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"Ho visto Silvio piangere per amore. Lei era commessa alla Standa..."
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Nonostante abbia vissu­to per 29 dei suoi 73 anni accan­to a Silvio Berlusconi (dal 1947 al 1955 co­me suo compagno di classe nell'istituto sa­lesiano Sant'Ambro­gio di via Copernico a Milano, dal 1988 al 1995 come capo della sua segreteria in Fininvest tra via Rovani e Arco­re, dal 1996 a oggi per due mandati come suo deputato e per altri due come suo senatore in Parlamento), il milanese Guido Possa non ha preso proprio nulla dall'amico. Mai un'in­tervista.  Mai una foto sui giornali. Mai una polemica. Mai un avviso di garanzia. Mai un processo. Mai un souvenir sui denti. Mai un'iperbole. Mai un lusso. Mai un flirt.

La vigilia di Natale è stato visto scendere alla stazione della metropolitana di Cimia­no. Il 27 dicembre stessa scena a Sant'Am­brogio, 12 fermate più avanti sempre sulla linea verde, dove ad attenderlo, per un ag­guato concordato a fatica dopo mesi d'asse­dio, ha trovato il vostro cronista. Quando non si serve dei mezzi privati, cioè delle gam­be ( da una trentina d'anni fa trekking in Alta Valtellina, dopo aver acquistato un bilocale a Bormio), o di quelli pubblici, il senatore Possa usa i mezzi d'emergenza. Il 24 genna­io 2008 si fece in ambulanza Segrate-Roma, 1.200 chilometri, da casa sua fino al portone principale di Palazzo Madama e ritorno, pur di non mancare a un voto di fiducia: pochi giorni prima s'era rotto il tendine del quadri­cipite femorale, ma voleva a tutti i costi esse­re fra i 161 che mandarono a casa il governo di Romano Prodi.

Determinazione ed energia. Ecco le due so­le propensioni che hanno unito Silvio e Gui­do­ dalla prima media alla fine del liceo classi­co e che ancor oggi li accomuna. Energia ato­mica, nella fattispecie: Possa fu uno dei pri­mi nel nostro Paese a laurearsi in ingegneria nucleare. Era il 1961. Dal 1971 è stato l'unico professore universitario d'Italia ad avere la libera docenza in controllo dei reattori e ha insegnato al Politecnico di Milano. Fra i suoi allievi c'era Alessandro Ortis, oggi presiden­te dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas. Benché convertito al laticlavio, il professore resta uno dei pochi con­nazionali che, messi di fronte alla console di co­mando della centrale di Three Mile Island o di Chernobyl, avrebbero saputo dove mettere le mani, e più ancora dove non metterle.

La spinta a occuparsi della complicata mate­ria gli venne dal cuore, dopo aver ascoltato il programma Atoms for peace del presidente americano Dwight Ei­senhower, che nel 1955 portò alla prima Confe­renza di Ginevra sullo sviluppo delle tecnolo­gie per lo sfruttamento della fusione nucleare a scopi pacifici: «Que­sto mondo in armi non sta solo spendendo de­naro: sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scien­ziati, le speranze dei suoi giovani». Ma la pas­sione per l'energia ha anche un imprinting biologico e olfattivo: «Durante la guerra, sfol­lato a Taio, in Val di Non, stavo per morire di peritonite: mi salvai solo perché il medico aveva un'auto a carbo­ne­lla e poté portarmi al­l'ospedale di Cles, dove fui operato. Poi vidi i te­deschi in ritirata che riu­scivano a tirar fuori il carburante dalle patate. E infine, giugno 1945, l'esperienza più acuta: l'odore della benzina portata dai soldati americani».

Il senatore si riconosce come unico meri­to quello d'aver speso le sue migliori energie in famiglia. Da Franca Ferrario, saggista e do­cente esperta in servizio sociale, ha avuto quattro figli: Monica, bocconiana, direttore risorse umane e organizzazione di Rcs Me­diagroup, la casa editrice del Corriere della Sera ; Paolo e Carlo, ingegneri come il padre, il primo alla Hilti, il secondo all'Autogrill ma in procinto di passare alla compagnia aerea Emirates; infine Francesca, psicologa al­l'ospedale San Raffaele.

