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Messinscena chiamata Califfato: cosa c’è dietro
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«Generale Hoteit – chiede l’intervistatore – non temete che l’ISIS possa avanzare in Libano? Gli islamisti hanno già commesso tre attentati in cinque giorni a Beirut...».

«Prego, consideriamo gli eventi come sono e non cadiamo nei tranelli dei media occidentali che ci fanno credere che DAECH [così lui insiste a chiamare l’ISIS (1)] sia un gigante dotato di una forza a cui non possiamo resistere. Non è vero». Amin Hoteit è un ex Generale di brigata dell’esercito libanese, analista geopolitico e con accesso ad informazioni d’intelligence. Vale la pena di ascoltarlo mentre viene intervistato dalla tv libanese ANB.

«Disponiamo di informazioni sufficienti sulle forze di questa organizzazione – continua il Generale – ciò mi ha consentito di scrivere qualche giorno fa un rapporto dal titolo: “Mossul, la messinscena del Daech”. Perché quella cui ci hanno fatto assistere è una grande messa in scena».

Come, come?

«Erano presenti a Mossul 25 mila uomini della polizia e dell’esercito iracheno quando l’ha conquistata Daech, che disponeva di soli 500 uomini. Ciò che è avvenuto a Mossul non è una guerra, ma un caso di tradimento e capitolazione associato a una guerra mediatica sferrata da Al Jazeera [a tv del Qatar] ed Al-Arabiya [saudita]: questi due networks hanno annunciato la caduta di Mossul sei ore prima che si verificasse! È esattamente quel che hanno fatto in Libia, annunciando la sconfitta di Muammar Gheddafi tre giorni prima della sua caduta, e la sua morte tre giorni prima del suo assassinio».

Menzogne superflue...


«Nient’affatto. La popolazione coinvolta in un conflitto, immersa nella ‘nebbia informativa’, aspetta di sapere chi è il più forte per sapere da che parte mettersi. È evidente che se gli iracheni delle quattro province a predominanza sunnita interessate [Ninawa, Salah Ad Din, Diyala, et Al-Anbar] avessero saputo che le forze del DAECH contavano solo 500 elementi contro 25 mila, non si sarebbero mai rassegnate a servire da incubatori per loro . Bisognava dunque esagerare le forze del DAECH per arrivare alla situazione desiderata prima che la nebbia informativa dei media complici si dissipi».

Da dove spunta fuori questo ISIS, che lei chiama DAECH?


«DAECH, come organizzazione, è stato creato in Iraq nel 2004. Quando ‘l’incendio arabo’ (primavera araba) è stato acceso a cominciare dalla Tunisia a fine 2010, è rimasto acquartierato in Iraq; giungendo a contare, proprio ad esagerare, 5200 elementi. DAECH non è stato spedito in Siria e non dopo il veto russo-cinese dell’ottobre 2011 [il veto che mandò a monte il tentativo USA di ottenere dal Consiglio di Sicurezza ONU la legittimazione all’intervento Nato contro la Siria, ndr], e dopo che Jahbat al-Nusra [il gruppo fondamentalista] creato specificamente per alimentare la crisi siriana, s’è mostrato incapace di rovesciare quel Governo. È notorio che DAECH e Jabhat al Nusra sono legati all’organizzazione detta Al Qaeda, essa stessa creata dall’amministrazione USA, come ha ammesso anni orsono la signora Hillary Clinton. È in Siria che DAECH è passata da 5200 a 7 mila uomini nel 2012, e ne conta 15 mila oggi».

E DAECH e Al-Nusra si sono sparati addosso.


«No... si tratta della tattica del maestro che conduce il gioco. Giusto il 25 giugno abbiamo appreso che ad Abu Kamal [località tra la Siria e l’Irak] Al-Nusra è stata obbligata a sottomettersi a DAECH, per dotarla di una potenza cumulativa onde facilitare la sua opera nelle provincie irachene. Ciò, perché il terreno della presente guerra s’è spostato in Iraq».

Chi comanda DAECH?


