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Beate, l’irriducibile
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Il 14 novembre 2011 un’esplosione devasta un edificio nella cittadina sassone di Zwickau, Fruehlinsstrasse 26. Si sviluppa un incendio. Mentre comincia a radunarsi la folla, una donna d’aspetto insignificante si allontana senza esser notata. È Beate Zschäpe, 36 anni, da tredici latitante, che in un appartamento di quell’edificio ha vissuto per anni sotto falso nome con i suoi due uomini. Da soldato disciplinato del gruppo nazional-socialista clandestino (Nationalsozialistischer Untergrund - NSU), di cui è rimasta l’ultima militante, sta eseguendo le ultime volontà dei suoi due camerati Uwe Mundlos ed Uwe Boehnardt, che si sono uccisi poche ore prima a 200 chilometri di distanza. Dopo una rapina nella cassa di risparmio di Eisenach in Turingia (la quattordicesima messa a segno dalla cellula, come poi si ricostruirà), i due si sono rifugiati col bottino – 70 mila euro – in un camper bianco di lusso, che gli agenti in un primo momento trascurano. Ma la loro precipitazione ha insospettito un vicino di campeggio. Quando si accorgono di essere circondati dalla polizia, i due Uwe danno fuoco al camper, ed a se stessi dentro il veicolo.

Ma prima hanno telefonato a Beate. Poche parole, lei sa cosa fare, ne hanno evidentemente deciso tutti i particolari da tempo. In Fruehlingsstrasse 26 di Zwickau la Zschaepe ha dato fuoco all’appartamento che era stato un rifugio della cellula, recuperando solo alcuni CD-Rom in cui la cellula rivendica le sue azioni; li invierà poi alla polizia e a qualche giornale. Lascia invece mazzi di banconote, sa che la sua contumacia sta per arrivare alla fine. Chiama al telefono i genitori dei due; famiglie che non hanno notizie dai figli da oltre dieci anni. La mamma di Uwe Boehnhardt, Birgitte, aveva finito per credere, o sperare, che il suo figlio ricercato e latitante fosse riuscito ad emigrare clandestinamente, magari in Australia, a rifarsi una vita.

Ricorda quella telefonata del 15 novembre. «Sono Beate», gli diceva la voce femminile. «Beate chi?». «Io, Beate Zschaepe». «Ah» – la signora aveva conosciuto la ragazza di suo figlio, e le piaceva. «..Come sta Uwe?». La voce femminile dall’altro capo del filo risponde: «Uwe non torna a casa». La mamma crede di capire: «Vi state per consegnare?». «No», replica la voce. «Uwe...è morto?», chiede la madre colta da un pensiero improvviso.

«Sì». Poi click. Fine della conversazione.

Mamma e papà restano confusi, si aggrappano alla speranza che non sia vero. L’arrivo di una quantità di poliziotti toglie loro ogni illusione; devono identificare il corpo carbonizzato; gli investigatori chiedono: «Quand’è che avete visto o sentito vostro figlio l’ultima volta?». I signori Boehrnhardt devono raccontare di quel paio di volte in cui suo figlio li aveva contattati al telefono. Il metodo val la pena di essere riferito, per constatare la rigorosa professionalità con cui la cellula ha protetto la sua clandestinità: un giorno, i coniugi Boehrnhardt trovano un foglietto nella cassetta delle lettere, che li istruisce di andare, in un dato giorno e ad un’ora precisa, in una cabina telefonica ed aspettare che l’apparecchio squilli. Seguono le indicazioni, e sentono al telefono la voce del figlio: «È stata una consolazione sentire che era vivo. Gli abbiamo detto di costituirsi, che l’avremmo sostenuto, aiutato... ha messo giù».

Il fatto è che tra i resti bruciati nell’appartamento di Zwickau, la polizia ha trovato lo scheletro calcinato di una pistola automatica «Ceska Zbrojovka», marca cecoslovacca, che all’esame balistico risulta un’arma ricercata invano, e da anni, da una squadra speciale della gendarmeria federale, «sezione Bosforo» , costituita apposta per risalire all’autore di una serie di assassinii inspiegati: nove commercianti turchi e greci, ed una poliziotta, sono stati freddati con quella Ceska fra il 2000 e il 2006. Omicidi incomprensibili, che la polizia tedesca ha messo sul conto di ipotetici mafiosi turchi; attribuendo anche alla «nota omertà turca» il silenzio delle famiglie degli uccisi su chi potessero essere i mandanti, e quali i motivi dell’esecuzione.