Possa è presidente della Commissione Istruzione Pubblica e Beni Culturali del Sena­to. In un Paese normale avrebbero affidato a lui, che ne capisce davvero, la guida del­l'Agenzia per la Sicurezza Nucleare. Purtrop­po ha un grosso difetto: non solo non l'ha mai chiesta all'amico Berlusconi, ma nella sua modestia si ritiene persino inadatto al ruolo. E così il Consiglio dei ministri un paio di mesi fa ha designato Umberto Veronesi, senatore del Pd.

Che c'entra l'oncologo Veronesi con l'atomo, radioterapia a parte?
«È sempre stato un convinto nuclearista».

Anch
'io sono sempre stato un convinto nuclearista.
«Ma forse lei non ha mai dichiarato, come invece ha fatto Veronesi, che dormirebbe tranquillo con un secchio di scorie nucleari in camera sua. Inoltre lei non è mai stato mi­nistro della Sanità».

No
, in effetti. Ma che c'entra?
«L'Agenzia per la sicurezza nucleare ha lo scopo di tutelare la salute pubblica».

Con tutto il rispetto
, come si fa a scegliere un presidente che avrà 95 anni quando la prima centrale nucle­are vedrà la luce?
«Passerà la mano».

Lei avrebbe avuto dal­la sua anche l
'età: 12 anni di meno.
«Non ho mai dato la mia disponibilità. Non sono mai stato in corsa».

Quale ruolo ha avuto Stefania Prestigiaco­mo, ministro dell'Am­biente, in questa scel­ta?
«Non lo so. A me dispia­ce­ solo che la Prestigiaco­mo, che doveva indicare due candidati, abbia pro­posto come commissa­rio dell'Agenzia per la si­curezza nucleare il suo capo di gabinetto, Mi­chele Corradino. Il qua­le è stato bocciato con 49 no a fronte di 28 sì e poi ribocciato, con numeri ancora più umilianti, pu­re­ nella seconda votazio­ne pretesa dal ministro ».

I suoi rapporti con la Prestigiacomo come sono
?
«Niente di personale. Ma la mia eterodossia in tema di cambiamenti climatici e riscaldamen­to globale contrasta con quello che pensa il mini­stro dell'Ambiente. So­no rimasto sconcertato dall'esultanza della Pre­stigiacomo quando al G8 dell'Aquila fu appro­vata la risoluzione che impone ai Paesi firmatari, entro il 2050, di ridurre come minimo dell'80% le emissioni di anidride carbonica nell'atmosfera. Se si considera che il Protocollo di Kyoto prevede­va una diminuzione dell' 8%per l'Unione eu­ropea e del 6,5% per l'Italia,qualcuno mi de­ve spiegare come sarà possibile, nel giro di appena 40 anni e in presenza di una crisi eco­nomica feroce, riconvertire l'industria mon­diale in modo da conseguire un obiettivo dieci, dodici volte più ambizioso. Una pia il­lusione».

Obiettivo vincolante,
ha stabilito la UE.
«E allora mi lasci dire che l'Europa costruita sulla tecnocrazia e sul burocratismo a me sembra una delle malattie peggiori dei tem­pi presenti. Anche Berlusconi se n'è accor­to. Sente la cappa di quest'Unione a supre­mazia franco-tedesca e cerca di sparigliare come può, giocando di sponda con Vladi­mir Putin e Muammar Gheddafi. Ma la veri­tà è che cuna carenza d'iniziativa italiana nella politica europea. La UE sta diventando una camicia di forza, una struttura postde­mocratica, se non antidemocratica. Quan­do si fissano degli obiettivi vincolanti e si de­cide che un moloch supremo controlli sem­plicemente che vengano raggiunti, ci si met­te su una brutta strada. Siamo arrivati all'as­surdo per cui la UE ha deciso l'abolizione sic et simpliciter delle lampadine a incande­scenza. Via tutte, bandite anche le lucine del­­l'albero di Natale, si rende conto?».