Amin Hoteit
  Amin Hoteit
«È sempre lo stesso maestro che pensava che il ‘contratto di sicurezza americano-iracheno’, da lui concepito, avrebbe fatto dell’Iraq una colonia americana che avrebbe diretto a distanza da Washington. Invece accade che tre anni dopo il ritiro statunitense, l’Iraq ha cercato la sua strada; strada dettata dalla sua situazione geopolitica, quindi che comporta una certa armonizzazione con l’Iran e la Siria. Risultato: gli americani sono furiosi che l’Iraq si avvicini all’asse che gli resiste, e i Paesi de Golfo sono ancora più furiosi contro Al Maliki che rifiuta di piegarsi alle loro ingiunzioni. Ciò che accade in Iraq è la conseguenza dello scacco che hanno subìto in Siria. Gli interessi americani si sono ri-spostati verso l’Iraq dove hanno ritrovato la convergenza con quelli dei sauditi da una parte, del Qatar e della Turchia dall’altra, che hanno messo da parte i loro disaccordi in quanto si sono trovati davanti a una stessa catastrofe e urgenza: impedire all’Iraq di unirsi all’asse di resistenza formato da Siria e Iran. Così hanno messo in scena l’invasione dell’ISIS... e siccome la storia del gruppetto di terroristi che in due giorni conquista un terzo del grande Paese era difficile darla a bere, hanno detto che la popolazione sunnita locale s’è unita ai jihadisti.... mentre la nostra intelligence ci dice che due terzi dei sunniti di Mossul si sono rivoltati contro questa gentaglia, che 750 mila di loro sono scappati davanti alla loro avanzata ed ora sono profughi interni: un sunnita su sette (il numero dei sunniti iracheni si valuta a meno di 6 milioni). Ma sono riusciti a terrorizzare Al Maliki e i membri dell’Alleanza Nazionale, la coalizione che lo sostiene al Governo ed ha vinto le scorse elezioni; vogliono un Governo in Iraq che ignori i risultati elettorali. John Kerry infatti ha proposto a Maliki di fare un Governo di unità nazionale, ossia che distribuisca il potere alla pari fra sciiti, sunniti e kurdi — dunque su base confessionale ed etnica, e che ignori i risultati elettorali».


Ciò, evidentemente, come preludio alla tripartizione dell’Iraq secondo linee etniche e religiose, secondo la strategia formulata fin dagli anni ’80 dalla rivista ebraica Kivunim (A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties, di Oded Yinon, tradotto da Irael Shahak). Va da sé che lo staterello sunnita (18% della popolazione irachena) e quello kurdo (20%) si rifugeranno sotto la protezione saudita.

Non a caso Netanyahu s’è affrettato a dichiarare il suo sostegno alla costituzione di uno Stato indipendente nel Kurdistan iracheno, vista l’eroica battuta d’arresto che – secondo la «narrativa» confezionataci dai nostri media – i peshmerga kurdi hanno inflitto all’inarrestabile DAECH, o ISI, o adesso IS. Sono anni che Israele s’ piazzata coi suoi servizi nella zona kurda, e consiglia, addestra e sostiene i separatisti.

Un «aiuto» ebraico alla Giordania

Parimenti, Israele ha annunciato che, con il suo glorioso esercito, assisterà il regno di Giordania a contrastare l’inarrestabile avanzata del Califfato. Perché, con bella coincidenza, delle manifestazioni pro-jihadisti sono scoppiate a Maan, nel deserto a sud di Amman, da parte di tribù beduine che inalberavano cartelli inneggianti al Califfato; tanto per avvertire il sovrano ashemita, Abdallah II, che la tempesta s’avvicina. Il Regno è filo-occidentale, ha un trattato di pace con Sion, è subissato da milioni di profughi stranieri, palestinesi, siriani, iracheni, che si sono rifugiati sul suo territorio, «scarti collaterali» della destabilizzazione creata dal progetto Kivunim. E adesso anche i jihadisti del Califfato lo minacciano apertamente. Fra gli opuscoli patinati che stampano per documentare i loro successi e i loro programmi, hanno esibito una mappa del Medio Oriente con gli Stati che contano di conquistare. E la Giordania c’è.

Ecco come commenta il Generale Hoteit:

«DAECH ha comunicato questa carta, che corrisponde, in realtà, a un avvertimento americano a cinque Paesi, più un sesto per mistificazione. La carta include l’Iraq e il Kuweit all’est, Siria e Giordania al centro, Libano e Palestina occupata all’ovest. La carta esclude Israele: DAECH non è interessata a riconquistare Israele, ed è logico, essendo l’alto comando di DAECH è americano... dunque nessuna minaccia per Israele».

