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Balfour e il Sionismo
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Il 2017 e il sionismo

Quest’anno cadono svariate ricorrenze per la storia del sionismo e dello Stato d’Israele: 120 anni dal 1° Congresso di Basilea (29-31 agosto 1897); 100 anni dalla Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917); 70 anni dalla Risoluzione 181 della Nazioni Unite (29 novembre 1947) a favore della fondazione dello Stato d’Israele (15 maggio 1948) e 50 anni dalla guerra dei 6 giorni (giugno 1967; cfr. M. Oren, La guerra dei sei giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano, Milano, Mondolibri, 2004)[1].

Herzl e Weizmann

Chaim Weizmann (1874-1952) nel 1907 - 110 anni or sono -  riuscì a realizzare il sogno che aveva coltivato (senza poterlo vedere) Theodor Herzl (1860-1904), il fondatore del sionismo: ottenere l’appoggio di una potenza europea per la nascita dello Stato d’Israele in Palestina, sostenendo l’immigrazione progressiva di coloni ebrei in Palestina e la creazione di colonie ebraiche.

Weizmann era nato in Polonia, ma ben presto si era trasferito a Manchester in Inghilterra ove, nel 1906, aveva stretto amicizia con l’allora Primo Ministro britannico Arthur James Balfour (1848-1930) e con David Lloyd George (1863-1945), che furono i primi ad appoggiare il progetto sionista. Per cui se Herzl ha ideato il sionismo, Weizmann lo ha calato nella realtà. Perciò si può dire che tra loro due intercorre lo stesso rapporto che ha legato Marx e Lenin: il primo ha concepito il marxismo nel 1848 e il secondo gli ha dato vita con la Rivoluzione bolscevica nel 1917.

Addirittura Weizmann riuscì ad ottenere l’appoggio della Gran Bretagna, che allora era la super-potenza mondiale (cfr. A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, Bari, Laterza, 2009, p. 113).

La Dichiarazione Balfour

La Dichiarazione che l’allora Ministro degli Esteri britannico lord Arthur Balfour rilasciò al Presidente della Federazione Sionistica Britannica lord Lionel Walter Rothschild (2 novembre 1917), durante il governo inglese guidato da lord Benjamin Disraeli (1804-1881), con cui si concedeva la “creazione” (non la “ricostruzione”, come avevano chiesto i sionisti) di un “focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina”, fu ottenuta dall’abilità di Weizmann. Vediamo come.

Dal Kenya alla Palestina

Theodor Herzl accettò l’idea proposta dall’Uganda di dare una nuova terra agli ebrei in Kenya e nel 6° Congresso Sionista di Basilea (1903) la presentò all’assemblea, ottenendo il 63% dei voti a favore del progetto. Londra era d’accordo, ma dopo qualche mese Herzl morì a soli 44 anni nel 1904 e la proposta Kenya fu rimessa in discussione. Nel 1905 al 7° Congresso Sionista di Basilea si optò per la Palestina, in cui la finanza ebraica, con lungimiranza impressionante, aveva comperato molte terre senza dare troppo nell’occhio.

Il “problema arabo”

Nessuno voleva dire chiaramente cosa pensasse del “problema arabo”, anche se il 92% della popolazione palestinese era araba e ciò avrebbe creato un problema alla futura fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, che al 92% era… araba (cfr. A. Marzano, Storia dei sionismi, Roma, Carocci, 2017, p. 85). Gli arabi nel testo della Dichiarazione Balfour non venivano neppure nominati; tuttavia successivamente furono ritenuti titolari di diritti civili e religiosi, ma non nazionali (cfr. A. Marzano, cit., p. 85), come invece era avvenuto per gli ebrei. Oggi su 11 milioni di abitanti che vivono in Palestina, circa 6 milioni sono palestinesi e circa 5 milioni ebrei, ma la terra appartiene all’80% agli ebrei e al solo 20% ai palestinesi, che continuano ad essere un “popolo senza uno Stato” (cfr. X. Baron, I Palestinesi. Genesi di una nazione, Milano, Baldini & Castoldi, 2002).

