londra un altro cocente fallimento.

Architetture britanniche




Come noto, il problema alla base è che la Cina – che ricordiamolo non è una democrazia e non ci tiene ad essere definita come tale, almeno non in senso occidentale – nel 2017 imporrà suoi candidati per le elezioni locali. Pechino, naturalmente, vuole escludere a priori la possibilità che all’orizzonte si piazzi qualche forza violentemente anti-RPC.

L’Occidente attacca questa volontà, così poco occidentale, come se Cameron, Obama e soci, invece di essere stati selezionati da lobby e partiti (e chissà cos’altro…), fossero stati messi in plancia di comando esclusivamente dalla volontà popolare, come nel più ingenuo sogno grillino, come nel mito della cuoca di Lenin, che secondo il bolscevico avrebbe potuto guidare tranquillamente l’Unione Sovietica tanto dovevano essere semplici e «democratici» il potere e l’accesso ad esso.

John Ross, sinofono professore all’Università del Popolo di Pechino ed ex direttore delle politiche economiche del sindaco di Londra, ha postato il suo disgusto su Sina Weibo, l’immane rete simil-Twitter imperante in Cina.

«Le reazioni dei media occidentali – ha scritto Ross in un post in mandarino – sono, davvero, troppo ipocrite. Durante i 150 anni in cui i Coloni Britannici hanno dominato Hong Kong, mai hanno permesso al popolo di Hong Kong di scegliere il loro governatore. E gli americani non hanno mai avuto un problema con questo (...) La Cina ora ha designato per Hong Kong un sistema più democratico di quanto non ha fatto la Gran Bretagna, ma gli americani hanno comunque protestato contro il governo cinese».
Il testo è arrichito dall’emoticon animato del faccino che vomita. I commenti di Ross sono stati inoltrati dagli utenti di Weibo centinaia di migliaia di volte. Altre decine di migliaia hanno ri-commentato a loro volta. Certo, Weibo si trova sotto la «Grande Muraglia Elettronica», il sistema di censura della rete cinese che impiega decine di migliaia di persone. Eppure questo Ross coglie la verità.

Che tanta lucidità debba provenire proprio da un britannico è un bel paradosso. Del resto, in Occidente ben poco filtra riguardo a quanto si stiano scatenando i giornali cinesi. Il quotidiano hongkonghese – considerato filo-RPC – Ta Kung Pao ha sparato ad alzo zero sulle attività del MI6 nell’ex colonia, asserendo che «non solo le sue attività sono cessate dopo l’handover [il passaggio di potere dalla Corona Britannica alla Repubblica Popolare Cinese, ndr], al contrario sono aumentate».

Piazzandoci una bella foto di Daniel Craig in veste di James Bond, il giornale ha tirato fuori una bella sfilza di informazioni. Attivissimi asset inglesi di HUMINT (human intelligence, cioè spie in carne ed ossa, a differenze degli americani che oramai usano quasi solo SIGINT, intelligence tecnologica) sarebbero state infiltrate nel Governo, nelle aule di giustizie, nelle camere di commercio, nei media. Il metodo è quello classico: ricatti e connivenze, il gold standard del lavoro di spionaggio. L’MI6 ha spiato a lungo termine delle «persons of interest» dei gangli del potere raccogliendo dossier che, invece di essere distrutti come da accordi con l’handover del 1997, sono state trasferite a Londra. Questo – spiega il Ta Kung Pao – permette al Governo britannico di usare materiale sensibile ed imbarazzante per esercitare quando necessario piccanti pressioni su key officials delle istituzioni o personaggi del sistema mediatico di Hong Kong. Apprendiamo poi che il Dipartimento politico dell’MI6 a Hong Kong si sarebbe inabissato con il nome di Department D all’interno del Consolato Generale del Regno Unito in zona Admirality.

I cinesi hanno fatto emergere anche che l’architetto del Consolato Britannico (ovvero il cavalier Terry Farrell, massimo esponente del post-modernismo britannico, molto attivo in Cina) sia lo stesso che ha progettato il famigerato SIS Building, c’est-à-dire il notissimo roboante palazzone dell’MI6 a Vauxhall Cross, sul Tamigi.

Anche se la loro mano nei disordini di Occupy Central è evidente (la TV russa Rossija 24 ha parlato di tentativo disperato di porre rimedio all’allentamento definitivo della presa economica di Londra sulla vecchia colonia) tutto sommato va detto che gli inglesi hanno mantenuto un profilo piuttosto basso: il loro lavoro, se parliamo di spie, è ben fatto. La pagliacciata senza ritegno, alla luce del sole, sembra si addica più ai colleghi americani, che – figli di un Paese totalmente impazzito – non mostrano più alcun pudore.

