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Berlino non ha più bisogno dell’euro
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Questa è letteralmente la conclusione di uno studio del Xerfi, importante istituto di analisi economica francese. Il titolo del dossier , che può essere letto integralmente, è «L’UE, plateforme de production de l’économie allemande».

Il succo è in poche cifre, dati impressionanti perché oggettivi. Nel 2007, la Germania realizzava il 65% del suo eccedente commerciale in Europa (36% nell’eurozona, il 29% nel resto della UE non ancora nell’euro), e solo il 35% fuori dalle UE. Negli ultimi 12 mesi, la situazione è platealmente rovesciata: la Germania oggi realizza il 74% dei suoi profitti da export fuori dell’Europa, e solo il 5% entro la zona euro, più il 29% nel resto della UE.

Il saldo intra-UE s’è ridotto di 77 miliardi di euro, mentre quelli al difuori è aumentato di 70 miliardi. La zona euro non rappresenta più che il 37% degli sbocchi per la Germania (contro, per esempio il 47% della Francia).



Questo rovesciamento epocale non è neutrale per la moneta unica. Quando la Germania aveva il grosso del suo export e dei suoi eccedenti in Europa, aveva un ovvio interesse a restare nella zona euro, e a tenerci a forza i concorrenti. Oggi, con la maggioranza dell’eccedente realizzato fuori della zona-euro, la prospettiva di uscirne diventa per Berlino più allettante. Certo, il marco si rivaluterebbe e ciò avrebbe contraccolpi sul suo export; ma il danno sarebbe in qualche modo compensato dal fatto che Berlino risparmierebbe del tutto i costi della «solidarietà europea», ossia i trasferimenti che – se dovesse accedere all’idea di «più Europa» – dovrebbe versare annualmente ai Paesi in difficoltà per sostenerne le economie. È una cifra che, ad essere ottimisti, è stata valutata a 80 miliardi di euro annui, pari al 3% del Pil tedesco. E quasi certamente di più. (Variant Perception – A Primer on the Euro Break-Up)

Il calo – bisognerebbe dire il crollo – di 77 miliardi dell’eccedente germanico nella zona euro come si spiega? Con la recessione nei Paesi periferici, ex concorrenti. Una tabella di Xenofi mostra che in realtà, la quota della Germania nelle esportazioni in seno alla UE è rimasta completamente stabile: era il 22% nel 1999, è il 22% nel 2012. È la parte di Francia, Regno Unito ed Italia (i tre Paesi industriali) che si è ristretta: nel 199 era al 33%, oggi è al 23%. Da notare che la quota dei Paesi dell’Est (sigla PECO nella tabella) è nel frattempo più che raddoppiata, dal 6 al 15%. Così anche i Paesi Bassi, satelliti economici di Berlino, sono passati dall’11 al 14%. L’Italia, che aveva il 9% nel 1999, oggi è ridotta al 7. Ma la Francia ha perso ancora di più: dal 13 è passata al 9%.

Dallo studio si apprende anche che la Germania non ha aumentato le sue esportazioni nell’UE dal 2007, mentre da lì importa più di prima, 79 miliardi. Ciò perché si amplia il divario di crescita fra la Germania, che continua, e gli altri Paesi, che sono in recessione o meglio in depressione. È un relativo beneficio per gli esportatori degli altri Paesi, che piazzano più delle loro merci in Germania, mentre per gli esportatori tedeschi gli sbocchi si restringono.

Xerfi dimostra che la Germania si è costruita una posizione dominante industriale in Europa, utilizzando gli altri Paesi come sub-fornitori del proprio apparato industriale per migliorarne la competitività globale, senza più preoccuparsi del mercato europeo dato che i suoi elementi di crescita e di avanzo sono realizzati altrove. Ciò mentre ha accentuato la marginalizzazione delle tre altre potenze industriali, Francia Italia e Gran Bretagna, di cui abbiamo visto il mercato intra-EU affossarsi in soli 13 anni, rispettivamente da 13 a 9%, da 9 a 7, da 10 a 6.

«La Germania sta trasformando lo spazio europeo in base arretrata delle sue esportazioni oltre la frontiera europea», approfittando della riduzione dei costi salariali unitari nella zona euro, imposti dall’austerità e recessione conseguente. Sotto la moneta unica forte, gli altri Paesi vedono «distruggere la loro integrità produttiva», e diventano sempre più vassalli. Ma – guidati da politici del tipo che conosciamo bene – essi fanno di tutto per tenerci attaccati all’euro tedesco. È invece la Germania che diventa via via più indifferente all’eventuale fine della moneta unica.

Naturalmente, contro l’uscita militano buone ragioni per i tedeschi. Molto solide. Berlino ha coperto i deficit degli altri Stati con i propri surplus, le sue banche hanno prestato agli altri Paesi dell’eurozona 3 mila miliardi di euro; se l’euro si rompesse il nuovo marco, rivalutatissimo, configurerebbe una enorme perdita di capitale per la Germania. È per questo che il sistema di «svalutazioni interne» (tagli ai salari) che ha imposto ai Paesi in crisi (suoi sub-fornitori) è la situazione meno peggiore per la Germania, mentre per la stessa ragione è la soluzione peggiore per i Paesi in crisi, perché vi distrugge aziende e posti di lavoro, anche se (impossibile) riuscissero a stroncare il loro deficit commerciale distruggendo la domanda interna.

Per esempio l’Italia: una volta distrutte le sue capacità produttive, anche se la domanda interna ripartisse, lo farebbe accrescendo di nuovo il deficit commerciale a favore... delle industrie tedesche (o cinesi o polacche, coreane…) di cui tornerebbe ad acquistare le merci, facendo di nuovo crescere l’eccedente tedesco (e cinese, coreano, polacco...).

Non c’è dubbio però che la classe politica e quella industriale tedesche stanno riservatamente soppesando con molta attenzione – contrariamente ai nostri politicanti da avanspettacolo – i pro e i contro. E guadagnano tempo, mentre i nostri si cullano nel sogno di «più Europa», di un federalismo europeo completo dove – in cambio della rinuncia totale alla nostra sovranità – la Germania dovrebbe aderire alla «transfer union», ossia colmare le falle degli Stati meno favoriti, come in Usa, poniamo, la California appiana le perdite croniche del Midwest.

Sperare che i tedeschi accettino un simile federalismo in cui sarebbero loro a dare, è la più inetta delle utopie e la più idiota delle ideologie che abbiano mai ossessionato l’Europa, che pure di utopie feroci e stupide s’è nutrita a iosa (vedi marxismo).

Lo si è visto anche nell’ultima riunione dei ministri delle finanze europoidi di sabato 2 giugno: doveva essere il primo passo per costituire l’«unione bancaria», nuove regole per «salvataggi bancari» solidali e comuni. Dopo 18 ore di negoziati, nulla di fatto. Non è che Berlino dica no, tira in lungo e ci lascia sulla corda. Il tempo è a suo favore, mentre è contro di noi.



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