La sua posizione su clima ed emissioni inquinanti qual è?
«Sono un convinto assertore del fatto che l'anidride carbonica potrebbe non essere re­sponsabile del riscaldamento globale. Am­messo e non concesso che quest'ultimo sia un fenomeno consolidato. Anzi, le più recen­ti esperienze relative alle temperature e alle precipitazioni atmosfe­riche c'indurrebbero a supporre il contrario, come peraltro teorizza­no molti scienziati. Io penso che presto salte­ranno fuori tutte le ver­gogne dell'Ipcc (Inter­governmental panel on climate change, il foro intergovernativo sul mu­t­amento climatico istitu­ito dalle Nazioni Unite, ndr) , che attribuisce il ri­scaldamento globale ai prodotti della combu­stione del petrolio e del carbone».

Il professor Nicola Scafetta
, uno scien­ziato di Gaeta che in­segna alla Duke Uni­versity negli Stati Uniti, mi ha illustra­to una sua proiezio­ne climatica secondo cui le temperature di­minuiranno fino al 2030, per poi aumen­tare di nuovo fino al 2060, in base a due ci­cli naturali ricorren­ti che dipendono dal Sole e che non sono minimamente corre­lati con i gas serra.
«Ho sostenuto in Sena­to due mozioni, le uni­che approvate da uno dei 27 Parlamenti della UE, che esprimono pre­occupanti dubbi sulla li­nea di Bruxelles, da an­ni totalmente appiatti­ta in modo scandaloso sulle conclusioni del­l'Ipcc».

Com
'è giunto a nutrire questi preoccu­panti dubbi?
«Vede, un secolo fa, quando la scienza era elitaria e non imbragata dalla politica, basta­va ragionare. Albert Einstein formulò la teo­ria della relatività a tavolino. Gli servirono solo una penna e un pezzo di carta per rag­giungere l'equazione fisica che stabilisce una relazione tra l'energia e la massa. Per an­ni mi sono occupato di ricerca industriale sui reattori nucleari, un'attività più vicina al­la­ tecnologia che ai massimi sistemi dell'uni­verso, perché produce macchine. Ho avuto il privilegio di fare migliaia di misure, molto difficili, di temperatura e di pressione. È com­plesso garantire che siano eseguite con pre­cisione. Tutto questo mi ha portato a dubita­re di qualsiasi asserzione, a distinguere fra verità assestate e congetture. Lo chiami pure dubbio sistematico sulla misura. Davanti a qualsiasi affermazione, la prima cosa che mi viene spontaneo chiedere è: come fai a dir­lo? Che prove hai? Come le hai raccolte?».

Ottimo metodo, applicabile anche al giornalismo.
«Molte di quelle che oggidì vengono spaccia­te p­er verità assestate sono in realtà congettu­re. Che la Terra giri intorno al Sole, è una veri­tà assestata. Ma che l'universo si sia prodot­to con il Big Bang, la grande esplosione, non è che una notevole congettura, a sostegno della quale vi sono soltanto due o tre dati spe­rimentali. Se lei non crede alla legge di Ohm, io prendo la resistenza R, ci faccio passare la corrente I, e le dimostro che ai due capi si misura una differenza di tensione V. Ma che cosa accadde con precisione 12,7 miliardi di anni fa? Non è un'esperienza ripetibile».

Lei ha dichiarato che il ritorno all'ener­gia atomica dev'esse­re un tema biparti­san, perché richiede­rà investimenti mas­sicci per almeno 20 anni. È sicuro che, se cambia il governo, il nucleare non venga di nuovo affossato?
«Quando l'ENELo la A2A, o la tedesca Eon, o le francesi Edf e Gdf-Suez avranno deciso l'investimento e trova­to i siti dove costruire le centrali nucleari, il da­do sarà tratto e non si tornerà indietro, per­ché­ queste o altre corda­te avranno maturato di­ritti che non potranno più essere lesi».