«Il Kuweit è stato aggiunto alla carta perché certe informazioni hanno rivelato dei suoi tentativi di riavvicinamento a Siria ed Iran dopo il «fallimento del progetto» [anti-Assad]. L’avvertimento gli vuol dire: non ti muovere! La Giordania, che è stata la carta principale della guerra contro la Siria finché Bandar Bin Sultan (il capo dei servizi sauditi) è stato in azione, ha delle uguali esitazioni: ed ha ricevuto l’avvertimento. Quanto al Libano sulla carta c’è fin dall’inizio...».



Israele è stata molto appartata in questi mesi, nonostante l’inarrestabile torma jihadista che avanzava e conquistava, ed in teoria minacciasse lotta totale all’ebraismo. Anzi, ha dato un aiutino ai terroristi colpendo dal cielo alcune postazioni siriane che li mettevano in difficoltà... Adesso invece si preoccupa, ma non per sé. E rassicura il re di Giordania: il nostro potente esercito ti proteggerà. «Ebrei contro jihadisti. Gerusalemme contro Al Qaeda», si esalta la giornalista (ebrea) Martine Gozlan, che sul settimanale francese Marianne tiene una rubrica ferocemente anti-islamica: «un affrontamento sul Giordano, un simbolo abbacinante», che ripete le gesta bibliche di Aronne e Giosué.

Anzi, «Israele già fornisce alla Giordania immagini satellitari, essenziali per dirigere le forze speciali giordane nelle loro operazioni contro l’ISIS»: così rivela DEBKA Files il primo luglio. Insomma, un’offerta che non si può rifiutare.

Anche se il Re di Giordania sa benissimo che farebbe meglio a declinare: da decenni, la destra israeliana progetta di espellere tutti i palestinesi da Gaza, liberando la sacra terra data di JYVH alla razza suprema, e di sbatterli nel regno hascemita. «La Giordania è il loro Paese», ha sempre detto Avigdor Liberman, oggi Ministro degli Esteri di Netanyahu. Dopo aver liberato militarmente il regno dal Califfato avanzante, Sion si ritaglierà un compenso, regalando un milione e mezzo in più di profughi a re Abdullah.

La «previsione» di Cheney si avvera

Proclamato il Califfato nella zona occupata di Iraq più nord della Siria,il capo – Abu Bakr al Baghdadi si fa chiamare: il nome di un compagno di Maometto – ha rivolto un appello a tutti i musulmani del mondo: «Venite nel vostro Stato!». Anzi, curiosamente, ha lanciato proprio una richiesta di lavoratori specializzati: «Giudici (sic), persone con competenze militari e manageriali, dottori, ingegneri di qualunque settore».

Abu Bakr al Baghdadi
  Abu Bakr al Baghdadi
Questo senso pratico del capo-tagliagole ha colpito; i jihadisti non si distinguono, di solito, per concretezza. Ma Abu Bakr al-Baghdadi ha imparato molte cose dagli americani, che lo anno detenuto per quattro anni (2005-2009) a Camp Bucca, il vasto carcere che gestivano in Iraq. Poi, al momento di consegnare questa Guantanamo irachena al Governo di Al Maliki, hanno prima rilasciato «Abu Bakr» (2). Il quale, appena libero, fonda l’ISI e «nell’autunno del 2010 moltiplica gli attentati contro i cristiani e gli sciiti». Fra cui è notevole uno: «Il 31 ottobre 2010, vigilia della festività cristiana di Ognissanti, l’organizzazione criminale prende in ostaggio i presenti nella Cattedrale di Baghdad ma l’azione finisce in un bagno di sangue, con 46 fedeli trucidati, fra cui due sacerdoti, e la morte di 7 poliziotti» (così Wikipedia).