I bambini della CIA


Jimmy Lai
  Jimmy Lai
Di fatto, prima del caos in strada, una valvola importante era saltata a fine agosto. Circa alla fine del mese, la casa del tychoon Jimmy Lai è stata oggetto di un raid da parte delle forze dell’ordine di Hong Kong in cerca di prove per un processo di corruzione. Mr. Lai è un pittoresco uomo d’affari autoctono, detentore tramite la NextMedia corporation di numerosi media anti-Pechino. Lai, in superficie, è accusato di aver fatto donazioni non esattamente legali per circa un milione di euro ad attivisti politici risaputamente contrari alla Cina Popolare, di quelli che stanno alimentando il mito del ritorno del «Terrore Bianco», ossia delle campagne di repressione violenta scoppiate ai tempi della guerre civili.

La parola CIA è però saltata subito fuori: lui si è difeso scrivendo di suo pugno un editoriale sul suo giornale Apple Daily. «Ho guadagnato ogni centesimo con business legali (...) se asserite il contrario portate delle prove. Vergognatevi». Questo basta al Financial Times per titolare «Hong Kong Media Baron Denies CIA Connection».

Eppure, non bisogna scavare tanto per capire come mai tanta gente si chieda se Lai sia un contatto della Company di Langley: il suo braccio destro è un americano di nome Mark Simon, figlio di un veterano della CIA e dell’Intelligence navale. Il South China Morning Post ha anche riportato come Simon junior avrebbe confessato di avere fatto una internship negli uffici della CIA, ma è stato smentito. Personalmente, su Lai e sul fido Simon di dubbi ne abbiamo pochi.

Ma vi sono altri personaggi che animano la scena che mostrano l’incredibile goffaggine americana.

Il Wen Wei Po, altro giornale filopechinese che in questi giorni si è scatenato con le rivelazione, ha puntato il dito sull’ex diplomatico americano Michael Holbrook. Holbrook, che in superficie sarebbe un promotore dei legami USA-HK, è probabilmente uno degli uomini cardine dei programmi di training dei partecipanti alle rivoluzioni colorate della città. Basta guardare il sito dell’Hong Kong-America Center per capire di cosa parliamo: una robetta in Wordpress (davvero pressapochisti questi servizi americani!) dove Holbrook promette borse di studio e scambi culturali (sul modello della borsa di studio Fulbright, tra i massimi sistemi di lavaggio del cervello filoamericano della nostra gioventù di apparato: provate a vedere quanti politici italiani e grand commis di Stato vi hanno partecipato) per poi discettare di sustainbility, climate change (ecco la grande politica di decrescita che è ora, con aborti ed omosessualismo, l’unico punto saldo della Foreign Policy di Washington) e ovviamente di schiavitù e sfruttamento professionale: insomma una panoplia di argomenti contro l’industriosa e popolosa Cina Popolare serviti ai baldi giovani di Hong Kong.

Joshua Wong
  Joshua Wong
Il punto più basso però gli americani lo hanno toccato con Joshua Wong, la figura piazzata a capo del riot di Occupy Central. Il ragazzo ha appena 17 anni, ma ne dimostra meno, tanto che, come accade ad alcuni in quella fase dello sviluppo, più che un efebo pare proprio una bambina. Occhialuto e leggermente macrocefalo, il bimbo sarebbe in politica già da due anni con Scholarship, un movimento locale da lui stesso fondato in opposizione all’introduzione di elementi «patriottici» (cioè, filo-pechinesi) nei programmi d’insegnamento. Insomma neanche quindicenne il nostro sapeva già come agire nell’arena geopolitica del Pacifico.

Il motivo di tanta precoce maturità ce lo ha raccontato un exposé del sempre più diretto Wen Wei Po, il quale ha fornito anche foto (ottenute da netizen, scrive, in realtà è facile che vengano dal Guo An Bu, il servizio segreto della Repubblica Popolare) del piccolo Wong e dei suoi incontri multipli con membri del personale del Consolato USA, con relative «donazioni» in danaro.

Pregne di significato anche le vacanze della famiglia Wong: nel 2011 (il pischello aveva 14 anni) gli Wong sono stati invitati dalla Camera di Commercio Americana di Hong Kong a trascorrere del tempo nella vicina Macao nel lussuoso Venetian Macau Hotel. Un albergo posseduto dal gruppo americano Las Vegas Sands: la qualcosa aprirebbe una parentesi del ruolo dei megagruppi di gioco d’azzardo come front della CIA (quanti ricatti, economici e sessuali, possono essere creati e mantenuti in questi luoghi?). Joshua nega tutto. Il problema è che anche la Camera di Commercio Americana e il Consolato evitano di dare commenti, anche quando a chiederne è il Wall Street Journal.

