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C’è un doppio Bergoglio? (parte II)
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Bergoglio, una questione forse dirimente

I Francescani dell’Immacolata sono (erano) l’ordine religioso più giovane e il solo, di questi tempi, con vocazioni in tumultuosa crescita: dicono 700 tra frati e suore, tutti giovani. Il motivo, l’adozione più rigorosa della povertà francescana e la liturgia antica. Nel luglio, papa Bergoglio ha firmato un Decreto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata, col quale: destituisce il fondatore ottantenne di questo ordine; vieta loro in perpetuo la celebrazione della Messa in latino; sottopone l’ordine a commissariamento, imponendo per sfregio ulteriore che sia l’ordine (poverissimo) a provvedere al «rimborso delle spese sostenute dal Commissario e dai collaboratori da lui nominati» oltre «un onorario per il loro servizio»: come si fa, nel diritto fallimentare, per una ditta sottoposta ad amministrazione controllata.

Il modo della destituzione del fondatore, padre Manelli, fa pensare che lo si accusi di gravissimi delitti, disonorevoli. Quali? Non si sa. Il decreto non contiene alcuna motivazione «che riguardi propriamente né la fede, né la morale, né la disciplina», secondo De Mattei, Palmaro ed altri firmatari di una protesta. Il vaticanista Tornielli allude invece a un questionario sottoposto a frati e suore con voti perpetui dal visitatore apostolico, e in cui il 61% hanno criticato «lo stile di governo» di padre Manellli, e il 64% «hanno problemi» con la decisione di p. Manelli di estendere a tutto l’Istituto l’uso della messa antica. Tornielli dice anche che «la messa antica nelle chiese officiate dai Francescani dell’Immacolata continua a essere autorizzata là dove vi siano gruppi stabili di fedeli che la seguono, come previsto dal motu proprio «Summorum Pontificum» di Benedetto XVI.

Non mi attento ad entrare in una situazione per cui non ho dati. Dico solo: fortuna che non si sottoponevano questionari ai frati minori nel XIII secolo, subito dopo la morte di San Francesco (quello vero), quando già emerse la frattura fra spirituali e conventuali. Ed anche: come sarebbe interessante un sondaggio del genere sul grado di soddisfazione delle famiglie neo-catecumenali per i loro coloriti fondatori Kiko & Carmen, e lo «stile di governo» – dicono alquanto pesante sui sottoposti, schiacciati da delazioni interne e confessioni pubbliche – dei suddetti fondatori. Ma niente, i neocat sono «progressisti», la loro fanta-liturgia è «moderna», e inoltre in Israele ballonzolano coi Lubawitcher attorno alla Torah... senza contare che danno molto soldi ai vescovi locali, il che li rende specialmente ben accetti quando occupano le parrocchie.

Resta il sentimento che, in quelli dell’Immacolata, sia stata proprio la messa in latino che si sia voluto stroncare, e approfittando di un sondaggio e di un questionario, sia stato abolito il Motu Proprio di Benedetto, che – ricordiamolo – non sottoponeva quella messa ad alcuna «autorizzazione» dei superiori. Qui invece, essa viene normalmente vietata, e concessa per eccezione, su autorizzazione.

Si è fatta gravare l’accusa di scarso «sensus ecclesiae» per i francescani celesti. Perché, era superiore il «sensus ecclesiae» di don Gallo? Eppure il suo funerale è stato celebrato dal vescovo nonché presidente della CEI, che in quello ha distribuito Comunioni a un noto travestito mai confessato né penitente. E siamo proprio sicuri sul «sensus eccleasiae» dei neocatecumenali, e di certi altri movimenti carismatici confluenti nel protestantesimo dello Spirito? E di Vito Mancuso? Se il Papa vuole, c’è pronta una lunga lista di personalità e movimenti di cui vorremmo chiedere «alli superiori» di misurare il «sensus ecclesiae», onde regolarsi. Ma temiamo di sapere già la risposta: sbuffi spazientiti. «Rieccoli, questi che accusano tutti gli altri di eresia! Questi che si attaccano a parole! Questi eticisti moralisti ma senza bontà». E nessuna risposta, non la meritiamo perché siam quelli che vogliono «la chiesa chiusa» e tenersi «la chiave in tasca». Dunque privi di «Sensus Ecclesiae», va da sé.

