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Obama perde a Marjah
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Doveva essere un’operazione-lampo: ancora due giorni e abbiamo vinto, proclamava la CNN ancora l’altro ieri. Oggi «le forze militari guidate dalla NATO dovranno operare per altri 25-30 giorni per mettere in sicurezza tutto quel che deve essere messo in sicurezza», ha detto il generale britannico Nick Carter. Ci vorrà un altro mesetto. (Afghan offensive will take another month, general says)

Insomma l’operazione per strappare ai Talebani la cittadina di Marjah, nella provincia di Helmand,  non sta andando bene. Il «surge» di Obama, ossia 15 mila fra Marines, commandos inglesi (ma anche danesi, canadesi ed estoni) e soldati afghani, con il totale dominio aereo, enorme volume di fuoco, missili Hellfire e oltre 60 fra elicotteri e caccia, senza contare i droni, sono apparentemente bloccati – dice il Times – da «una dura e ben organizzata resistenza», che mostra «alti livelli di addestramento e intelligenza tattica», «un accurato e persistente tiro di cecchini» e che hanno sparso ordigni esplosivi fatti in casa negli edifici.

Conclusione: «Le forze NATO e alleate sono avanzate ieri di soli 500 metri» in un giorno di combattimenti, durante il quale gli eroici Marines hanno chiamato in soccorso jet Harriers, gli elicotteri da battaglia con missili, che hanno massacrato 12 civili, fra cui 6 (sei) bambini. (Hidden enemy delays advance in Marjah)

«Non si sa quanto successo abbiamo probabilmente per otto settimane», ha commentato il suddetto generale Carter: «Il successo sarà nella misura in cui la popolazione si pone interamente dalla nostra parte». Naturalmente, non ha mancato di notare che i talebani usano i civili come scudi umani. La battaglia avviene in una zona di 100 chilometri quadrati in cui vivono 80 mila abitanti. Secondo la guerriglia, sono stati uccisi 5 americani e sette soldati afghani, otto i feriti. I talebani dall’altra parte dovrebbero essere un migliaio.

Alquanto imbarazzante, visto che questa è «la più grossa operazione dall’inizio della guerra». Già, l’inizio della guerra: ottobre 2001. Ufficialmente, per catturare Osama bin Laden.

Dopo quasi nove anni di occupazione, gli occupanti devono ancora guerreggiare negli abitati. Per chi sta davanti alla TV a guardare il festival di Sanremo è difficile mettersi nei panni degli afghani. Fate uno sforzo: immaginate che da quasi un decennio il vostro Paese sia occupato da truppe armatissime, carri armati e camion che passano, mercenari col mitra a tracolla, pattuglie che vi controllano e parlano una lingua estranea, aerei che solcano il cielo. Da più tempo che la seconda guerra mondiale, ogni giorno così. Immaginiate, poniamo, di vivere a Viterbo, e sapere che gli occupanti stanno bombardando e cannoneggiando Civitavecchia, mentre i guerriglieri resistono casa per casa; e ci sono sei bambini italiani morti, uccisi dai missili dell’occupante.

Anche i Marines hanno perso il bell’impeto dei primi giorni. Molti di loro erano già lì nove anni fa e ci sono tornati ancora e ancora, in vari turni. Fra quelli che stanno acquattati a Marjah, immobilizzati dal tiro dei cecchini, ce n’è qualcuno che ha già combattuto a Falluja nel 2003, partecipando all’incenerimento della città con decine di migliaia di civili; si trattava di sterminare i sunniti iracheni. Ma anche le cose belle alla lunga stufano.

D’altra parte, un commento sul Times della specialista di guerre Deborah Haynes fa indovinare un’altra piega degli eventi bellici in corso a Marjah: «Il successo è nei media, la vera prova è ancora da venire». I media americani, dice la Haynes, hanno annunciato la vittoria prima ancora che la battaglia cominciasse. Lo scopo dei comandanti occidentali è di «controllare il flusso delle informazioni e conformare la percezione dell’opinione pubblica, sia localmente sia nei salotti britannici e americani».

La tattica è stata già usata spesso: «Gli avvertimenti preventivi seguiti da una impressionante mostra di potenza bellica incontreranno come al solito una resistenza minima... gli afghani sanno quel che sta per avvenire, i talebani, che sono sempre in inferiorità di fuoco, saranno battuti in modo molto pubblico», o meglio scompariranno fra la gente. Ci saranno centinaia di arresti, cui seguiranno centinaia di rilasci. Ma solo mesi dopo, se e quando gli occupanti americani e le forze collaborazioniste afghane avranno messo stabilmente piede nella zona, fatto accordi coi capi locali e cominciato a realizzare qualche progetto civile (un pozzo, una  stradella, un ospedaletto) si saprà se la cosa è andata a buon fine oppure no. Di solito no. «Ma a quel punto  l’interesse delle redazioni è svanito, il che non dispiace ai generali perchè la guerra dell’informazione è vinta».

Dopo nove anni, del resto, cosa aspettarsi? Ogni comando belligerante sa recitare alla perfezione la sua parte, la messinscena dell’ennesima «offensiva risolutiva» e della «risoluta resistenza» prima di sparire. E’ un copione tante volte recitato, e nessuno ha proprio voglia di esporsi alla morte inutile. (Success in media, but true test is still to come in Afghanistan)

L’unico che ha veramente bisogno di una vittoria, o di qualcosa che possa chiamarsi tale, è il presidente Barak Hussein Obama: e non solo perchè ha bisogno di un qualche successo in una delle due guerre prima di cominciare la terza contro l’Iran come gli ingiunge la nota lobby, ma per ragioni squisitamente interne.

Un numero incredibile di senatori del suo partito, il democratico, annunciano uno dopo l’altro di non volersi presentare alle elezioni di novembre, tanto certi sono della sconfitta. E si tratta di un partito che nel 2008 ha conquistato la Casa Bianca con un’enorme maggioranza, 59 seggi senatoriali su 100, sull’onda di un vero entusiasmo popolare, dopo un decennio della disastrosa presidenza Bush e dei repubblicani. (Barack Obama faces mid-term humiliation after Senate exodus)

I politici democratici disertano in massa, abbandonando il presidente «Yes-We-Can»; quando cominceranno a farlo i Marines?

John Podesta, che è stato dello staff durante la presidenza di Bill Clinton, e poi capo del «transition team» di Obama fino a ieri, ha detto patetico: «Il presidente ha perso il controllo della narrativa nazionale », e che «non basta un discorso ogni tanto». Quando si perde la narrativa, nel virtualismo americano, è peggio che perdere una guerra: può albeggiare la realtà.




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