Ha anche sostenuto che serviranno dalle 6 alle 10 centrali. Da mettere dove
? Nessu­na regione le vuole.
«È sufficiente individua­re tre siti, ognuno dei quali potrebbe ospitare due o tre centrali. L'im­portante è che entro il 2030 si arrivi a coprire col nucleare il 25% del fabbisogno nazionale di energia elettrica».

Avrà apprezzato l'ap­pello rivolto a Pier Luigi Bersani da Um­berto Veronesi e da altri 71 scienziati, intellet­tuali e parlamentari di sinistra, fra i quali Margherita Hack, Edoardo Boncinelli, Franco Debenedet­ti, Fabrizio Rondolino, Pietro Ichino e Chicco Testa, affinché il segretario del Pd non chiuda la porta al rilancio del nu­cleare in Italia.
«Quando Bersani era ministro dell'Indu­stria, nel governo doveva fare i conti con per­sonaggi come il verde Alfonso Pecoraro Sca­nio e quindi non poteva esprimersi più di tan­to. Il segretario del Pd ha un'abilità tutta par­ticolare nel nascondere quello che pensa re­almente. Dipenderà dalla scuola comunista dove s'è formato. Ma ho capito che sotto sot­to non è per nulla contrario al nucleare».

Chi sono i colleghi della maggioranza che stima di più
?
«Vado d'accordo con tutti».

Non faccia il doroteo.

«Ma è vero. Lei vorrebbe qualche nome? Al­lora scriva che stimo molto Renato Schifani, Gaetano Quagliariello, Maurizio Gasparri, Antonio D'Alì, Franco Asciutti e Paolo Scar­pa Bonazza Buora, presidente della Commis­sione Agricoltura del Senato, col quale ho condotto un'indagine sull'impiego degli OGM durata due anni».

Rimproverò al ministro Giulio Tremonti d'avere «un linguaggio brachilogico», dal greco brakùs, breve.
«, brusco, molto sintetico. Ma abbiamo un buon rapporto, m'invita sempre ai conve­gni dell'Aspen Institute».

Se ne parla come possibile sostituto del Cavaliere a Palazzo Chigi, così almeno vorrebbe la Lega.
«Se ne parla e se ne straparla».

E nell
'opposizione con chi va d'accordo?
«Con Luigi Zanda, Vincenzo Vita e Mariapia Garavaglia, per esempio, tutti e tre senatori del Pd. Mi dispiace molto, tuttavia, che la vis polemica e l'obbedienza di partito obblighi­no persone stimabili ad assumere posizioni che non stimo per nulla. Purtroppo nella concezione comunista del potere il fine giu­stifica i mezzi, inclusa la negazione della ve­rità, cosa che per me invece è intollerabile».

Come mai il suo amico Berlusconi non l'ha mai nominata ministro?
«Non ho né la preparazione né il physique du rôle. Sono troppo scrupoloso. Mi sarei preso l'esaurimento nervoso».

E perché, dopo essere stato sottosegreta­rio all'Istruzione, non le ha più dato inca­richi di governo? Si parlava di una sua delega al nucleare.
«Nessuno me ne ha mai accennato».

Ecco
, così almeno per una volta non si potrà dire che il Cavaliere promuove i suoi amici.
«E i suoi ex dipendenti».

Quando cominciò a lavorare per lui
?
«A dire il vero il primo a essere assunto fu mio fratello Giulio, uno dei quattro architet­ti che hanno realizzato Milano 2. Siccome non aveva ancora superato l'esame di Stato, fui io a firmare il progetto della prima casa costruita da Silvio in via Alciati. Era il 1961. Subito dopo trovai posto al Cise, un centro di ricerche industriali di proprietà dell'ENEL che si dedicava allo studio delle centrali nu­cleari e termoelettriche. Percorsi tutti i gradi­ni interni, da semplice ricercatore a diretto­re del settore ricerca e sviluppo. Ma nel 1987 vi fu il referendum sul nucleare e capii che la strada s'interrompeva. Così l'anno successi­vo mi rivolsi a Berlusconi, che mi offrì la re­sponsabilità della sua segreteria».