Ma non potreste, di grazia, definire che cos’è il «sensus ecclesiae»? Altri sbuffi di impazienza ed esasperazione: «Ancora voi, con le vostre vecchie pretese di definizioni, di frasi esatte! Legati al tomismo, alla logica aristotelica e formale! Questi non pregano, abbandonano la fede e la trasformano in ideologia moralistica, casuistica, senza Gesù».

È una tattica che abbiamo imparato a conoscere, dopo tanti decenni di (inutili) lotte: l’hanno sempre usata i comunisti. Osavi denunciare i crimini di Stalin, l’oppressione sovietica e il Gulag? «Lo fai perché vuoi la schiavitù dei lavoratori, sei complice del capitalismo sfruttatore! E noi non ti ascoltiamo». I comunisti avevano sempre ragione perché, loro, erano «l’avanguardia del proletariato» e dunque della storia, mentre noi eravamo la reazione. E chi lo decideva? Loro, con l’egemonia culturale, decidevano i reprobi e gli eletti. Lo studio di mille eresie e decine di rivoluzioni ci ha reso consci di questo metodo rivoluzionario. Gioachimiti ed altre sette irrompevano nella storia annunciando: «Basta con le leggi scritte! Da adesso, è in vigore il Regno di Dio, e l’unica sua legge è l’Amore!». E in nome dell’Amore, mai ben definito, procedevano a sbudellare preti, violare suore e ammazzare piccoli proprietari terrieri, che pretendevano di chiamare la polizia anziché dividere il loro raccolto coi nuovi cristiani («La proprietà è un furto!»), e dunque mancavano di «carità», erano «egoisti» e «superbi». Oltreché delittuosamente attaccati alle norme formali, ai diritti ben definiti, anziché alla legge dell’Amore che tutto comprende. I novatori del Concilio hanno usato lo stesso trucco, sotto forma di «profezia» e «profetismo»: qualunque abuso liturgico, qualunque negazione della Tradizione era «gesto profetico», che faceva già tralucere il luminoso futuro, il futuro dove non ci sarebbe stata più altra legge, canone o dogma, che la legge dell’Amore.

Ora, Santo Padre, questo «sensus ecclesiae» mi sembra un po’ come l’Amore dei gioachimiti e rivoluzionari in genere, conciliari esclusi: se non viene definito con un enunciato formale, esso è una (vecchia) arma ideologica. Se si domanda: «Chi decide del sensus ecclesiae»? La risposta è: «Chi ha il potere nella Ecclesia». Da qui si vede la sua natura ideologica : è un arnese di potere. Definirlo, lascerebbe spazi di libertà che si vogliono invece negare ad libitum, o concedere ad arbitrio.

So fin troppo bene che il Papa non ascolterà tale argomento. È questo il guaio: noi, diciamo, critici del Concilio, studiamo i loro testi, ascoltiamo i loro argomenti, per controbatterli; i novatori invece non leggono i nostri ragionamenti e le nostre denunce, li trovano «reazionari», privi di senso della Chiesa, formalisti senza amore, e dunque da non conoscere, non sapere. Il tanto celebrato «dialogo» è, in questo modo, a senso unico. Lo era anche con i comunisti....

Magari la punizione dei Francescani dell’Immacolata è giustissima. Ma abbiamo qui un Papa che confessa lui stesso di essere «autoritario ed impulsivo». Che non gli venga il dubbio di avere stroncato la santa libertà cristiana di centinaia di giovani e migliaia di loro fedeli-ammiratori e familiari? Di avere spento un carisma? Con il rischio di aver messo a tacere lo Spirito? Speriamo che passato il primo impulso, forse riconsideri.

È singolare constatare quali ragionamenti, invece, il caro Papa ascolta; da quali argomenti si sente sollecitato a rispondere, a spiegare e chiarire cordialmente e pubblicamente, invece di colpire in segreto. Il carteggio con Eugenio Scalfari ne dà alcuni esempi stupefacenti.

Scalfari ha posto delle domande al papa, alle quali ha voluto risposta. Quali?

«... Anzitutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede». E poi: «mi chiede se, con la scomparsa dell'uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio».