Adesso si scopre che il movente era il razzismo. Di tre giovani tedeschi di cui la polizia, che ne conosceva l’ideologia nazista, aveva sottovalutato completamente la pericolosità, e di cui aveva perso le tracce dal 1998: li conosceva solo come tre fascistelli, o «anarco-punk», che anni prima, nella loro città natale, avevano deposto bombe artigianali – ben fatte ma senza detonatore – in locali pubblici; per questo era stato spiccato un mandato d’arresto, e la cellula s’era data alla macchia; irreperibile. Sorvolo sulle ovvie accuse alle forze dell’ordine: di incompetenza, di aver un occhio di riguardo per i gruppuscoli neo-nazi, o per simpatia ideologica o perché tra di loro hanno informatori che li tengono al corrente dei delitti di piccola criminalità... Inutile replicare che omicidi immotivati, avvenuti in varie città tedesche, contro vittime senza alcuna relazione fra loro – un fiorista, il proprietario di un internet café, un fruttivendolo – e in cui l’assassino nemmeno conosce la sua vittima, ma la uccide in quanto generica appartenente ad una etnia odiata, hanno il carattere di quasi delitti perfetti.

Inoltre, è dagli anni ’70 – ai tempi dei delitti della Rote Armee Fraktion, Frazione Armata Rossa – che la Germania non conosceva più assassinii politici a catena.

Il disco fisso di computer non del tutto distrutto nell’incendio di Zwickau ha restituito molti particolari: da cui si conferma il ruolo attivo di Beate Zschaepe sia nella gestione della cellula clandestina, nella sua gestione e nella progettazione delle azioni. Mai la ragazza ha indossato scarponi neri e bomber da neofascista di strada, anche se negli archivi restano tracce della sua partecipazione a scontri con militanti dell’estrema sinistra; scontri dove Beate è stata particolarmente violenta, al punto di aver provocato fratture al braccio al una ragazza avversaria. Nel 1996 si innamora di Uwe Mundlos, a quel tempo già disoccupato e militante neonazista, l’ideologo; quando diverranno cellula clandestina, Beate condividerà il suo letto anche con Uwe Boehrhardt, l’esperto di armi: è l’amante comune, la vivandiera e la cameriera, la contabile del gruppo che s’è proposto di purificare la Germania dalla contaminazione straniera. Ma ne è anche il contatto col mondo esterno, la faccia normale e banale che fa la spesa, che spiega ai vicini che vive con il suo amico e con il fratello di lui. «Una ragazza sorridente, brava persona, generosa», dice una vicina degli ultimi cinque anni di contumacia di «Lisa Dienelt», uno dei nomi falsi utilizzati da Beate. «La NSE non avrebbe mai potuto restare invisibile per tanti anni, senza Beate», ammettono gli inquirenti. Dieci omicidi e 14 rapine a mano armata in banca per l’auto-finanziamento. La clandestinità costa.

Ma quello che inquieta la coscienza profonda tedesca, è lo strappo che la NSU rivela nel tessuto della società germanica. Fino ad oggi, gli investigatori hanno identificato 126 cittadini che hanno aiutato i tre a sfuggire alla cattura; persone che ignoravano la misura dei delitti del NSU, ma non la sua ideologia, con cui evidentemente simpatizzano. Quattro di questi sono stati incriminati formalmente per complicità; ma nel processo a Beate, che avrà luogo fra un anno, ben 600 sono i convocati a testimoniare, o come «persone informate dei fatti» che possono trasformarsi in accusati.

Decine di uomini hanno scritto all’ultima superstite della cellula, che attende il giudizio nel carcere di Colonia, per chiedere la sua mano. Le ha indirizzato una lettera anche Anders B. Breivik, il norvegese «assassino solitario» che il 22 luglio 2011 ha sterminato almeno 70 adolescenti in campeggio del partito socialista nelll’isola di Utoya (il numero esatto non è mai stato ufficialmente rivelato) più le otto persone che ha occiso nell’attentato esplosivo ad edifici governativi ad Oslo. «Noi due siamo le prime gocce della tempesta purificatrice che arriverà sull’Europa», scrive magniloquente, e la invita ad usare le udienze del processo per esaltare i suoi ideali: «Sarà allora chiaro agli occhi di tutti che tu sei una vera nazionalista, e diverrai la coraggiosa eroina della assistenza nazional-socialista, che tutto ha sacrificato per sbarrare la strada al multiculturalismo e all’islamizzazione d’Europa». Ovviamente, la lettera di Breivik non è mai stata consegnata alla prigioniera.

