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“Fratelli traditi” — I cristiani di Siria
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Introduzione

Gian Micalessin, giornalista inviato di guerra, dal 2012 è stato numerose volte in Siria ed ha raccolto quanto ha potuto constatare sul conflitto siriano in un libro molto interessante e ben documentato, intitolato Fratelli traditi. La tragedia dei cristiani in Siria. Cronaca di una persecuzione ignorata (Milano, Cairo, 2018), su cui mi baso per la stesura del presente articolo.

L’Autore non si limita a narrare quanto ha visto e sentito, ma fa anche un’analisi molto profonda degli avvenimenti bellici siriani e degli intrecci geopolitici alla loro origine. Egli spiega, così, come il sostegno e gli appoggi garantiti ai jihadisti per abbattere il regime di Bashar al-Assad abbiano permesso e favorito la nascita e lo sviluppo dell’Isis. Infatti a partire dal 2011 l’Europa e gli Usa hanno assistito indifferenti al dramma dei siriani e dei cristiani di Siria, perseguitati dall’Isis e da al-Qaeda. Micalessin non esita a parlare di vero e proprio “tradimento” dei cristiani siriani da parte dell’Europa e dell’Occidente verbalmente “cristiani”, che hanno voluto illudersi sulla bontà delle cosiddette “primavere arabe”, le quali sotto apparenza di libertà e democrazia hanno favorito l’ascesa in Siria dei Fratelli Musulmani e degli islamisti fondamentalisti (come era successo in Iraq, in Libia, in Tunisia e in Egitto). Da questa “rivoluzione primaverile” siriana, appoggiata e finanziata dall’America di Barack Obama e dall’Europa, è iniziato il tentativo di consegnare anche la Siria al fondamentalismo islamista, scongiurato solo dall’intervento della Russia di Putin.

I cristiani di Siria sono stati i primi a denunciare questo equivoco, come dimostra il libro di Micalessin, ma non sono stati creduti, anzi son stati accusati di essere i complici del regime di Assad dalla maggior parte dei governi occidentali ed europei, che dovrebbero essere “fratelli nella fede” dei cristiani siriani.

Nel presente articolo seguiamo l’Autore nel suo appassionante e pericoloso giro fatto in Siria durante la guerra iniziata nel 2011 e non ancora terminata e cerchiamo di capire le analisi che ha fatto su quel che ha constatato. La lezione che se ne trae mi sembra sia che quel che è successo in Siria potrebbe succedere ben presto anche in Europa, data la massiccia immigrazione o invasione di islamisti, caldeggiata dalle forze politiche liberaldemocratiche, laiciste, socialcomuniste, cristiano-progressiste e massoniche nel Vecchio Continente. Infatti, come scrive Micalessin, “tradendo i cristiani di Siria abbiamo tradito anche noi stessi”.

La situazione siriana nel settembre 2012

Nel settembre 2012 Micalessin arriva in Siria quando il conflitto è iniziato già da 18 mesi. Ha un interprete cattolico di nome Samaan. Egli scrive: “Nei mesi precedenti ho viaggiato tra Egitto, Libia e Tunisia. Là dove i miei colleghi intravvedevano lo sbocciare di una nuova democrazia, io scorgevo i vagiti di un nuovo fondamentalismo alimentato dai soldi del Qatar e dall’ideologia dei Fratelli Musulmani. Da queste parti le cose non mi sembrano mettersi meglio” (cit., p. 13).