Baby Wong è comunque imbeccato bene: dichiara di non volere lasciare Hong Kong e di non essere interessato a studiare all’estero al momento. È una risposta ai giornali filocinesi, che accusano apertamente la CIA di reclutare la gioventù con la promessa di borse di studio.

Come mostra tutto l’apparato di Holbrook, oramai gli americani si sono ridotti a comprare i leader delle proteste colorate con la promessa di studiare negli USA. È di fatto una bella regressione: invece che far studiare i ragazzi e poi fargli fare le rivoluzioni, adesso prima i ragazzi fanno la rivoluzione, e poi se si rivelano adeguati li si premia «meritocraticamente» con una bella borsa di studio in terra nordamericana. Prima i risultati, poi la grana, e chissenefrega dell’addestramento fatto per bene. La crisi è crisi.

Resta lo spettacolo bruttarello di questo bambino gettato in un gioco infinitamente più grande di lui, che un poco ricorda uno degli ultimi golpe alle Isole Comore portato a segno da Bob Denard, quando mise al potere un Governo con Ministri di quindici anni. Già Yatsenjuk, neanche quarantenne, era troppo giovane per Kiev, ora questo bimbetto con gli occhi a mandorla che nemmeno può votare: di questo passo Langley arriverà a cooptare dei neonati o degli embrioni — anzi, scusate, questo non è possibile, perché il potere washingtoniano profondo odia gli embrioni, come dimostra il famoso memorandum NSSM-200 che delineava la politica antinatalista di Kissinger e degli apparati internazionali USA già negli anni Settanta.

Occupy
Eurasia



Sarebbe folle non vedere come anche in questa «rivoluzione colorata» in salsa cantonese non vi sia sempre la stessa medesima mano, oramai stanca e poco creativa. Quella del NED e di Soros, della fabbrica di «rivoluzioni colorate» che ha colpito la Terra negli ultimi cinque lustri: ricordate? Otpor in Serbia, le rose a Tbilisi, i tulipani a Bishkek, Yushenko prima e Pravij Sektor poi a Kiev,  le primavere arabe…

Neanche i media russi si sono fatti pregare per dare una spiegazione di quello che sta accadendo. Rossija 24, la TV del Cremlino, ha mostrato il reportage da Hong Kong sottolineando come i leader di Occupy Central «abbiano fatto un addestramento speciale con i servizi segreti americani».

«Le tattiche dei protestatari – ha aggiunto l’emittente russa – replicano esattamente gli inizi delle “rivoluzioni arancioni”, che di fatto erano colpi di Stato». Il riferimento è ai disastri del mondo ex sovietico in Georgia, in Kirghizistan e soprattutto in Ucraina, dove la destabilizzazione colorata non si è ancora fermata, ed anzi ha mostrato il vermiglio del sangue.

E poi, riutilizzare il marchio Occupy, senza nemmeno una riverniciatina, è un atto di immane sciatteria. Una pagliacciata senza rispetto dell’interlocutore.

Bisogna rammentarsi dell’originale, il famoso Occupy Wall Street. All’apparenza, una sollevazione popolare di giovani inviperiti contro il capitalismo speculativo e quell’1% di ricconi che dominano l’economia degli USA. Accadde nel 2011, neanche tre anni fa... Ricordate? Le tende a Zuccotti Park, Roberto Saviano che va a tenerci discorsi imprevedibili...

A coordinare il movimento, detto anche «Global Change», fu inizialmente un sito, 15october.net, che – un po’ come Otpor vanta di mettere in contatto ben 82 Paesi e più di 1000 città, tutti in grado di sincronizzare la protesta il giorno stabilito. Qualcuno ha però scoperto che il dominio internet era stato registrato da «Paulina Arcos, 866 United Nations Plaza, Suite 516, New York, New York 10017, United States». Sì: come indirizzo di residenza è dato un palazzo delle Nazioni Unite. Scavando un po’ di più si scopre che la rivoluzionaria domiciliata all’ONU non è una discendente di Che Guevara ma la consorte di Francisco Carrion Mena, Ambasciatore permanente ecuadoriano alle Nazioni Unite. Questa stranezza risulta consultabile per poco: chi, dopo il 15 ottobre, va a controllare a chi è intestato il dominio registrato, non trova più il nome della moglie del diplomatico dell’Ecuador (Paese iper-massonico dal quale per inciso, proviene la maggioranza parte di quei «rosari satanici» venduti in Italia) ma il nome di un pinco pallo dell’Arizona.

