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L’ebreo don Lorenzo Milani?
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50 anni dalla morte di don Milani

Recentemente, nel mese di luglio del 2017, con la visita di papa Bergoglio a Barbiana sulla tomba di don Lorenzo Milani (Firenze 27 maggio 1923 – 26 giugno 1967), è tornato alla ribalta il “problema don Milani”.

Comunemente don Milani è visto come un prete contestatore, filo-proletario, socialisteggiante, ma ciò non è tutto.

Don Milani giudaizzante

Nel 2013 è uscito un libro, molto ben documentato, di Paolo Levrero intitolato L’ebreo don Milani (Genova, Il Melangolo), che apre una visuale nuova e più ampia, la quale sta alla radice dell’impegno sociale e socialista dell’ex parroco di Barbiana. Nel presente articolo mi baso su di esso per far un po’ di luce su questa figura, che è poliedrica, apparentemente contraddittoria e della quale non era ben conosciuto l’aspetto giudaizzante, che è stato messo molto bene in rilievo dal Levrero.

La contraddizione del “giudeo-cristianesimo”

Il libro “muove dalla tesi che il suo titolo manifesta: il cristianesimo di don Lorenzo Milani è saldato a un radicale ebraismo. Sebbene implicito nella sua biografia e trascurato dalla critica, l’ebraismo milaniano affiora attraverso gli originali significati dei quali Milani stesso ha saputo intridere la propria esperienza di uomo e prete cattolico” (P. Levrero, L’ebreo don Milani, Genova, Il Melangolo, 2013, p. 9).

Già alcuni anni fa l’arcivescovo di Firenze mons. Betori aveva parlato dell’ebraismo di don Milani come di un fattore positivo della personalità incompresa dalla Chiesa preconciliare del parroco di Barbiana, quale anticipatore del Concilio Vaticano II e specialmente della Dichiarazione Nostra aetate.

Ora, grazie alle citazioni riportate nel libro succitato, si può capire meglio come realmente don Lorenzo Milani abbia precorso certe tematiche filo-giudaizzanti, che vennero dibattute e contestate vivamente come eterodosse durante il Concilio (1962-1965) riguardo ai rapporti tra cristianesimo ed ebraismo.

A partire da ciò si può dire, senza tema di calunniare nessuno, che la vita di don Milani si fonda sull’equivoco del giudeo-cristianesimo, ossia della conciliazione dell’inconciliabile. Infatti il cristianesimo crede nella divinità di Gesù Cristo, mentre l’ebraismo post-biblico la nega e la reputa una bestemmia. Per cui le due cose non possono stare assieme, ma o è vera l’una (Cristo è Dio) e falsa l’altra (Cristo non è Dio ed è un mentitore, che meritava la morte poiché da uomo si è fatto Dio) o viceversa.

Purtroppo nel mondo moderno, fondato hegelianamente sulla contraddizione, tutto ciò che è assurdo ed impossibile poiché contraddittorio è diventato, invece, vero e reale. Quindi la figura di don Milani, che era incompresa nel periodo preconciliare, scolastico, dogmatico e a-pastorale, diventa addirittura “profetica” nel periodo post-conciliare, che ha fatto pastoralmente sua la filosofia della modernità idealistica come auspicava già Giovanni XXIII.

Il pericolo del giudeo-cristianesimo

La dottrina sul pericolo del giudeo-cristianesimo è esposta specialmente nelle Epistole di San Paolo. Egli nel suo secondo viaggio apostolico (nel 50 circa) arrivò nella Galazia del nord (con capitale Ankara). Ritornandovi tre anni dopo, si accorse che coloro che aveva evangelizzato nel primo incontro, si “erano lasciati abbindolare dai fanatici giudeo-cristiani, abbracciando le pratiche del giudaismo (circoncisione, ecc.) quasi necessarie alla salvezza”[1]. Dunque, da Efeso (nel 54 circa) s. Paolo - divinamente ispirato - scrive loro confutando gli errori del giudeo-cristianesimo e dei giudaizzanti.