Padre Hanna Jallouf

Il primo incontro ottenutogli da Samaan avviene con padre Hanna Jallouf, il quale gli confessa: “È incominciato tutto nell’estate dell’anno scorso (2011) quando i ribelli scesi dal confine turco hanno conquistato il villaggio di Knayeh. Quando sono entrati si son trovati davanti quel che restava della guarnigione governativa: 83 soldati. Non avevano più munizioni, volevano arrendersi. Non glielo hanno concesso. Li hanno catturati, legati e poche ore dopo li hanno uccisi. […]. Dopo quei giorni nulla è più lo stesso. L’esercito governativo circonda la zona, chiude in una morsa le comunità cristiane controllate a loro volta dai ribelli. Questi ultimi sembrano incapaci di governare il territorio, non sembrano interessati a garantire ordine e sicurezza. Come cristiani cerchiamo di restare neutrali, ma credimi è difficile avere fiducia. I ribelli non hanno la struttura e l’organizzazione di un vero esercito. Sono piuttosto delle bande che si muovono alla rinfusa. Più parlo con i loro capi più comprendo quanto i loro progetti siano confusi e pericolosi. Molti, moltissimi sono d’ispirazione integralista, almeno il 40% sono dei fanatici mandati avanti e finanziati da Paesi stranieri. Nei nostri villaggi i rapimenti sono oramai all’ordine del giorno. I figli dei cristiani vengono catturati per strada e le famiglie ricattate. Ogni settimana dobbiamo fare delle collette per riuscire a riaverli. Non rapiscono solo i cristiani, ma anche i musulmani moderati” (pp. 21-22).

Micalessin, stupefatto, si chiede: “Il suo racconto sembra l’esatto opposto di quello che giornali e televisioni vanno raccontando da 18 mesi a italiani e europei. Tutti sembrano indicare come unico colpevole Bashar al-Assad e il suo esercito” (cit., p. 22).

Siccome il giornalista pone a padre Hanna questa stessa domanda, il religioso gli risponde: “Noi siamo prigionieri della guerra, voi di messaggi distorti e parole false. L’esercito è accusato di compiere dei massacri, ma quando, e se succede, è perché non riesce a distinguere, perché i ribelli vanno a rifugiarsi nei villaggi e si fanno scudo dei civili” (ivi).

La triste realtà è che l’Occidente e l’Europa hanno abbandonato i cristiani di Siria, anzi non li hanno neppure voluti ascoltare o addirittura li hanno condannati come partigiani di una “feroce” dittatura. Nessuno, da noi, vuol dare ascolto alle denunce che arrivano da molte località come Knayeh. Inoltre come si vede anche i ribelli moderati o l’Esercito Siriano Libero (antigovernativo) non sono molto diversi, quanto alla sostanza, da al-Qaeda e dall’Isis; certamente quanto al modo di fare sono meno brutali e feroci, però la sostanza non cambia.

Per esempio a Rablah “per oltre 10 giorni, 10 mila greco-melchiti arroccati nella cittadina restano in balìa di quell’Esercito Siriano Libero che è già profondamente infiltrato da unità e comandanti d’ispirazione salafita, ben lontano dunque da quell’immagine di formazione moderata offerta dai media occidentali. Durante quei giorni i cecchini dell’Esercito Siriano Libero sparano indiscriminatamente sugli abitanti. Gli unici a parlarne sono i dispacci dell’Agenzia cristiana Fides” (p. 25).

La persecuzione contro i cristiani in Siria, riflette Micalessin, è “germogliata assieme ai primi vagiti della cosiddetta rivoluzione, ma che tutti in Siria e altrove si sforzano di tenere nascosta” (p. 26).

Solo i cristiani di Siria hanno parlato chiaro e forte sin dall’inizio. Infatti l’esempio dell’Iraq, dove fratelli nella fede dopo la caduta di Saddam Hussein sono stati costretti ad un esodo in massa, e quello dell’Egitto, dove la semplice prospettiva di un governo islamista è stata accompagnata da feroci attacchi contro i cristiani mai vista durante la presidenza di Hosni Mubarak, hanno aperto gli occhi ai cristiani siriani.

Suor Agnès-Mariam de la Croix

Suor Agnès, una carmelitana greco-melchita, che vive nel convento di San Giacomo Mutilato di Qara, nella diocesi di Homs, denuncia chiaramente il clima di persecuzione venutosi a creare dopo la “primavera siriana”, che definisce: “Non un genocidio, ma una liquidazione su larga scala da parte di un terrorismo camuffato da resistenza armata. Inoltre tutte le atrocità commesse durante la guerra vengono poi attribuite alle forze governative grazie ad un uso distorto dei media” (p. 29).