Il mistero si infittisce ancora di più, se si considera che la sede di un’entità inquietante come il Lucis Trust (cioè il Lucifer Trust – la cinghia di trasmissione tra la compagine teosofico-misterica-satanica mondialista e gli ambienti dell’ONU), è la medesima: 66 United Nations Plaza, Suite 516, New York, New York 10017, United States. La stessa fornita dalla signora Arcos Carrion Mena.

Una traccia interessante, ma nessuno ha voluto verificare la cosa; non ricordo nessuna intervista alla stramba signora Arcos. Va detto che all’indirizzo rispondono molti altri affittuari, ma comunque che il dominio di Occupy sia stato comprato da una misteriosa sciura della diplomazia sudamericana, beh, quello un po’ dovrebbe insospettire.

Ma non importa, chi vuole mai andare in fondo alle cose? Se si decide che Occupy adesso è rinato ad Hong Kong, perché dobbiamo opporci? Chi davvero non vuole bersi la broda della narrativa offertaci dell’Occidente sempre più goffo ed impudente? Chi sono io per giudicare?

Prendete il Corriere: venerdì 10 ottobre ci propina foto e storia del poeta Wang Zang, arrestato da poliziotti «arrivati in forze, una dozzina», nella sua casa di Pechino. Il poeta Wang ha fatto circolare una sua foto con l’ombrello, simbolo della protesta di Hong Kong. Un piccolo martire artistico, insomma, un Ai Weiwei in ottava. Basta guardare l’immagine per capire (i redattori del Corrierone no, non ci arrivano) che si tratta del classico artistoide ebete antisistema, perché oltre che al simbolo di Occupy esibisce in tutta evidenza dietro di sé la bandiera di un Paese in conflitto permanente (cioè, non è nemmeno riconosciuto…) con la Cina Popolare: Taiwan. Un furbetto dedito all’épater-le-bourgeois cinese-continentale, una figura irrilevante, una zanzara ridicola: tutti a cascarci dentro, pur di far propaganda anticinese.



Nel mentre noi ci si perde dietro a queste buffonate, il blocco russo-cinese fa sul serio. Il riavvicinamento tra i due colossi è chiaramente favorito dalle insensate sanzioni contro Mosca come dai continui giochi degli USA con le forze militari giapponesi atti ad innervosire Pechino (vedi questa traduzione dal giapponese di EFFEDIEFFE). Agli inizi di settembre, la moscovita Rostec – l’industria tecnologica di Stato gravemente colpita dalla sanzioni – ha firmato un contratto da dieci miliardi di dollari con un produttore di carbone cinese per sviluppare depositi in Siberia e dell’Estremo Oriente russo. A fine agosto Putin ha offerto a cinesi di diventare stakeholder di Vankor, il secondo maggior progetto petrolifero della Russia, situato nella Siberia Orientale.

Il compattamento del mondo extra-americano, di fronte alle insensate pagliacciate che spaziano dall’Ucraina a Hong Kong, è evidente. Per una grottesca eterogenesi dei fini, questo compattamento è il grande incubo geopolitico di tutta la dottrina geopolitica angloide, da Mackinder a Brzezinski: l’ammasso supercontinentale euro-asiatico unito in un unicum economico/politico. Il grande, infinito continuum tellurico in grado di mettere sotto scacco il potere dell’asse degli anglo.

Eppure è quello che sta avvenendo: il Trattato Transatlantico e quello Transpacifico altro non sono che sistemi per isolare ancor di più l’isola-mondo russo-cinese, che reagisce chiudendosi e rilanciando con più forza l’alternativa dei BRICS, Paesi in crescita, non strangolati dal meltdown finanziario transatlantico.

Usare come pungolo Hong Kong – sperando in una nuova Tian’anmen da rivendere all’indignazione internazionale – porterà a risultati opposti a quelli sperati. Anzi: visti gli accordi economici sino-russi, e i recenti successi del BRICS (l’India manda su Marte una sonda con 80 milioni di dollari, meno di quanto è costato il kolossal hollywoodiano antispaziale Gravity), la spirale negativa per gli interessi USA pare proprio non potersi arrestare. Del resto, come possono pensare di ottenere risultati utilizzando come agents provocateurs magnati mafiosetti, diplomatici bolliti, bambini in fasce pitturati da leader assoluti?

Yōng rén zì rǎo
. «Caos prodotto da persone mediocri».

C’è un’altra espressione idiomatica di quattro parole che viene in mente, stavolta però dalla lingua di Shakespeare. Send in the Clowns. Fate entrare i pagliacci. La usò l’Economist per commentare i bei risultati di Berlusconi e Grillo alle politiche del 2013.

Per quanto ci riguarda, dipinge perfettamente gli ultimi giorni della CIA nel Mar cinese meridionale. I giorni degli Hong Kong Clowns.

Roberto Dal Bosco




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