L’assurdità della prima frase salta agli occhi, o dovrebbe. Scalfari vuol sapere se «il Dio dei cristiani» – al quale lui beninteso non crede – «perdona chi non crede e chi non cerca la fede». Di fatto, cioè, vuol sapere se Dio perdona lui: perché se Dio per caso ci fosse, lui vuol salvarsi senza fede e senza cercare la fede. Con tutta la pietà cristiana che merita questa rivelazione di una certa paura dell’aldilà, è una vera idiozia scalfariana.

Nell’altra frase, Scalfari spazia nell’iper-uranio ed oltre la storia, nella grandiosità rarefatta e semi-divina che gli compete in quanto Epulone-Fariseo di successo. Perché, diciamolo, ad un uomo normale, cosa gliene frega di sapere se «dopo l’uomo scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio»? Lui personalmente, scomparirà molto prima...

Ah sì, c’è una terza domanda: «Lei mi chiede anche che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto?». Essa unisce l’assurdità della domanda 1) alla vacuità presuntuosamente «teologica» della domanda 2): che cosa gliene infischia a Scalfari, se la promessa di un Dio – a cui non crede – agli ebrei è andata o no a vuoto? Di che cosa s’impiccia? Perché questi atei non si soddisfano di fare, semplicemente e rettamente, gli atei?

Sa cosa gli avrebbe detto un vecchio gesuita che ho avuto la sorte di conoscere? «Senta, dottor Eugenio: lei è troppo vecchio per porre domande da ginnasiale che crede di provocare l’insegnante di religione. Lei ha novant’anni. Fra poco morirà, e non si porterà là né i suoi 200 milioni né il codazzo di adulatori che la fanno sentire un genio, un importante intellettuale-affarista, un arrivato. Pensi all’anima sua che è in pericolo eterno, come indovino lei sospetti; se quello che vuole è confessarsi, sono qui. Per lei, in ogni momento del giorno e della notte. E spenda alcuni dei suoi ormai inutili milioni a fare qualche gesto di carità, che sarò ben lieto di indicarle. Ricorda la favola della tirchia vecchina che in vita sua donò una volta sola una cosa ad un affamato, ed era una cipollina...?».

Certo, questa risposta non avrebbe fruttato la pubblicazione su Repubblica con il bel clamore pubblicitario conseguente, anche se magari avrebbe messo sulla buona strada il vecchio ateo così pauroso dell’appuntamento con la morte.

Invece, il gesuita Bergoglio prende le domande di Scalfari per il loro valore facciale, ossia come se non ne sottintendessero l’altra, inconfessabile dal principe dei laicisti. (E pensare che una volta i gesuiti erano fini psicologici); si profonde in cordialissime spiegazioni – cordialità negata al fondatore dei Francescani dell’Immacolata – in cui cerca di venire incontro in ogni modo alle concezioni dello Scalfari, quasi volesse dimostrargli che le sue idee, dopotutto, non sono veramente diverse da quelle della Chiesa...

E così, arriva a dare una risposta che autorizza i peggiori sospetti – o fraintendimenti. È la più fondamentale e provocatoria delle domande di Scalfari: «Il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, è un errore o un peccato?»

Tutto compiacenza, Francesco risponde: «Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l'amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc».

Dopodiché, beninteso, Francesco aggiunge subito: «Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt'uno con l'amore, richiede l'umiltà e l'apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione».

La buona intenzione è evidente; vuole escludere il soggettivismo. Al quale, ahimè, ha appena aperto nella risposta sulla libertà assoluta della coscienza «per il non credente». Sicché, i «tradizionalisti» protestano ad alta voce: negare la verità assoluta è eresia. Del resto, già parlare in questi termini («non esiste verità assoluta» ) significa accedere alla terminologia relativista; ciò che importa non è se la verità sia «assoluta» ossia slegata, bensì se la Verità divina sia oggettiva, ontologicamente indipendente dall’uomo che la pensa. È questo che Scalfari e i suoi simili negano. Francesco, tutto compiacenza, spera di venire incontro a loro affermando che la verità è «relazionale». «La verità è una relazione!». Il famoso incontro personale con Cristo, per cui quelli che non credono sono degli sfortunati che «non hanno fatto l’esperienza»... la neo-teologia conciliare, insomma.