Sarebbe potuto diventare come Fedele Confalonieri, per l'amico Silvio.
«Ma nemmeno per sogno. Confalonieri spic­ca per doti notevolissime. Già a scuola dai salesiani si capiva che aveva una marcia in più. Alla messa delle 8 suonava l'armonium con una grazia tutta speciale».

Com'era l'alunno Berlusconi?
«Scriveva bene. Eccelleva soprattutto nelle materie umanistiche. Era sempre pronto ad aiutare i compagni meno dotati. Dimostra­va una ricchezza sentimentale che io non ho mai avuto, una capacità di risposta appassio­nata a qualunque richiesta. Ricordo che a maggio i preti dell'istituto Sant'Ambrogio ci obbligavano a propagandare il mensile Gio­ventù Missionaria. Silvio era capace da solo di far sottoscrivere centinaia di abbonamen­ti, noi al massimo una decina».

Su alcuni giornali è apparso che vi passa­va i compiti in classe in cambio di soldi.
«Un'assurdità, prim'ancora che una falsità. I docenti salesiani erano occhiutissimi, co­piare sarebbe stato impossibile. Alle medie avevamo un professore di lettere d'origine veneta, Tarcisio Strapazzon, segaligno e bur­bero, che lo avrebbe beccato subito».

Chi ricorda, oltre a Berlusconi, di quella classe che nel 1955 affrontò la maturità classica?
«C'era Gianni Marzocchi, che l'anno seguen­te avrebbe partecipato al Festival di Sanre­mo con la canzone Musetto scritta da Dome­nico Modugno. In seguito si dedicò al dop­piaggio: è sua la voce di Robert Duvall in Apo­calypse Now di Francis Ford Coppola. C'era Lino Di Pilato, che andò a fare il chirurgo orto­pedico all'ospedale Bassini. C'era Lucio Dal Santo, che divenne docente di lingua e lette­ratura russa alla Cattolica, traduttore di clas­sici, da Dostoevskij a Tolstoj, ma soprattutto studioso e divulgatore dei samizdat, le opere dei dissidenti sovietici.C'era Ariberto Spinel­li, che oggi è psicologo e scrittore. Ogni due anni Silvio organizza una rimpatriata della classe. Ha sempre invitato anche Angelo Gal­­licchi, che da sindacalista socialista del­l'Azienda trasporti milanesi aveva fatto car­riera nella CGIL, tanto che fu chiamato a Mo­sca per il 50° di fondazione del PCUS.  Èmorto pochi giorni fa, la vigilia di Natale. Dei 24, ci hanno già lasciato in sei, e fra questi Marzoc­chi e Di Pilato, scomparsi prematuramente».

In quella classe c'erano anche altri due futuri senatori di Forza Italia, Romano Comincioli e Luigi Scotti. Su 24, ben quat­tro in politica e nello stesso partito. Un sesto tondo. Ammetterà che è curioso.
«Comincioli s'era molto legato a Silvio come venditore di case dell'Edilnord, mentre Scot­ti era diventato un dirigente della Sip. Siamo tre esempi di come si può essere cooptati dal leader per fiducia e per conoscenza diretta. Che c'è di male in questo? Forza Italia è nata dal nulla, nel 1994 non disponeva di una classe dirigente. Logico che Berlusconi si sia guardato attorno, abbia pescato nella cer­chia dei professionisti che stimava. C'era una locomotiva che aveva bisogno dei vago­ni. Io sono sempre stato un vagone. In altri partiti non è diverso».