Protestantesimo filosionista

I protestanti inglesi nell’Ottocento avevano lanciato l’idea del ritorno degli ebrei in Palestina in vista della loro conversione (cfr. A. Marzano, cit., p. 75). Essi avevano incrementato i pellegrinaggi in Palestina e la loro percezione del problema dei luoghi della Terra Santa si faceva sempre più favorevole ad un ritorno degli ebrei in Palestina. Invece l’opinione dei cattolici era molto diversa poiché temevano che tale ritorno potesse dare una preponderanza al mondo ebraico in Terra Santa a scapito dei cristiani e degli arabi nativi, che da centinaia di anni abitavano in Palestina e ne formavano il 92% della popolazione.

“Fu soprattutto la Gran Bretagna ad ospitare associazioni che spingevano per un ritorno degli ebrei nella Terra d’Israele” (A. Marzano, cit., p. 76) ed in cambio il 24 luglio 1922 ottenne il Protettorato sulla Palestina dalle Nazioni Unite.

Motivazioni politico/economiche britanniche

Tuttavia l’Inghilterra come Nazione sposò l’idea sionista soprattutto per motivi politico/economici: il Mediterraneo, con il Canale di Suez, era ritenuto dal Regno Unito una delle zone più strategiche dal punto di vista militare e commerciale e di conseguenza la Palestina (assieme all’Egitto) era una delle regioni da tenere particolarmente sotto controllo, in vista della rotta delle navi commerciali inglesi verso l’India. “Proprio dall’intreccio di questi elementi sarebbe progressivamente nato il sodalizio tra governo britannico e movimento sionista, concretizzatosi con la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917” (A. Marzano, cit., p. 76).

Inoltre Londra mirava, grazie all’appoggio della Comunità ebraica statunitense, a spingere gli Usa a partecipare alla Prima Guerra Mondiale con uno maggiore dispiego di capitali e di forze belliche (cfr. A. Marzano, cit., p. 83). Infine voleva anticipare la Germania che avrebbe potuto fare per prima la mossa filosionista, essendo nato e vissuto - il sionismo - in ambiente germanico (Basilea, Vienna, Colonia e Berlino) prima di trasferirsi in Inghilterra con Weizmann, ed avrebbe ottenuto essa l’appoggio della potente Comunità ebraica, ribaltando probabilmente, così, le sorti della Grande Guerra.

Latente antisemitismo?

Il diplomatico britannico Mark Sykes diceva allora pubblicamente che “se l’ebraismo influente si fosse schierato contro l’Inghilterra, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di vincere la guerra” (A. Marzano, cit., p. 82; cfr. E. Rogan, La Grande Guerra nel Medio Oriente, Milano, Bompiani, 2016).  Lord Lloyd George riteneva “necessario fare un contratto con l’ebraismo vista la vasta influenza internazionale esercitata dal popolo ebraico” (A. Marzano, ivi). Oggi ciò verrebbe considerato politicamente scorretto e ai limiti dell’antisemitismo.

In breve Londra appoggiava il ritorno degli ebrei in Terra Santa e il mondo ebraico, in cambio, le dava delle garanzie circa la propria presenza nell’area, che era disputata allora dalla Francia, la quale avrebbe potuto mettere in pericolo il primato del commercio britannico qualora si fosse impadronita dell’area palestinese.

Il colonnello Charles Henry Churchill nel suo libro Mount Lebanon del 1853 aveva già sostenuto il ruolo fondamentale dell’ebraismo internazionale per permettere all’Inghilterra di impossessarsi, a scapito della Francia, della Palestina. Egli “fu dunque in qualche modo il primo a teorizzare la nascita di uno Stato ebraico, anticipando di 50 anni il sionismo politico” (A. Marzano, cit., p. 77; cfr. G. Bensoussan, Il sionismo, Torino, Einaudi, 2007; D. Bidussa, Il sionismo politico, Milano, Unicopli, 1993).

Il Canale di Suez

Nel 1869 venne aperto il Canale di Suez e ciò rese l’area egiziana/palestinese ancora più appetibile per la Gran Bretagna, la quale temeva la potenza francese che era già presente in maniera preponderante in Egitto. Sennonché quando nel 1876 il governo egiziano dichiarò il fallimento e mise in vendita la Compagnia del Canale di Suez, il governo inglese comprò immediatamente, grazie ad un prestito della Banca Rothschild, il 44% delle azioni della Compagnia per 4 milioni di sterline (cfr. A. Marzano, cit., p. 79). Fu così che l’Inghilterra pian piano entrò sempre di più in Egitto, arrivando ad occuparlo nel 1882 e ad averne il Protettorato nel 1914. A partire da ciò l’idea di assorbire la Palestina nella propria orbita divenne sempre più forte e con essa il legame col sionismo (cfr. I. Pappé, Storia della Palestina moderna, Torino, Einaudi, 2005).