Ma come la intendono costoro, i laicisti? La verità «relazionale», la negazione della verità «assoluta» richiama per loro quella filosofia chiamata «idealismo tedesco», da Kant ad Hegel a Marx e seguaci: la più anti-tomistica delle pseudo-filosofie, a cui il secolo XX deve le sue rovine. L’idea che la realtà esterna, il mondo, non esiste «fuori della mente», e che esso viene «fabbricato» dallo spirito dell’uomo.

Trovo una delle più radicali enunciazioni di questa filosofia tedesca in Schopenhauer:

«Nessuna verità è meno bisognosa di prova di questa: che tutto ciò che è capace di essere conosciuto, in altre parole il mondo intero, non è altro che un oggetto che esiste in relazione ad un soggetto, la vista di un osservatore; in una parola, è il prodotto dell’immaginazione». Da cui la conclusione schopenhaueriana: «Il mondo è la mia Volontà» (1).

Ovviamente, si tratta della Volontà di Potenza, di cui questa asserzione è l’apoteosi, e da cui discende il totalitarismo. È la teoria anticristica che ha cancellato il pensiero greco e di San Tommaso, che è «realista»: la realtà esiste, e l’uomo non può che sottomettervisi, perché è oggettiva. Ecco cosa succede a credere che il tomismo sia una scoria superata, di cui il Cristianesimo può fare a meno per «andare incontro all’uomo».

I «tradizionalist» gridano: Papa eretico! e naturalmente, tutti gli altri difendono il Papa e condannano loro. Ma arriva un noto intellettuale laico, l’olandese Ian Buruma, e scrive un autorevole commento su Repubblica, in cui... dà ragione ai tradizionalisti. Ecco infatti come Buruma ha inteso gli interventi del Papa sulla medesima Repubblica. Il Papa ci ha insegnato che «non è poi necessario che Dio o la Chiesa ci dicano come dobbiamo comportarci. Basta la nostra coscienza». E poi: «Nemmeno i protestanti più devoti si spingerebbero tanto lontano. I protestanti si sono limitati ad eliminare i preti in quanto tramite tra l’individuo e il suo creatore. Le parole di papa Francesco lasciano pensare invece che quella di eliminare lo stesso Dio potrebbe rappresentare un’opzione legittima».

Per forza i radical-chic applaudono tanto Francesco, come hanno applaudito il loro cardinal Martini: «nemmeno i protestanti si sono spinti a tanto». Così almeno interpretano lorsignori le asserzioni papali: nel neo-cristianesimo, si può «eliminare Dio». Finalmente, era ora. Basta con questa Realtà Assoluta! La realtà è relativa; dipende se uno ha la fortuna di «incontrare Dio», che esiste solo finché l’uomo lo pensa...

Naturalmente è una interpretazione di comodo, abusiva. I papolatri si affannano a dar sulla voce ai tradizionalisti indignati: ma Francesco non voleva affatto dire questo! Lui alla Verità crede! E il bravissimo Socci ce ne dà anche la prova: scrive che, ricevendo «una delegazione della comunità ebraica di Roma, Francesco ha insistito a chiedere una collaborazione col mondo ebraico sui principi morali, indicandone la base nella “testimonianza alla verità delle dieci parole, il Decalogo”. I Dieci Comandamenti, ha detto il Papa, sono “solido fondamento e sorgente di vita anche per la nostra società”, indicandone dunque la validità anche per la vita sociale e politica. Ha sottolineato che del Decalogo, legge consegnata da Dio a Mosè sul Sinai, c’è estremo bisogno perché la società del nostro tempo è “così disorientata da un pluralismo estremo delle scelte e degli orientamenti, e segnata da un relativismo che porta a non avere più punti di riferimento solidi e sicuri”».

Bene, o meglio benino (ci sarebbero obiezioni, ma tralasciamo). Francesco ad Judaeos parla delle verità dei dieci comandamenti; perché Francesco ad Republicam non ha detto la stessa cosa? È colpa dei tradizionalisti che vogliono «tenere la chiesa chiusa e le chiavi in tasca»? Forse è il Francesco 1.0 che deve mettersi in relazione con Francesco 2.0. O fors’anche conversare meno come persona privata. I vecchi Papi di una volta mantenevano l’austera, monarchica distanza dal mondo, e parlavano per encicliche e lettere apostoliche, anche perché i limiti della loro persona privata, umanissima, non oscurassero la pubblica funzione sacra di «Petrus», che stavano rivestendo.