Ai vostri periodici meeting non ha mai partecipato Adriano Manesco.
«Non s'è mai capito il perché. Era il più bravo della classe. Studiosissimo. Finito il secondo anno di liceo, si preparò per tutta l'estate e diede gli esami a ottobre, saltando così il ter­zo anno. Da allora non l'ho più rivisto. So che si mantenne all'università lavorando come correttore di bozze al Giorno. Mi pare che poi abbia vissuto a Taiwan. Una persona singola­re. Andavo spesso a fare i compiti a casa sua, in via Sabaudia, vicino a piazzale Loreto. Co­sì come a casa di Silvio, in via Volturno».

Rendimento scolastico a parte, Berlusco­ni che tipo era?
«Sempre un passo avanti agli altri, sempre elegante. Uno dei primi montgomery lo ve­demmo indosso a lui. Intraprendente come nessun altro. Avevo 15 anni quando mi pro­pose di vendere le spazzole elettriche El­chim. Costavano 7.000 lire. Le portava a scuola insieme col dentifricio Binaca in stock. Dava la merce a me e a pochi altri in conto vendita. Mi spiegò un metodo infalli­bile per convincere le casalinghe: "Tu apri la scatola di raccolta della polvere e mostri che è perfettamente vuota. La richiudi. Passi la spazzola elettrica su un tappeto che è stato ap­pena pulito. Dopo un minuto riapri la scatola e vedrai che è piena di schifezze. A quel punto la signora ti compra l'aspirapolvere di sicu­ro". Aveva ragione. Ov­viamente c'era un mar­gine di profitto per noi venditori, che ci versa­va puntualmente».

A me la mamma Ro­sa,
quando la intervi­stai in occasione dei suoi 95 anni, raccon­tò che il suo Silvio vendeva frigoriferi Ignis e che una vigilia di Natale ne portò uno sulle spalle a una signora, salvo scopri­re, salito fino al quin­to piano, che aveva sbagliato scala.
«Non posso crederci. Con quello che pesava­no allora i frigoriferi, sa­ranno stati almeno in due o tre a salire le sca­le. Ecco, lo vede il dub­bio sistematico? Affiora sempre».

Berlusconi era inte­ressato già allora alle belle ragazze?
«Ovvio, nonostante l'istituto salesiano fos­se frequentato solo da maschi. I suoi erano i racconti del cacciatore. Rammento che ebbe una relazione molto in­tensa con una ragazza. Si favoleggiava che fosse una commessa della Standa. Lo vidi piangere per questa storia. Insomma, non era il tombeur de femmes che dice: "Più una, più una, più una...". Si trattava di una passione vera».

Ha conosciuto le mogli del Cavaliere
?
«, due donne estremamente diverse per temperamento. Carla Dall'Oglio, la madre di Marina e Piersilvio, era una brava ragazza della borghesia milanese che Silvio abbor­dò mentre era in attesa dell'autobus, offren­dosi d'accompagnarla fino a casa».

La mamma di Berlusconi aveva cono­sciuto nello stesso modo il marito Luigi. «Io abitavo in via Volta e prendevo il tram 4», mi raccontò. «Vedevo sempre questo giovane distinto che parlava di banca e di azioni con un'altra persona. Scendeva alla mia stessa fermata, in Cor­dusio. Un giorno al ritorno decisi di per­dere il tram. "Rosina, non sali?", mi chie­se la mia amica. No, risposi, aspetto il prossimo per vedere se c'è su il biondi­no. Subito dopo s'avvicinò lui: "Permet­te, signorina, che mi presenti? Sarebbe un onore per me accompagnarla"».
«Invece Carla tergiversò parecchio prima d'accettare. Il 6 marzo 1965 fui invitato al lo­ro matrimonio. Il pran­zo di nozze si svolse al Gallia».

L'hotel che un tempo ospitava il calciomer­cato.
«E infatti Silvio, che già allora era presidente di una società sportiva, la Torrescalla- Edilnord, ci fece trovare tutta la squadra schierata all'in­gre­sso dell'hotel in pan­taloncini corti e scarpe
bullonate».

È vero che ora Berlu­sconi si sente signori­no, libero di cercarsi un
'altra compagna?
«Credo che l'età conti anche per lui».