Nell’Epistola ai Galati l’Apostolo insegna: “Mi meraviglio che così presto vi siete allontanati da Colui che vi ha chiamato nella grazia di Cristo, passando ad un vangelo diverso…, vi sono alcuni che gettano lo scompiglio in mezzo a voi e si propongono di stravolgere il Vangelo di Cristo. Ora, se anche un Angelo vi annunziasse un vangelo diverso da quello che noi stessi vi abbiamo annunciato, sia anatema!” (I, 6-8). I Padri, i Dottori e gli esegeti approvati nella Chiesa spiegano in tal senso il passaggio paolino: i giudaizzanti disertano e abbandonano il Vangelo di Cristo, predicato dai suoi apostoli, per aderire ad un altro vangelo contrapposto a quello cristiano, esso è un contro-vangelo, poiché i giudeo-cristiani si propongono di pervertire il Vangelo di Cristo. Il giudeo-cristianesimo vuole disertare o abbandonare Dio, che chiama gli uomini alla grazia ottenutaci da Cristo con la sua Passione e morte, e rimpiazzare il Vangelo di Cristo con l’osservanza delle cerimonie legali antiche. La salvezza invece si ottiene solo grazie alla fede (vivificata dalla carità) in Cristo. I giudaizzanti sono bestemmiatori e votati alla dannazione; tal è, infatti, il significato dell’anatema (v. 8) che equivale all’herem ebraico, che designava gli scomunicati come votati alla perdizione per motivi religiosi. Neppure un apostolo e s. Paolo stesso potrebbe sfuggire alla dannazione, se predicasse il contro-vangelo giudeo-cristiano (v. 9).

Nel capitolo II ai versi 3-4, l’Apostolo rivela che nel 50 circa era salito al Concilio apostolico di Gerusalemme, assieme a Tito, il quale essendo greco non era circonciso. I giudaizzanti gridarono allo scandalo, poiché la presenza di un incirconciso a Gerusalemme e ad un Concilio era ritenuta da loro intollerabile e quindi chiesero che fosse circonciso. L’Apostolo qualifica i giudaizzanti come ‘falsi fratelli intrusi’ (v. 4), “che si erano infiltrati per spiare la libertà nostra, che abbiamo in Gesù Cristo e renderci schiavi” (v. 4). Il loro scopo era d’imporre la Legge giudaica come necessaria alla salvezza, abolendo la grazia che rende liberi dal peccato in Gesù Cristo. I cristiani giudaizzanti più che a Cristo credevano al vecchio cerimoniale mosaico, ma l’antico cerimoniale è oramai – con l’avvento di Gesù – incapace di santificare; esso è stato rimpiazzato dalla grazia di Cristo in virtù dei suoi meriti. “Se la giustificazione vien dalla Legge cerimoniale, certamente Gesù è morto in vano o senza scopo” (v. 21). Il giudeo-cristianesimo è l’annullamento radicale e totale del Sacrificio di Gesù e della grazia cristiana che ne deriva, in breve è l’apostasia e la distruzione del cristianesimo apostolico. “Se vi lasciate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla” (V, 2).

Nella II Epistola ai Corinti san Paolo specifica che i giudaizzanti sono “falsi apostoli, operai fraudolenti e mentitori, che si camuffano da Apostoli di Cristo, [come] lo stesso satana si traveste da angelo di luce” (XI, 13-14).  Il giudeo-cristianesimo è la contro-chiesa o la ‘sinagoga di satana’ (Apoc., II, 9) che vuole carpire la buona fede dei semplici con un falso zelo e una virtù simulata.

Cripto-giudaismo milaniano

Don Milani apparteneva all’alta borghesia fiorentina di origini ebraiche da parte di padre e di madre[2]. “Lorenzo Milani rimarrà per sempre intimamente sensibile di fronte alla sua ebraicità, senza ostentarla ma vivendola nella propria interiorità di uomo” (E. Levrero, cit., p. 9).

La rottura col mondo borghese

La “conversione” di Lorenzo Milani al cristianesimo avvenne nel 1943 e fu seguìta immediatamente dalla sua “vocazione” ed entrata in seminario. Tale scelta viene letta dal Levrero (cit., p. 10) come una rottura con il mondo borghese e uno schierarsi con il mondo operaio piuttosto che come una rottura con l’ebraismo post-biblico e uno schierarsi con Cristo e la Nuova Alleanza.

“Forse la storia della conversione ‘cristiana’ di Milani è stata letta in modo troppo unilaterale, poiché la sua è prima di tutto una conversione ‘al suo Dio’ che passa attraverso la liturgia cattolica per arrivare o ritornare alla dimensione israelitica della fede” (cit., p. 99). L’ebraismo post-biblico non è una fede dogmatica, ma è l’appartenenza e il legame che il soggetto riconosce con la storia del popolo cui sente di appartenere (cfr. op. cit., p. 100).