In carcere dall’8 novembre del 2011, Beate si è chiusa nel silenzio, non ha alcun interesse a spiegare alcunché. Ha taciuto anche sulle accuse che le sono mosse (forse per consiglio degli avvocati, che proveranno a sostenere che lei, personalmente, non ha commesso nessuno degli omicidi). Il suo sguardo freddo e tenace non rivela null’altro che una sorta di inflessibilità e di chiusura al mondo.

I difensori faranno valere la sua infanzia senza amori nella Germania dell’Est ancora congelata sotto il regime comunista e poliziesco: Beate Zschäpe non ha mai conosciuto suo padre, un romeno con cui sua madre, Annerose, aveva avuto una relazione a Budapest, quando era studentessa là. Apparentemente, la donna non sapeva nemmeno di essere incinta; appena dopo il parto, il 2 gennaio 1975 a Jena, a tutta prima anche lei rifiuta di riconoscere la bambina e la abbandona alla madre. Beate cresce allevata dalla nonna; ha 14 anni quando cade il Muro di Berlino, ed assiste al crollo di un sistema che la piccola gente era stata la tranquillità e la sicurezza.

«Due milioni e mezzo di tedeschi dell’Est si trovarono di colpo disoccupati», ha detto Sabine Rennefanz, una giornalista, anche lei di Jena, che ricorda fin troppo bene quei giorni: «Nelle famiglie, i genitori era tanto se riuscivano ad occuparsi di se stessi. Anche gli insegnanti, completamente disorientati e senza più l’ideologia di Stato a sostenerli, non avevano più niente da dire, nessun riferimento, nessun valore da dare più ai loro studenti».

Si diceva una volta che un farmacista tedesco non può pestare nel mortaio i suoi galenici, né un macellaio tedesco tagliare le fettine di manzo, se resta senza una Weltanschauung. Beate è una delle tante vite alla deriva, che all’Est hanno ripiegato sulla inconfessabile Weltanschauung di riserva, che hanno creduto essere il nazismo, la fede elementare nel sangue e nella terra che resterebbe quando tutti i motivi di vivere svaniscono?

Temo che sia peggio. Nessun progetto politico, nemmeno in germe e nemmeno nefando, può configurarsi in quegli omicidi a catena di bottegai turchi e greci scelti a caso. Tutto ciò non portava a nulla. Null’altro che al grado zero del nichilismo, che è la cifra definitiva, la Weltanschauung vera e sola rimasta in troppi fra noi, apparentemente normali e integrati, in questa società dove Dio è morto (1), dove ciascuno può darsi il senso che vuole, o nessuno. Vien quasi da sospirare quel che Francesco Saverio pensò quando vide lo sprezzo con cui i samurai facevano seppuku: «Se si dessero a Cristo, che splendidi martiri farebbero!».





1) Dostojevski ha già raccontato tutto questo (e non poteva che essere lui, il grande autòptico del nichilismo) nella figura di Raskolnikov, lo studente povero ed esaltato che ha una teoria: «Gli uomini ordinari, devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare la legge, perché essi sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d’ogni specie» perché si pongono uno scopo superiore. E per provare a se stesso la sua teoria, e la propria superiorità, uccide per rapina, in modo premeditato, una vecchia usuraia; e all’imprevista anche la sorella di questa, una mite debole di mente, venuta per caso sulla scena del delitto. Di fronte all’enormità del fatto, e all’ascia lorda di sangue, la teoria vacilla. La realtà l’ha distrutta: non è un superuomo, è un assassino davanti a due cadaveri, irrimediabilmente. Cerca di difendere la teoria davanti a sé, e finisce per rivelarsi alla dolce prostituta Sonia. «Volevo soltanto osare, Sònja; eccola qui, tutta la verità!» «Oh, tacete, tacete!» esclamò Sònja, congiungendo le mani. «Vi siete allontanato da Dio, e Dio vi ha punito, vi ha abbandonato al diavolo!...». Sonia pronuncia la giusta diagnosi; Raskolnikov comincia da lì ad accettare l’espiazione come necessaria. Il freddo tenace silenzio di Beate mi pare denunciare un grumo più irrimediabile. E dubito ci sian chi, nel mondo d’oggi, possa dirle a mani giunte la verità: «Vi siete allontanata da Dio, e Dio vi ha abbandonato al diavolo».


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