Senatore Possa, da quanti anni è sposa­to?
«L'anno prossimo sa­ranno 50».

A Roma le capita di frequentare ragazze allegre a cena
?
«No. Vivo come un mo­n­aco in un appartamen­to in affitto e la sera mi preparo per il lavoro parlamentare del gior­no seguente».

L'amico Silvio non la invita a Palazzo Gra­zioli?
«Solo per parlare di poli­tica. Mai alle feste».

Fra le debolezze che imputano a Berlusco­ni, c'è quella di cir­condarsi solo di con­siglieri che gli danno sempre ragione. Lei non passa per uno yes man, eppure la vostra amicizia resiste da più di 60 anni. Come si spiega?
«Non è vero che apprezzi solo il signorsì. È aperto alla critica, purché gli venga rappre­sentata con toni civili. Semmai diffida del­l'assemblearismo. Ha paura che gli altri combinino pasticci, spezzando le linee diret­trici che ha in mente. È un retaggio del suo passato di imprenditore: nelle aziende, si sa, le decisioni deve prenderle uno solo».

Lei non appare in TV, non parla con i gior­nalisti. La riservatezza assoluta fa parte del suo corredo genetico o se l'è imposta?
«Per andare in televisione sono richieste prontezza di battuta e capacità d'improvvi­sazione. Sono doti che non ho mai avuto».

È credente?
«Non dimentico l'ambiente in cui sono cre­sciuto. Ho un enorme rispetto per la religio­ne cattolica, che tuttora impronta parecchie delle cose che dico e che faccio. Non sono più molto praticante. Ma i valori restano quelli che ho imparato dai salesiani. Il mio funerale desidero che sia celebrato in chiesa».

Molti accusano Berlusconi d'aver travia­to un'intera generazione con talune tra­smissioni in onda sulle reti Mediaset, dal Drive in al Grande fratello, che certo non avrebbero in­contrato il favore di don Giovanni Bosco.
«Un'accusa totalmente astrusa dal contesto so­ciologico in cui vivia­mo. Non tiene conto di dove sta andando il mondo per i fatti suoi, senza il concorso della televisione. Quale tipo di relazioni si siano in­staurate fra uomo e don­na è visibile da almeno trent'anni negli Stati Uniti e in Europa, dove non arrivano Canale 5, Rete 4 e Italia 1. È stata la liberazione sessuale della donna, il suo di­verso ruolo nella socie­tà e nel mondo del lavo­ro, a modificare il costu­me, non Berlusconi».

Per quale motivo se­condo lei il Cavaliere è amato da metà de­gli italiani e odiato dall'altra metà?
«Machiavelli divideva i politici in due tipolo­gie: volpi e leoni. Berlu­sconi è un leone. Si bat­te per cambiare un'Ita­lia che è stata per alme­no mezzo secolo un Pa­ese semisocialista, e parlo di socialismo rea­le. Molte regioni si sono adeguate a questo mo­dus vivendi, coltivano l'assistenzialismo, pre­feriscono campare sulle spalle degli altri. Un radicale come lui, un innovatore icono­clasta che ha ideali diametralmente oppo­sti, non poteva che terremotare la scena. In più non gli perdonano la sua ricchezza».

Come politico lei si sente circondato dal­la simpatia della gente oppure dal di­sprezzo?
«Né dall'una né dall'altro. Avverto intorno a me aggressività. La classe giornalistica con­tribuisce fattivamente, rappresentandoci peggio di ciò che siamo. Perché, inutile na­scondercelo, non v'è dubbio che una certa deriva della politica c'è stata. Nella Prima Re­pubblica i parlamentari si sono trasformati in una nomenklatura».