Indipendenza assoluta

“Così come ogni ebreo è libero nell’interpretazione del Testo sacro e non c’è nessun magistero e nessuna autorità che debba essere ascoltata, Milani si sente assolutamente libero nell’interpretare la vita, il sacerdozio e il mondo che lo circonda” (cit., p. 107); la sua scuola è fondata su questa libertà assoluta e soggettiva, che risente impressionantemente dell’eredità talmudica. La pedagogia di don Milani è destinata alla “emancipazione dell’uomo, ossia all’affrancamento da ogni oppressione, all’indipendenza da ogni soggezione, all’autonomia da ogni servitù, alla liberazione da ogni subalternità” (cit., p. 118).

Pedagogia ebraica

Inoltre l’attività pedagogica di don Lorenzo ha “una singolare comunanza con una yeshivah ebraica, la scuola rabbinica dove i giovani sono avviati allo studio del Talmud” (cit., p. 10). Nella scuola di don Milani ci si forma attraverso la “libertà di pensiero, libertà di conoscenza e di dissentire rispetto a strutture sociali che opprimono i più deboli” (ivi).

L’Autore propone una lettura della vita di don Milani alla luce dell’ebraismo. “La vicenda umana di Milani viene così ri-esplorata congiungendo ebraismo e cristianesimo. […]. Forse proprio all’ebraismo milaniano è possibile ricondurre i segni di un’esistenza così controversa. […]. La sua pedagogia pare essere la via che conduce al suo ebraismo” (cit., p. 11).

Ebraismo laicista

Ma il suo ebraismo come quello dei suoi genitori non era accompagnato da nessuna pratica religiosa, tutto in lui è contrassegnato da una grande laicità. Levrero scrive: «La tradizione culturale dei Milani è rigorosamente laica, quando non esplicitamente anticlericale; le radici culturali della stessa Alice Weiss [la madre di don Lorenzo, ndr] non sono accompagnate da nessuna pratica religiosa. È, tuttavia, a séguito di alcuni episodi di intolleranza, in particolare nei confronti del figlio Adriano sui banchi dell’istituto religioso da lui frequentato, che Albano Milani decide di confermare con un rito cristiano la unione civile con Alice Weiss e battezzare i propri figli. L’eco dell’ascesa politica del partito nazista di Hitler in Germania e i suoi proclami antisemiti, ma anche l’antisemitismo strisciante del fascismo italiano suggeriscono questa opzione. […]. Il 29 giugno 1933 ha luogo quello che Lorenzo Milani anni più tardi definirà battesimo fascista”» (cit., p. 24), perché il suo è stato un battesimo per difendersi dalle Leggi razziali e non per diventare cristiano.

Dal battesimo di convenienza alla vocazione

Circa 10 anni più tardi, nel giugno del 1943, Lorenzo Milani conosce il sacerdote don Raffaele Bensi, insegnante di religione in alcuni licei di Firenze, molto noto tra i giovani della città toscana; è allora che Lorenzo si converte al cristianesimo (il battesimo, come abbiamo visto, era stata una pura formalità), matura la decisione di diventare sacerdote e nel settembre del 1943 entra nel seminario di Firenze.

Alcuni autori si chiedono se sia “possibile considerare l’esperienza di Milani, prete nella Chiesa cattolica, prescindendo da quell’appartenenza al popolo ebraico che gli deriva dalla sua famiglia” (F. Braccini – R. Taddei, La scuola laica del prete. Don Milani, Roma, Armando, 1999, p. 185). Certamente la famiglia Milani-Weiss è religiosamente agnostica, lontana dall’ortodossia ebraica e cristiana. Ma l’ebraismo, nell’Europa degli anni trenta e Quaranta del Novecento, non è soltanto una religione, è l’appartenenza ad un popolo, che viene visto da Lorenzo come il povero, il debole, l’operaio, di qui la sua pedagogia pauperistica. Perciò Mario Gennari ritiene che Lorenzo non possa “non aver riflettuto sulle proprie origini giudee […] appunto in ragione del clima politico antisemita in cui era avvenuta la sua formazione di adolescente” (M. Gennari, L’apocalisse di don Milani, Milano, Scheiwiller, 2008, p. 23).