Le grandi conseguenze della breve Dichiarazione Balfour

Arturo Marzano scrive che la Dichiarazione Balfour piccolissima nella mole (una decina di righe) ha avuto delle conseguenze grandissime nella storia di un’intera area e di due popoli (cit., p. 86). In realtà si può dire che le conseguenze della Dichiarazione Balfour si fanno ancora sentire e a livello mondiale, poiché è dalla crisi palestinese/israeliana che son nate le guerre statunitensi contro l’Iraq di Saddam (1990/2003) sino all’attuale guerra contro la Siria di Assad (2010-2107) e quest’ultima ha fatto scendere in campo gli Usa contro la Russia ed ha creato il fenomeno Isis, che sta spargendo il terrore nel mondo intero.

Conclusione

Leggendo il libro di Marzano si resta sorpresi dall’abilità con cui Chaim Weizmann ha ottenuto la nascita pratica e concreta del sionismo, grazie ad una fitta rete di amicizie, intessute da lui, con il mondo politico britannico (Arthur Balfour/Lloyd George) e grazie all’appoggio pratico e “contante” ricevuto dalla Banca ebraica Rothschild.

Infatti la Dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), con cui l’Inghilterra si impegnava a concedere la “creazione di un focolare nazionale ebraico” in Palestina, fu ottenuta da Weizmann tramite il banchiere Lionel Rothschild dopo alcuni incontri intercorsi tra lui e l’allora Ministro degli Esteri britannico Balfour.

Già nel 1876 l’Inghilterra aveva potuto comprare il 44% delle azioni della Compagnia del canale di Suez mediante il prestito di 4 milioni di sterline ottenuto dalla Banca Rothschild. Ciò la rendeva particolarmente sensibile al territorio palestinese e al fatto che esso tornasse in mano agli ebrei, che lo avevano dovuto lasciare nel 70 d. C.

Lo sforzo sempre più generoso degli Usa nella Prima Guerra Mondiale e probabilmente anche la sconfitta dell’Impero Austro-Ungarico son stati dovuti all’impegno dell’ambiente ebraico “che conta” a favore dell’Inghilterra, che gli aveva appena concesso la Palestina. Infatti, come diceva il diplomatico britannico Mark Sykes, “se l’ebraismo influente si fosse schierato contro l’Inghilterra, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di vincere la Prima Guerra Mondiale”.

Il 92% della popolazione araba che viveva da centinaia di anni in Palestina, in un sol tratto, col 2 novembre 1917, non ebbe più diritti nazionali, divenne “nazionalmente” insistente. La creazione dello Stato di Israele è stata la prosecuzione di questa ingiustizia iniziale, che ha comportato una catena di azioni e reazioni, le quali ci stanno portando sulle soglie di una probabile Terza Guerra Mondiale.

Questo è il peccato originale dello Stato d’Israele, che ne sta pagando ancora le conseguenze.  Il sionismo come si è venuto sviluppando, dopo la morte di Rabin e specialmente con l’attuale governo Netanyahu, è scivolato sempre di più verso il separazionismo sciovinista. Anche l’Onu il 23 dicembre 2016 (Risoluzione n. 2334) ha condannato la costruzione dei nuovi insediamenti israeliani nei territori palestinesi. Israele è sempre di più isolato, nonostante i mezzi di cui dispone (Weizmann e Rothschild docent).

Questa “deriva”, come molti la chiamano, non è un incidente di percorso come dice qualcuno, ma mi sembra connaturale alla storia e alla mentalità del sionismo, che sin dal 1917 si è mostrato esclusivo, escludente e isolazionista, e che inoltre a partire dal 1948 “si è basato su una discriminazione de jure dei cittadini non-ebrei rispetto a quelli ebrei” (A. Marzano, cit., p. 218). L’uccisione di Rabin e quella di Arafat hanno segnato un punto di non-ritorno da questo stato di super-nazionalismo esasperato ebraico.

In Cisgiordania, nel 20% della terra per lo più desertica che ancora resta ai palestinesi, esiste uno stato di apartheid: “Vi sono individui, distinti su base etnica, soggetti a due sistemi giuridici differenti, civile per i coloni israeliani e militare per i palestinesi” (A. Marzano, cit., p. 219).