Nel 1994 era il capo della sua segreteria: perché non impedì a Berlusconi di scen­dere in politica?
«La famosa discesa in campo fu un processo molto graduale, cominciato nel giugno del 1993, quando la Guardia di Finanza piombò in via Rovani e si capì che era partito l'assalto per via giudiziaria alla Fininvest. Il pubblico ministero Margherita Taddei fu particolar­mente dura. Le Fiamme gialle sequestraro­no tutto, anche il mio computer, nonostante l'unico indagato fosse Salvatore Sciascia, il direttore dei servizi fiscali del gruppo. Nel pc avevo annotato i resoconti delle riunioni sul­­l'evolversi della situazione politica che da sei mesi, ogni sabato, Berlusconi teneva con i suoi più stretti collaboratori e con alcuni giornalisti amici, come Maurizio Costanzo. I riassunti finirono sulle pagine dell' Espres­so. Il Cavaliere comprese perfettamente do­ve si andava a parare: la "gioiosa macchina da guerra" avrebbe aperto un varco al Pds fra le macerie di Tangentopoli e l'Italia sareb­be stata consegnata ad Achille Occhetto. Una prospettiva che lo spaventava molto».

Certo i postcomunisti non l'avevano in simpatia.
«Mi colpì lo sconcerto di Silvio di fronte alla decisione di smantellare la DC, presa dal se­gretario democristiano Mino Martinazzoli. "Gettare alle ortiche un simbolo così presti­gioso è un atto scellerato", ripeteva. A luglio inventò il nome Forza Italia e mi mandò dal suo notaio di fiducia, Guido Roveda, a deposi­tare lo statuto dell'associazione. Vennero con me i compagni di scuola Scotti e Spinelli».

E poi?
«Ai primi di agosto Berlusconi ci disse: "Ra­gazzi, quest'estate niente vacanze. Fra po­chi mesi si vota. Non c'è tempo da perdere". Io, a dire il vero, andai lo stesso a Bormio. Al ritorno, trovai già pronti il logo, la bandiera e l'inno di Forza Italia e anche il kit del militan­te azzurro».

Secondo lei esiste sì o no un conflitto d'in­teressi fra il politico Berlusconi e l'im­prenditore Berlusconi?
«Oggettivamente il presidente del Consiglio è chiamato a prendere decisioni che possono riguardare anche le sue aziende. Ma pensare che sia quello il motivo per cui è sceso in politi­ca significa far torto alla sua intelligenza».

Avete mai parlato del tumore alla prosta­ta che lo colpì nella primavera del 1997?
«Sì. Affrontò anche quel­la drammatica prova con la sua consueta ca­pacità decisionale. Si af­fidò senza indugi al bi­sturi del professor Patri­zio Rigatti, il chirurgo del San Raffaele che due anni dopo, con un aereo messo a disposizione dal Cavaliere, sarebbe volato in Tunisia per ten­tare di salvare la vita a Bettino Craxi, asportan­dogli un rene nella sala operatoria di un ospeda­le militare dove manca­vano la luce e le garze e al posto del reggibrac­cio c'era un tronco d'al­bero. Subìto l'interven­to, Silvio tornò al lavoro troppo presto. Ma era nel mezzo della traversa­ta del deserto seguita al ribaltone del 1994 e du­rata fino al 2001, quan­do rivinse le elezioni».

Il miglior pregio di Sil­vio Berlusconi?
«L'umanità. È quella che gli italiani percepi­scono a pelle».

Il peggior difetto?
«Si lega a un altro gran­de pregio: è un visiona­rio. E come tutti i visiona­ri pensa, sbagliando, che l' intendance suivra, per dirla con Napoleone e De Gaulle. Un errore di sottovalutazione. In politica spesso l'intendenza non segue affat­to. Piuttosto si adagia. Nelle sue televisioni il problema si notava meno, anche perché lui faceva cinque o sei parti in commedia: presi­dente, amministratore delegato, direttore generale, raccoglitore di pubblicità, talent scout, direttore artistico... Ma la politica è un universo troppo largo. Non puoi suonare contemporaneamente le ottave alte e le otta­ve basse del pianoforte con la stessa mano».

Stefano Lorenzetto

Fonte >
  Il Giornale


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