Abu Bakr (oggi si fa chiamare modestamente «Califfo Ibrahim») dimostra un’eccezionale modernità nel settore marketing, promozione, informazione e pubblicità (il famoso terziario avanzato). Per esempio, il suo ISIS produce video di taglio professionale (hollywoodiano si direbbe) dove mostra come massacra, fucila e decapita centinaia di prigionieri sciiti. E ha prodotto scintillanti opuscoli patinati per vantare la «produttività» della sua organizzazione criminale, esattamente come le imprese quotate a Wall Street pubblicano patinati rapporti di fine anno onde attrarre investitori. Tipo quello qui sotto:


Il rapporto di fine anno del Califfato: tanti omicidi, tanti attentati, tante armi catturate, tanti assalti...


Il fatto è – così almeno ci comincia a dire la narrativa mediatica – che Abu Bakr l’americano, dichiarando il Califfato, entra in rotta di collisione con la rivale Al Qaeda, ci cui era una costola ma da cui si è distaccato, disobbedendo platealmente ad Al-Zawahiri, il leader di Al Qaeda, ormai ridotto all’impotenza nelle zone tribali fra Pakistan e Afghanistan dove si nasconde, braccato dai droni americani, e da cui non riesce che ad emettere comunicati. Ciò significa forse che Al Qaeda e tutta la narrativa che da 13 anni l’accompagna stiano per essere buttate nella pattumiera della storia, a vantaggio del trionfante Califfato, enormemente più ricco in milioni di dollari (americani) ed armamento pesante (americano) strappato ai soldati iracheni?

Nient’affatto, ci assicura l’agenzia AFP (franco-americana). La rivalità fra le due entità islamiste, ci spiega l’agenzia, certamente «scatenerà una pericolosa gara» a chi delle due la fa più grossa – in termini di attentati. E «paradossalmente, sarà l’Occidente a soffrire di più» di questa gara. Come dice alla AFP un esperto (mai prima sentito, certo per colpa nostra), tale Shashank Joshi del Royal United Services Institute di Londra: «Disperata di mantenere la sua posizione preminente, Al Qaeda può puntare a attuare una spettacolare manifestazione di forza: nuovi attacchi contro bersagli occidentali del tipo che Al Qaeda ha messo a segno l’11 Settembre 2001».

Che combinazione: proprio da pochi giorni Dick Cheney, il vice-presidente che assistette al mega-attentato dell’11 settembre dal bunker di Washington , ha profetizzato pubblicamente in tv: «Penso che ci sarà un altro attacco. E la prossima volta credo che sarà ben più letale dell’ultima. Immaginate cosa sarebbe se qualcuno riuscisse a portare nel Paese una testata atomica, la mettesse dentro un container e la portasse sino alle porte di Washington».

E dovete credere a Dick Cheney: se non lo sa lui... Il blog Daily Sheeper ha ringraziato: «Grazie, Dick. Non potevi davvero rendere più ovvio che state lavorando ad un’altra colossale false flag. Qualunque cosa sia in arrivo sarà colossale. Un sacco di gente morirà in modi orribili. Immagini spettrali e terribili saranno sbattute su tutti i media per rinforzare l’impatto dell’orribile. Il Ministero della Propaganda, i media mainstream traumatizzeranno diligentemente le persone, com’è del resto il loro mestiere. Qualcuno sarà dipinto come il nuovo uomo nero, il nuovo belzebù, ed avremo un nuovo nemico da odiare».

Anche quella del blogger è una profezia eccezionale. Anzi, si è già avverata. C’è qualche mainstream media che si porta avanti: «Il califfo Al Baghdadi minaccia gli USA - Un attacco peggiore dell’11 settembre», titola La Stampa il 1 luglio. Sotto la direzione del giovane amerikano Calabresi jr., La Stampa supera tutti in zelo, addirittura previene ciò che avverrà usando le stesse parole di Dick Cheney: sa già che l’attentato venturo sarà peggiore di quello dell’11 Settembre. Copia e incolla persino la mappa de futuro Califfato al completo, programma massimo, con scritte in inglese fornite da Washington:



Una sola cosa sbaglia la Stampa: quando dice che Abu Bakr, il nuovo uomo nero, minaccia «Gli USA»: Oh no, lui – o il suo maestro – minaccia anche l’Europa