Il cammino di Lorenzo divenuto sacerdote è tra i poveri, che gli ricordano il suo popolo oppresso, “ed accentua il bisogno di riconoscere la propria filiazione al popolo ebraico” (P. Levrero, cit., p. 47).

Il dialogo con le “periferie”

È proprio “la sua sensibilità di convertito, ma anche il percepire la propria ebraicità che fa di Milani un sacerdote attento all’urgenza di tessere un dialogo culturale e spirituale con coloro che chiama i ‘lontani’. È la storia a suggerirgli l’esigenza del dialogo coi lontani: comunisti, ebrei, protestanti” (cit., p. 48). Tutto ciò lo porta a scrivere: “Noi preti poi abbiamo necessità (e ne avremo sempre di più) di imbeverci di cultura semitica” (L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1958, p. 419). Don Lorenzo dichiara all’amico Giordano Pecorini di essere “mezzo ebreo” e ciò lo porta a “costituire la propria esistenza, ma anche la propria fede cristiana nel retaggio ebraico” e di scorgere “l’umanità di Gesù nella sua radice ebraica” (cit., p. 49). Inoltre afferma di sentirsi di parte giudaico-pluto-demo-massonica” (ivi) e riconosce nei poveri di Calenzano (dove sarà parroco dal 1947 al 1955) e poi di Barbiana (in cui sarà parroco dal 1955 alla sua morte avvenuta nel 1967) la sua personalità e vocazione “cristiano-calenzanese-ebraico-proletario-operaia” (cit., p. 51).

Giorgio La Pira diceva di lui: “Don Milani è un vero ebreo, ha la sensibilità degli ebrei, ha una radice ebrea a cui non ha mai rinunciato, per cui io mi sento particolarmente vicino proprio per questo aspetto” (cit., p. 53).

Puntigliosità talmudica

Attenzione! L’ebraismo di don Milani non è quello veterotestamentario perfezionato dal Nuovo Testamento, ma è quello talmudico o post-biblico. Tullio De Mauro scrive: “Milani adempiva la Costituzione con il rigore e la puntigliosità tipici della tradizione talmudica. Credo che nelle letture dei suoi testi di prete cattolico, ma anche nella lettura dei testi laici vi sia una vera e propria attitudine che chiamerei talmudica. […]. Credo che in don Milani ci sia questa radice israelitica, anzi vorrei dire più precisamente, talmudica. […]. Ecco, io vi propongo di vedere in don Milani un cattolico israelita, col rigorismo intellettuale talmudico rabbinico e col profetismo della tradizione israelitica” (T. De Mauro, Quel che c’era intorno a don Milani, in Segno, n. 187, 1997, pp. 7-15).

I poveri di Calenzano e Barbiana gli offrono la “possibilità di riappropriarsi del suo originario ebraismo come uomo e cristiano convertito tra i poveri” (cit., p. 56). La stessa scuola di Calenzano/Barbiana è intesa da don Milani come una scuola ebraica: “Milani si fa interprete di un ebraismo laicizzato che costituisce l’architettura intima della sua scuola. Nell’essere una scuola della parola, o, per sua stessa ammissione, ‘Parola scuola’, essa diviene luogo pedagogico affine alle yeshivot - le scuole rabbiniche -  della tradizione ebraica” (cit., p. 62).   L’ebraismo talmudico laicizzato e il “cristianesimo” laicista di don Milani sono l’architrave della scuola di Calenzano/Barbiana (cfr. L. Milani, Esercizi pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1958, p. 237).

L’ebraismo di don Lorenzo è un ebraismo laicizzato, assimilato ed emancipato, che fa del laicismo il principio e fondamento della sua scuola e del suo modo d’insegnamento. Le radici ebraiche di don Milani non sono essenzialmente religiose veterotestamentarie, ma son soprattutto immanentistiche, talmudiche, cabalistiche (cfr. G. Scholem, Il nome di Dio e la teoria cabalistica del linguaggio, Milano, Adelphi, 1998; Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino, Einaudi, 1993; M. Claravezza, La mistica della formazione nel Sefer Yetzirah, Genova, Diss., 2009; G. Busi, La qabbalah, Bari, Laterza, 1998; G. Busi – E. Loewenthal, Mistica ebraica, Torino, Einaudi, 1995).  La scuola milaniana è contrassegnata dallo studio con il quale il maestro e gli allievi si emancipano e si liberano da ogni autorità ed assumono la coscienza del proprio “Io” e della società come somma dei diversi “Io”. Don Milani “prete e rabbino insieme, avverte il dovere di laicizzare la conoscenza e […] riconosce nella civiltà moderna lo scontro frontale tra le classi sociali, come prete e come maestro si schiera dalla parte di quella classe sociale la cui identità soggettiva non è data dal proletariato bensì dal povero, dall’ultimo, dall’emarginato, dal respinto, da colui che è bocciato dalla scuola borghese” (cit., p. 95), poiché nel povero don Milani vede il suo popolo: Israele.