Come andrà a finire? Solo Dio lo sa. Si possono fare tre ipotesi. 1°) continua l’apartheid e il sionismo è totalmente squalificato; 2°) si concede un solo Stato per tutti i cittadini e il sionismo muore; 3°) si creano due Stati per due popoli, cosa molto improbabile, ed allora può succedere di tutto.

Il nazionalismo esasperato del sionismo non è un fenomeno recente, ma è contenuto virtualmente nella Letteratura Apocalittica, che è il «complesso di scritti pseudonimi giudaici, sorti tra il sec. II a. C. e il sec. II d. C. »[2]. Monsignor Antonino Romeo scrive che la materia dell’Apocalittica è ideologica, politica ed escatologica, essa tratta «della vendetta sulle Genti e della restaurazione gloriosa di Israele. […]. Il Regno di Dio riveste generalmente l’aspetto nazionalistico-terreno: schiacciante rivincita di Israele, colmo per sempre di prosperità e di dominio»[3]. Il regno di Israele o del Messia, che coincide con la Nazione giudaica, “sarà di questo mondo, […], e riporterà l’Eden quaggiù. In tale concezione giudaica, la persona umana conta ben poco: Israele diventa realtà assoluta e trascendente, la redenzione è collettiva anziché individuale, anzi cosmica più che antropologica. […]. Il Messia è rappresentato come un re ed un eroe militante. […]. Mai il Messia è intravisto come redentore spirituale, espiatore dei peccati del mondo”[4]. In breve «il tema supremo appare in funzione esclusiva della glorificazione di Israele, la ‘fede’ è l’impaziente attesa della bramata vendetta sulle Genti. Questi scritti Apocalittici fomentano la passione di rivincita e di dominio mondiale. […]. Verso le Genti gli Apocalittici sono implacabili: ogni compassione per loro passerebbe per debolezza di fede. […]. I ‘veggenti’ dell’Apocalittica infieriscono, con voluttà feroce, con odio insaziabile. Le “apocalissi” assumono un posto decisivo nell’astiosa propaganda contro le Genti; sono ordigni di guerra […]; la religione apocalittica ha un solo cruccio e ansia: l’Avvenire […] gli Imperi delle Genti si annienteranno a vicenda finché il dominio universale non passerà a Israele»[5]. Ne consegue «il particolarismo giudaico, condannato dal Vangelo. Il più ambizioso nazionalismo vi rincara le sue pretese. Le Genti vi sono più disprezzate ed odiate che mai: il fosso tra Israele ed esse si trasforma in abisso»[6]. Presentando un Messia che ridona a Israele l’indipendenza politica e gli procura il dominio universale, l’Apocalittica accentuò il particolarismo nazionalistico e spinse Israele alla ribellione contro Cristo e contro Roma, quindi al disastro»[7].

Disastro destinato a perpetuarsi sino a che Israele rimarrà ancorato a quest’ideologia imperialista e dominatrice del mondo intero.

d. Curzio Nitoglia



1] Vi sono anche altre ricorrenze della storia sionista collimanti col 2017: 40 anni dal 1977, la vittoria dell’estrema destra del Likud di Menachem  Begin in Israele; 30 anni dal 9 dicembre 1987, quando scoppia la prima intifada palestinese; 20 anni dal 15 gennaio 1997, quando Netanyahu firma con Arafat il Protocollo che prevedeva la divisione di Hebron in due parti; 10 anni dall’ottobre del 2007, quando ad  Annapolis negli Sati Uniti d’America, sotto il patrocino del Presidente George W. Bush, il governo palestinese di Arafat e quello israeliano di Olmert si riuniscono per accordarsi sulla formula “due popoli, due Stati”. “Nella Kabbalah il 7 è il numero beneamato in quanto rappresenta la parte inferiore dell’Albero della Vita. […]. Il 17 rappresenta il Diluvio” (L. Troisi, Dizionario della Kabbalah, Foggia, Bastogi, 1998, p. 229 e p. 85, voce Sette e voce Diciassette).

2] A. ROMEO, voce “Apocalittica, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1948, I vol., col. 1615.

3] A. ROMEO, cit., col. 1617.

4] A. ROMEO, cit., col., 1618.

5] A. ROMEO, cit., col. 1619.

6] A. ROMEO, cit., col. 1620.

7] A. ROMEO, cit., col. 1624.



 
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