Ma, commenta Micalessin, “la voce di Suor Agnès e dei pochissimi altri pronti a denunciare la sorte dei cristiani siriani sono voci nel deserto. Anche davanti a morti e sfollati, giornalisti e responsabili di televisioni preferiscono non violare le regole di un’informazione politicamente corretta. È questa un’informazione che impone di parlare di ‘rivoluzione’ siriana come di un evento positivo caratterizzato dalla lotta di ribelli assolutamente moderati e democratici contro un regime dittatoriale colpevole di uccidere e sterminare il proprio popolo. Nell’ambito di questa palese deformazione mediatica, i morti cristiani diventano pezzi di carne ingombranti. […]. Questa verità, codificata e adulterata, diventa così il metodo per nascondere i massacri compiuti dai gruppi ribelli e terrorizzare le comunità colpevoli di collaborare con il governo” (p. 31). Spesso succede che un massacro compiuto dai ribelli siriani venga tranquillamente attribuito all’esercito regolare e che la Comunità Internazionale oppure l’Onu non attendano neppure l’ispezione degli osservatori della Nazioni Unite, basati a Damasco, per denunciare a priori le responsabilità del governo siriano, sempre colpevole. Il rapporto dell’Onu diffuso nei giorni successivi attribuisce implicitamente ogni responsabilità all’esercito di Assad. Una mozione di condanna della Siria presentata dal Consiglio di Sicurezza viene bloccata solo dal voto della Russia. Tuttavia una dettagliata condanna politica del governo di Damasco arriva dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che pretende anche un’inchiesta internazionale su eventuali crimini di guerra. L’episodio viene preso a pretesto per espellere dagli Usa e da 11 altri Paesi (tra cui l’Italia) il corpo diplomatico siriano e la chiusura delle rispettive ambasciate. Un esempio lampante di queste manipolazioni è quello successo per la strage di Houla, in cui il 25 maggio 2012 i ribelli attaccarono l’esercito regolare. Dopo la battaglia i media diffusero foto di corpi straziati dei ribelli, ma il fotografo di guerra Franco Di Lauro si accorse che quelle foto erano state scattate proprio da lui in Iraq nel 2003, all’indomani della caduta di Saddam, e si trovavano ancora sul suo sito web… (p. 33). Insomma “un massacro commesso con tutta probabilità dai ribelli siriani viene tranquillamente attribuito all’esercito regolare” (ivi).

Il fatto triste è che l’Europa, una volta cristiana, cancella dalla storia e dalla sua memoria l’esistenza di 2 milioni e mezzo di confratelli siriani. “Per capirlo bastano i comunicati con cui, in quei primi 18 mesi di conflitto, l’Unione Europea condanna il regime, vara sanzioni alla Siria e appoggia apertamente i ribelli. Il tutto senza mai spendere una parola a favore della minoranza cristiana nel mirino” (p. 35).

Equidistanza vaticana

“All’evidente parzialità di un’Europa apertamente schierata con i rivoltosi si aggiunge la paradossale incapacità delle varie chiese cristiane di farsi ascoltare non solo dai governi europei, ma a volte persino dal Vaticano. […]. Mentre il vescovo caldeo di Aleppo, Monsignor Antoine Audo, esprime apertamente la propria inquietudine per l’avanzata dei ribelli, il nunzio apostolico a Damasco, Mario Zenari, sembra più preoccupato di mantenere un’assoluta equidistanza…” (p. 37).

