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La disoccupazione? Colpa dei genitori
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Bei tempi quando il famoso «pezzo di carta» dava il diritto ad entrare tra la gente che conta! Un lavoro importante, un bello stipendio: per molti era il biglietto da visita dell’emancipazione sociale oppure la conferma di appartenere alla classe dirigente della nazione. Era un altro mondo. Brutta cosa avere nostalgia del passato, ma quando lo sguardo all’indietro spiega un percorso sbagliato, la nostalgia si prende la rivincita. Cosa si è sbagliato? Ma, intanto, perché si è sbagliato?

Nella media europea l’Italia ha pochi laureati e molti disoccupati laureati. Senza scomodare ancora le statistiche, è invece sotto gli occhi di tutti l’assenza di artigiani qualificati. In questi ultimi cinquant’anni, abbiamo avuto un grande sviluppo di impiego «astratto» e una perdita secca di lavoro «manuale». È il risultato di una visione culturale messa in atto dalla politica più vicina all’idea che lo sviluppo egualitario della società fosse la scelta giusta da perseguire attraverso lo studio universitario. La laurea diventa così, per molti genitori di umili origini, l’obiettivo che i propri figli avrebbero dovuto raggiungere per riscattare la povertà famigliare.

Quante volte nei miei anni di insegnamento mi sono sentito dire: «Abbiamo fatto tanti sacrifici che lei neppure se lo immagina, professore, per far studiare nostro figlio. E adesso che si è laureato - l’ha laureato lei, si ricorda? - è disoccupato da più di un anno. Ci aiuti: cosa dobbiamo fare?». E io non posso farci, purtroppo, niente.

Quella divisione sociale, che certa politica di sinistra pensava di superare facendo tutti dottori, non soltanto non è stata superata, ma è diventata molto più crudele di un tempo. Adesso abbiamo laureati, avvocati, ingegneri, architetti, che hanno buoni guadagni perché lavorano nello studio del padre; e poi abbiamo il gran numero di laureati disoccupati semplicemente perché sono figli di nessuno, di nessun professionista. Sono senza lavoro e, per di più, frustrati, delusi: forse ancor più delusi e frustrati i genitori rispetto ai figli con quel «pezzo di carta» che è costato tanto e che non serve a niente. Ovvio, la regola ha le sue eccezioni: per fortuna e per bravura c’è ancora chi, pur figlio di nessuno, riesce ad aprirsi la strada. Ma è una piccola minoranza.

D’altra parte, cosa dovrei dire a quei genitori sconsolati, talvolta - vi assicuro - disperati, che vengono a chiedermi aiuto? Dovrei spiegare che le lauree universitarie sono cose per disoccupati, quando nell’università sorgono come funghi le più allettanti (in apparenza) «offerte formative», che prevedono i più impensabili, fantasiosi e assolutamente inutili corsi accademici come, per esempio, quello sul «benessere dei cani e dei gatti» (giuro che è così)?

Il ministro della Pubblica istruzione sta facendo un po’ di repulisti in questi corsi di laurea velleitari che, comunque, non si dimentichi, non sono sorti per colpa di un destino cinico e baro, ma dalla testa dell’ex ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer.

Finalmente, quello che con franchezza non riesce a dire il professore, lo dice adesso il ministro Sacconi. È stata sistematicamente distrutta la cultura del lavoro; è stato umiliato il lavoro dell’artigiano, quasi fosse un’attività per deficienti e, di conseguenza, è stata costruita un’impalcatura scolastica con cui si è azzerato il valore dello studio che preparava alla professione dell’artigiano. Politica e sindacato hanno meticolosamente costruito l’idea che il diritto allo studio fosse il diritto a laurearsi. Ottima la convinzione che la laurea diventasse un obiettivo per chiunque, ma deleteria la comunicazione sottostante a quella convinzione, e cioè che soltanto i laureati avrebbero potuto avere un lavoro dignitoso.

Naturalmente in questa trappola ideologica ci sono caduti per primi i genitori più sprovveduti, proprio quelli che più andavano difesi. I genitori, cioè, che sognavano per i propri figli una vita migliore della loro, proprio grazie al «pezzo di carta». Ma non soltanto loro sono stati ingannati dall’idea che solo la laurea potesse rappresentare un dignitoso punto d’arrivo scolastico per i propri figli.

Va cambiata una mentalità; solo una cultura politica che restituisca significato e valore sociale al lavoro artigianale può modificare quella mentalità. I genitori, a cui sta a cuore la sorte dei propri figli, devono essere aiutati a capire, attraverso iniziative politiche e sindacali nel mondo della scuola e del lavoro, che il «pezzo di carta» è oggi, sempre più spesso, un qualunque pezzo di carta.

Stefano Zecchi

Fonte >  Il Giornale



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