Don Curzio Nitoglia, esasperato, ritiene addirittura che lo faccia apposta. «Papa Bergoglio ogni giorno, come una valanga inarrestabile, parlando come dottore privato, durante le omelie della sua messa privata, concedendo interviste e soprattutto agendo in maniera sovvertitrice dell’ordine sociale e religioso e della dignità papale, demolisce ciò che dopo il Concilio Vaticano II, miracolosamente, era rimasto – pur se malamente – ancora in piedi. Egli vuole fare il Vaticano III senza convocare, celebrare, dibattere e confermare un Concilio, nemmeno “pastorale”; sarebbe troppo “dottrinale” e “teoretico” per il suo spirito “pragmatico”. Il rimprovero che Küng, Schillebeckx, Metz, Boff, Gutierrez, Martini muovevano a Paolo VI, a Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI (aver bloccato lo spirito del Vaticano II) è condiviso in pieno da Francesco I, il quale riprende la loro obiezione ed asserisce di volere portare sino alle ultime conseguenze il “Vaticano II” operando, senza teorizzare (non dico “dogmaticamente” ma neppure “pastoralmente”), una sorta di “Vaticano III” (...). Questo era il piano della Massoneria: “un Papa secondo i nostri desideri, che non sia iscritto alla Setta, ma ne abbia lo spirito e faccia lui la Rivoluzione in cappa e tiara”». (Introduzione a Mistero d’iniquità, EFFEDIEFFE edizioni, 2013)

Ammiro la fortezza, la dottrina e il coraggio di don Curzio, e gli riconfermo la mia stima, ancor aumentata dopo il caso Priebke. Però, a spingere in fondo la sua logica (stringente) si deve concludere una cosa sola: il Papa è l’Anticristo – o qualcosa di simile.

Può esserci un Papa eretico? Può essere il Papa l’Anticristo? In questi tempi ultimi, è una domanda (purtroppo) di cui non dobbiamo aver paura. Personalmente penso di no, perché verrebbe meno la promessa – garanzia – di Cristo, per il quale «le porte dell’inferno non prevarranno» sulla Chiesa. Ma su questo attendo lumi da chi sa di più, perché è un tema che non ho studiato, né sono un teologo né canonista, ancor meno un santo ispirato dal Cielo. Sono un giornalista, cioè un esperto di politica, e temo – come giornalista cristiano – di essere corresponsabile dello scisma che sento venire. Lo temo per la mia anima, perché me ne sarà chiesto conto («anche» di questo, ci mancherebbe), e perché questo fu l’errore politico di monsignor Lefebvre: uscire. Da allora, la sua creatura ha prodotto molti bei sacerdoti, che si dividono continuamente sui punti della dottrina, in un frazionismo che pare difficile smettere.

Mi tocca dar ragione a Massimo Introvigne, quando avverte minaccioso: «Per stare nella Chiesa occorre camminare con i Papi e farsi guidare dal loro Magistero quotidiano. Fuori di questo cammino stretto c’è la strada larga che porta allo scisma» invitando i detrattori di Bergoglio a rendersi conto che «è possibile che Papa Francesco avvii ulteriori riforme nella Chiesa, che il cattolico fedele dovrà accogliere con docilità e insieme cercare di leggere non contro gli insegnamenti dei precedenti Pontefici ma tenendo conto di essi».

Nella Chiesa si sta – escano gli altri se mai. Si sta, criticando e protestando con retta coscienza e santa libertà, con filiale confidenza (a cui lo stesso Bergoglio ci autorizza, rinunciando alla sua maestà nei suoi colloqui con Repubblica) e filiale dolore, sopportando le innovazioni minacciate imminenti, come abbiamo sopportato da 40 anni la «decentralizzazione» del tabernacolo nelle chiese e dunque la dolorosa svalutazione del Cristo eucaristico, la Messa non più sacrificio ma «mensa» e cena, l’incultura, il pressapochismo dogmatico e la infinita dozzinalità neo-liturgica. Almeno fino a quando le innovazioni non superano un limite.