Fede nella Chiesa?

La sua fede nella Chiesa è assai problematica se si pensa a quanto ha scritto all’amico Giordano Pecorini: “Se non faccio mai discorsi spirituali ed elevati è perché non li penso e non ci credo” (Don  Milani? Chi era costui?, Milano, Baldini & Castoldi, 1996 , p. 146). Inoltre si legge nei suoi scritti: “Non potrei vivere nella Chiesa neanche un minuto se dovessi viverci in atteggiamento difensivo. Io ci parlo e ci scrivo nella più assoluta libertà di parola” (Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Milano, Mondadori, 1970, p. 133).

Epilogo

Paolo Levrero conclude così il suo libro: “Dunque, Milani prete ebreo. Milani, rabbi e maestro. Milani ebreo errante. Con il senso profondo della storia e la capacità di costruire utopie” (cit., p. 122).

In effetti, sì. Le utopie di don Milani sono principalmente due: 1°) il giudeo-cristianesimo, che è una contraddizione in terminis e come tale è utopico volerlo realizzare; 2°) l’educazione senza metodo, che si basa sull’amicizia e l’eguaglianza tra allievo e maestro, la quale non può portare frutti di vera conoscenza nei discenti e di vera formazione educatrice da parte degli insegnanti. Tutte le altre utopie, enumerate nel corso dell’articolo, derivano specialmente dalla prima

Purtroppo don Milani ha percorso queste due vie sino in fondo e quel che è ancor più triste è la sua “canonizzazione” da parte di Bergoglio, che lo mostra come esempio da seguire, mentre sarebbe piuttosto da evitare.

La sua dottrina e la sua vita son piene di rivolta e odio di classe, d’insubordinazione ad ogni Autorità (civile ed ecclesiastica), di indipendenza assoluta, di mancanza di spirito didattico, di laicismo e soprattutto di confusione teologica, la quale oscilla tra il cripto-giudaismo e il giudeo-cristianesimo.

In quest’epoca di confusione dottrinale e morale, la persona di don Milani aggiunge un nuovo tassello alla costruzione del caotico Nuovo Ordine Mondiale quale autostrada al Regno dell’Anticristo e nello stesso tempo ci mostra come il parossismo cui è arrivata la a-teologia di Bergoglio faccia un tutt’uno con il Concilio Vaticano II e l’immediato post-concilio della “Antica Alleanza mai revocata” (Giovanni Paolo II, Magonza, 1981) e degli “Ebrei fratelli maggiori dei cristiani nella fede di Abramo” (Giovanni Paolo II, Tempio maggiore di Roma, 1986).

Giustamente San Tommaso d’Aquino, ripreso da San Pio X, diceva: “Parvus error in principio fit magnus in termino / Un piccolo errore iniziale diventa grande al suo termine”.

d. Curzio Nitoglia



1] F. Spadafora, San Paolo: le Lettere, Genova, Quadrivium, 1990, p. 30.

2] Suo padre Albano Milani, ebreo di origine toscana, nel 1919 sposa Alice Weiss, ebrea di origine boema, facente allora parte dell’ebraismo triestino, molto propenso all’assimilazione e all’integrazione, che soprattutto dopo l’alleanza tra Germania e Italia sentì crescere “il ricorso alla conversione al cristianesimo” (cit., p. 18), ma sempre in una forma secolarizzata, impregnata di agnosticismo e aperta ai matrimoni misti. La signora Weiss era di origini askenazite da parte di padre, mentre da parte di madre era sefardita (cfr. L. Milani, I care ancora. Lettere, progetti, appunti e carte varie inedite e/o restaurate, Bologna, Editrice Missionaria Italiana, 200, p. 396 ss.).


 
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