La deputata cristiana Maria Saadeh

Maria Saadeh è una delle 30 donne, che siedono nel Parlamento siriano composto da 250 membri. In Siria i candidati sono scelti dal partito Baath, poi avvengono le elezioni. Il fatto che il Baath abbia scelto la Saadeh, secondo Micalessin, è altamente simbolico. Infatti “mentre gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra appoggiati dall’Arabia Saudita, dal Qatar e dalla Turchia chiedono la rimozione del Presidente siriano, mentre i media fanno a gara nel condannare un Bashar al-Assad oramai già consegnato a quella galleria degli orrori riservata in precedenza a Saddam Hussein e Muammar Gheddafi, il regime siriano tenta di offrire un’immagine diversa di sé. Da questo punto di vista Maria Saadeh è la donna perfetta per proiettare all’estero un’immagine gradevole e accettabile” (p. 46).

Ella chiede provocatoriamente a Micalessin e alla sua guida: “Conoscete oltre a Damasco un’altra città del Medio Oriente arabo e islamico dove le donne sono libere di girare in gonna oppure coperte dal velo da testa a piedi? No, l’unico Paese in cui possono farlo è qui in Siria. Nelle città che cadono sotto il controllo dei ribelli accade esattamente l’opposto” (p. 55).

Tuttavia la Saadeh puntualizza che per lei e per i cristiani di Siria nel Paese non c’è posto per le formazioni jihadiste, per l’Isis o al-Qaeda. Infatti, pur avendo una visione laica della Società, ritiene che non ci possa essere posto per i gruppi islamisti intolleranti nei confronti delle minoranze. “Il multipartitismo non significa aprire la porta a chi vuole sconfiggerti con la forza delle armi e della violenza perché questo significa non solo suicidarsi, ma anche passare da una dittatura ad un’altra ancora peggiore. E del resto a che serve dialogare con salafiti e wahabiti, che prendono ordini dall’Arabia Saudita, dalla Turchia e dal Qatar? Sono pedine manovrate dai nostri veri nemici, da quelli che vorrebbero svuotare il Paese dai cristiani” (p. 58).

Bashar al-Assad sugli altari (2000) e nella polvere (2011)

Agli inizi del 2000 il Bashar (giunto al potere dopo la morte improvvisa di suo fratello Basil nel 1994), dipinto oggi come un mostro e un assassino, veniva allora presentato come l’uomo su cui puntare per cambiare il volto della Siria, spingendola verso la modernizzazione. A questo proposito Maria Saadeh dice a Gian Micalessin: “A quel tempo non c’era uno che non descrivesse Bashar come il simbolo del cambiamento e della speranza anche se nessuno sapeva ancora chi fosse veramente e cosa sarebbe potuto diventare. Non lo sapevamo neppure noi siriani, che però, a differenza di voi, ci facevamo molte meno illusioni. Sapevamo che per un bel po’ di tempo avrebbero continuato a comandare i servizi segreti. Mentre voi lo veneravate come il Messia, portatore di democrazia e di libertà, lui non contava ancora niente perché le leve del potere erano ancora nelle mani degli amici di suo padre” (p. 47).

Invece “dal marzo del 2011 i principali media internazionali raccontano, in una cantilena monocorde, le nefandezze di Bashar al-Assad, il dittatore accusato di sterminare il suo popolo e di strozzare nella culla l’ultima delle primavere arabe. Se non parlassimo di una tragedia sarebbe una farsa. Le testate internazionali impegnate ad attribuire sempre nuove liste di atrocità al mostro Bashar sono le stesse che nel luglio 2000, all’indomani della sua prima elezione, lo descrivevano come l’uomo nuovo” (p. 48).

Secondo Micalessin il “dittatore” Bashar non ha né il volto, né la postura di un tiranno autocrate (p. 51). “Nei tratti e nei modi non leggi la fredda determinazione di un assassino, né la calcolata ferocia di un massacratore. Non ha lo sguardo incarognito di un Saddam Hussein nei momenti peggiori. Non ricorda neppure da lontano il bizzarro egocentrismo di Muammar Gheddafi. Il suo volto e il suo aspetto sembrano piuttosto quelli di un medio tecnocrate occidentale. Quel signore in completo blu e grigio sembra decisamente poco conforme all’immagine di un sanguinario dittatore e massacratore del proprio popolo ritagliatagli addosso dai media internazionali dopo il marzo 2011” (p. 52).