Quale? Potrebbe essere la consacrazione delle donne come sacerdotesse: perché con ciò, l’Eucarestia sarebbe nulla, il Pane non diverrebbe Corpo e Sangue, e davvero il sacrificio che fa della nostra «una religione diversa da tutte le altre» sarebbe vanificato. A quel punto si porrà il problema insuperabile: se l’attuale Papa sia ancora Pietro.

Mi stupisce che in questo così doloroso e pericoloso frangente, non si faccia attenzione ad un evento che per me è stato immenso: il Miracolo Eucaristico di Buenos Aires. Ne ho già parlato in breve. Nella chiesa parrocchiale di Santa Maria, Avenida La Plata 286, è avvenuto, non una ma due o tre volte, nel 1992, nel 1994, nel 1996. Lasciate in acqua perché si dissolvessero, le particole non si sono affatto dissolte, ma mutate in un lacxerto sanguinante. Analisi medico-legali hanno confermato che si tratta di muscolo cardiaco umano, vicino al ventricolo sinistro; che secondo il medico legale più importante degli Stati Uniti (dottor Zugibe) «il reperto è stato prelevato da un essere umano quando era ancora vivente», e in cui ancora palpitavano i globuli bianchi – non sapendo che quel che aveva sotto il microscopio era qualcosa che era rimasto dentro un tabernacolo già da tre anni. Secondo Zugibe, questo cuore è stato battuto e pestato con violenza, e appartiene ad una Persona che ha subito una intensissima sofferenza cardiaca. Il gruppo sanguigno è quello stesso del reperto di Lanciano, di otto secoli più antico.

Un miracolo eucaristico proprio a Buenos Aires. Proprio sotto gli occhi del vescovo cardinal Bergoglio: difficile evitare la sensazione che esso sia stato un messaggio per lui, il futuro Vescovo di Roma. Come mai di questo miracolo sconvolgente non si sa quasi nulla? Come mai se n’è avuto notizia solo perché ne hanno scritto dei giornalisti... australiani?

Quando un’ostia sanguinò a Bolsena nel 1263, l’evento ebbe risonanza eccezionale, il pontefice Urbano IV indisse la festa del Corpus Domini e la estese a tutta la Chiesa universale, i testi della liturgia furono scritti da Tommaso d’Aquino. A Buenos Aires c’è stato un volontario silenzio? Sembra che il silenzio e la discrezione l’abbia chiesta la comunità parrocchiale, forse per non venir travolta da folle alla Lourdes o Medjugorje. Il cardinale ha incoraggiato l’adorazione eucaristica in tutta discrezione e rispettato il silenzio. La parrocchia fornisce un comunicato sui fatti a chi arriva, in chiesa. (Milagro Eucarístico en la Ciudad de Buenos Aires)

È bene o male tacere? Forse è bene, perché la modernità sacrilega e indiscreta non profanasse con analisi ed esami quello che è il Cuore del nostro Salvatore (2). Ma certo, se l’avessi visto io, personalmente, non avrei saputo trattenermi; lo racconterei a tutti quelli che incontro, credenti o no, atei e laicisti dei miei stivali. «Parlate pure, voi, io ho visto il Suo Cuore!». Come gli apostoli, prima tremebondi e rinchiusi nel cenacolo, con una paura nera e i loro ridicoli nomi di battaglia dati loro dal Messia «Roccia, Figli del Tuono, Didimo» eccetera per una guerra partigiana che non sarebbe mai più avvenuta – e poi, visto Gesù incredibilmente risorto in corpo, sono usciti a gridare e proclamare la verità entusiasti, animosi, sfidando le fustigazioni, le catene e la morte – perché che cosa importa morire, dopo che «hai visto» che la morte è vinta, coi tuoi occhi?