Una guerra regionale per Sion

Dopo la vittoria alle elezioni presidenziali di Assad in Siria, e dopo la rielezione di Al Maliki in Iraq, entrambe sgraditissime a Washington, per riannodare e rimettere in azione il progetto Kivunim occorre niente di meno che una guerra regionale che coinvolga il Grande Medio Oriente e il Maghreb. La riattivazione della guerra in Iraq per mezzo del Califfo e dei suoi mercenari e tagliagole è un mezzo per legare la tremebonda Europa sotto la «protezione» USA, esattamente come Israele ha proposto alla tremebonda Giordania la sua interessata protezione militare contro il nuovo uomo nero che ha sostituito Bin Laden. Con l’ovvia complicità della monarchia mummificata Saudita, si tratta di mettere a fuoco tutta la regione per balcanizzarla, e realizzare il Progetto: la supremazia di uno Stato ebraico super-armato in mezzo a un pulviscolo di staterelli di tipo confessionale o etnico. Può darsi che questo richieda, per mobilitare gli europei, un attentato islamista anche da noi? Possibile.

Guardate Obama, che si fa stanziare dal Congresso 300 milioni di dollari per armare non meglio identificati gruppi «islamisti moderati» che continuano a combattere in Siria — soldi che finiranno in tasca al loro Califfo preferito. Guardate soprattutto Hollande: il 27 giugno scorso ha ospitato a Villepinte (Region Parisienne) un enorme congresso dei «mujaheddin del popolo», gruppo terrorista anti-iraniano, di stanza in Iraq da cui compie incursioni ed attentati nel territorio iraniano. La presidente di questa organizzazione (definita terroristica dagli USA), Maryam Rajavi, ha preso il microfono per condannare violentemente Al-Maliki ed esaltare l’avanzata del Califfato ex ISIS, ex DAESH, sul territorio iracheno. Da almeno tre mesi i guerriglieri dei «Mujaheddin del Popolo» combattono in Siria ed Iraq a fianco del Daech, poi ISIS, oggi solo IS (Islamic State), insomma del Califfo Al-Amriki. Pardon, Al-Baghdadi.

L’anno scorso, ad un simile congresso dei Mujaheddin anti-Teheran hanno partecipato molte personalità della Nato, americane ed europee: il Generale HughShelton, ex capo di Stato Maggiore interarma degli USA; il Generale William Casey, l’ex comandante della operazione Iraki Freedom; Newt Gingrich, il super-destro del Congresso. E poi: il senatore ebreo Joseph Lieberman, Rudy Giuliani ex sindaco di New York durante il sanguinoso false flag dell’1 Settembre. C’erano anche il socialista spagnolo Zapatero, la ex Ministra francese alla difesa Michéle Alliot-Marie, l’ex ;inistro degli esteri francese, l’ebreo Bernard Kouchner... insomma un bel parterre per un gruppo che lotta coil DAECH, oggi Califfato, di cui si suppone dobbiamo aver paura, anzi odio. Sono o no i nostri folli, irrazionali nemici?




1) ISIS, «Islamic state for Iraq and Syria», oppure «Iraq e Levante», si è autonominato adesso semplicemente  IS, «Islamic State», avendo dichiarato la zona che ha conquistato fra Iraq e Siria , il suo   Califfato. Il Generale libanese continua a chiamarlo DAESHY per sottolineare che il gruppo era noto all’intelligence già da  dieci anni con questo nome. Sia battezzi ISIS o Califfato, è sempre quel gruppo formato dagli americani.
2) Fatto significativo, il Pentagono ha cercato di smentire questa lunga detenzione di Abu Bakr al Baghdadi: ha dichiarato che il personaggio è stato «un internato civile» a Camp Bucca da febbraio al dicembre 2004, quando una  commissione  civile-militare (Combined Review and Release Board) ha ordinato «il rilascio incondizionato» del detenuto... Peccato che il colonnello Kenneth King della US Army, che fu il comandante di Camp Bucca, abbia confermato di aver avuto Abu Bakr ospite del carcere dal 2005 al 2009, di averlo rilasciato su ordine di Washington. Ha   raccontato anche che le ultime parole di Abu Bakr al momento della sua liberazione sono state: «Ci rivediamo a New York». Forse non è una minaccia ma un appuntamento: Abu Bakr può avere il visto Usa su uno dei  suoi passaporti, come l’aveva il  fu Osama bin Laden coi suoi piloti dirottatori, che andavano e venivano come gli pareva dall’America.



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