Ebbene, come si sarà comportato Bergoglio? Secondo me è la domanda dirimente. Di fronte a un simile evento, ci sono due atteggiamenti possibili. Uno è quello del Grande Inquisitore di Dostoevski, che appena vede che Cristo è tornato nel mondo, lo fa arrestare – naturalmente per buonismo, per il bene dell’umanità, troppo debole per sopportare i suoi doni e la sua croce, e come disturbatore del programma di governo. L’altro è quello dell’apostolo Tommaso: che quando vede Maestro risorto e le sue ferite, gli mancano le gambe e cade in ginocchio, non riuscendo a dir altro che: «Mio Signore e mio Dio!». Fra quali dei due s’è comportato il vescovo di Buenos Aires e futuro Papa? Non voglio credere che abbia adottato l’atteggiamento del primo. E spero abbia adottato quello del secondo. Secondo me è la questione dirimente.

A me, personalmente, il Sangue di Buenos Aires, da quando l’ho saputo, dà la serenità per sopportare ed attendere che le cose si chiariscano, e scrivere di questa dolorosa situazione, anziché da disperato, persino con lieve umorismo. Mi dice: Cristo, fedelissimo alla Sua parola, continua a versare il suo Sangue per noi, ogni giorno. Egli non si è ritratto, è proprio come ci aveva promesso: «Io sono con voi fino alla fine del mondo». E il Suo corpo è vero alimento, il suo Sangue vera bevanda, precisamente come ha detto.

È tutto vero, alla lettera. E non è una «verità relazionale», ma realtà obbiettiva, persino brutalmente fisica, che distrugge ogni interpretazione «metaforica», spiritualista, gnostica, esoterica. È il Suppliziato che cola sangue. È la Realtà Assoluta, che non ha nulla di soggettivo, e ancor meno di immaginario, di inventabile dalla mente umana. Ora so che Cristo continua ad agonizzare per noi, sotto le mani di un sacerdote, in questa Chiesa, e comunque sia eventualmente infedele il sacerdote o il collegio sacerdotale tutto. Perché noi tutti possiamo – anzi siamo – infedeli, ma Lui è fedele. Quel che ha promesso, Lui lo mantiene. «Io sono la Via, la Verità e la Vita».

Nella tempesta, nella polemica, nella frattura, posso sentire che tutto ciò che avviene è volontà Sua, e che serve al Bene. Posso aspettare che il buon Francesco incontri la sua croce (3) che è il Papato di questi tempi (e forse da sempre). Intanto so che posso andare davanti al tabernacolo, che è stato messo in un angolo, e caderGli davanti: «Mio Signore e mio Dio!».

(2 - fine)




1) Schopenhauer A., Die Welt als Wille und Vorstellung (il mondo come volontà e come rappresentazioone). Citato da Michael Jones, Il ritorno di Dioniso – Musica e Rivoluzione culturale, EFFEDIEFFE, 2009, p.44.
2) Per lo stesso senso di rispetto, la Chiesa non ha mai permesso analisi scientifiche intrusive sul Sangue di Bolsena. Anche nel 1978 una richiesta di analisi fatta dal vescovo di Orvieto è stata respinta dal capitolo. Ovviamente ciò ha dato gran fiato ai professionisti dell’incredulità. L’antropologo marxista Alfonso Maria Di Nola ha supposto che la Chiesa avesse «creato» il miracolo per convincere della presenza reale di Cristo nel pane, che sarebbe stata contestata da clero e fedeli in maggioranza convinti – come tre secoli dopo i luterani – di una presenza solo simbolica. Una Johanna Cullen, definita ricercatrice della Georgetown University di Washington, suppone che l’evento si spieghi «facilmente» con la presenza di un batterio «molto comune», la serratia marcescens, che con clima caldo ed umido produce sul pane un pigmento rosso vivo, chiamato «prodigiosina». Se qualcuno ha constatato il prodursi «facile» di un simile fenomeno, è pregato di darcene notizia.
3) La mente ovviamente corre a Pio IX, Mastai Ferretti, salito al soglio nel 184 6 salutato da progressisti, illuministi e propaganda massonica come «progressista e liberale», e finito come il Papa del Sillabo, fra gli insulti e le diffamazioni di coloro che lo avevano esaltato. Reazioni di una volgarità rivoltante, da parte degli illuminati: «Un metro cubo di letame» per Garibaldi. «Cittadino Mastai, bevi un bicchier!», lo irrideva con frase da osteria il Carducci (membro della P2). Forse occorre dare tempo al tempo.



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