Prima del 2011 molti politici famosi si schierarono con Assad. Per esempio il senatore John Kerry, Segretario di Stato del Presidente Obama, nel febbraio del 2009 andò in visita ufficiale a Damasco e cenò anche con Bashar al-Assad. Anche l’ex Presidente francese Sarkozy nel dicembre 2010 invitò a cena all’Eliseo Bashar, ma appena un anno dopo si mise in prima linea nel chiedere la testa di Assad. Per non parlare dell’Italia, che nel 2002 strinse eccellenti accordi con la Siria, ma ruppe con essa dopo le sanzioni imposte dall’Europa nel 2012. L’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, l’11 marzo del 2010, assegnò a Bashar l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce, esprimendo il suo “apprezzamento per l’esempio di laicità e apertura che la Siria offre in Medio Oriente”. Due anni dopo, nell’agosto del 2012, Napolitano si rimangiò tutto accogliendo la richiesta del governo presieduto da Mario Monti di revocare l’onorificenza ad Assad.

Ma cosa successe nel 2011? Micalessin spiega che “nei primi giorni della rivolta in quel di Darra (vicino Homs), Atef Najib, responsabile della sicurezza e cugino del Presidente Assad, rispose con arresti indiscriminati, violenze e sparatorie alle manifestazioni seguite agli arresti e alle torture dei ragazzini colpevoli di aver coperto di scritte anti-regime alcuni edifici. Fu quell’errore a far scattare la scintilla della rivolta che in pochi giorni incendiò il Paese. Da allora il regime cerca disperatamente una formula capace di far dimenticare quel disastroso esempio di alterigia e tracotanza” (p. 63). La formula trovata è la “mussalaha”, ossia la “riconciliazione”, che venne trovata da padre Michel Naaman che opera nei pressi di Homs assieme ad altri preti cristiani impegnati a cercare di riconciliare il governo siriano con le fazioni meno intransigenti della rivolta, isolando i gruppi salafiti e alqaedisti. La guida Saaman ottiene a Micalessin un incontro con padre Michel, il quale mostra ai due il triste spettacolo che offre Homs dopo l’invasione dei ribelli e spiega che essi erano in maggior parte “stranieri, fanatici, integralisti salafiti. Schiere di maghrebini, sauditi, iracheni, libici si sono impossessati di questa rivoluzione e ne sono diventati i protagonisti. All’inizio con i ribelli ci potevi parlare, li conoscevo tutti. Adesso quelli che comandano sono quasi tutti stranieri. Quando parlo con i siriani trovare la strada della riconciliazione non è mai impossibile. Il governo è disposto a perdonare chi depone le armi. L’unica condizione è l’allontanamento di tutti gli stranieri e di quelli che professano le ideologie più estreme. Ma quando si mettono di mezzo gli stranieri e gli estremisti tutto diventa impossibile. A quelli non interessa la pace. La Siria, per loro, è solo il primo passo verso la conquista di tutto il Medio Oriente. Un altro problema è la scarsa collaborazione della Comunità Internazionale. Da quanto ho visto sin qui essa non è interessata a questo genere di pace. Il loro obiettivo è il cambio di regime. Non lavorano per la pace, cercano solo di creare le condizioni per un intervento armato dell’Europa e degli Usa” (p. 67).

Dietro le quinte della guerra

Se si guarda dietro le quinte della guerra siriana, secondo Micalessin, è evidente sin dai primi tempi che “l’Amministrazione statunitense di Barack Obama – appoggiata in Europa da Francia e Inghilterra e in Medio Oriente da Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi e Turchia – non punta a una soluzione pacifica del conflitto quanto a un epilogo di stampo libico segnato dalla messa fuori gioco di Bashar al-Assad e della sua corte” (p. 68).

Ma nei primi mesi di guerra era ancora difficile capire le dimensioni del patto stretto dalle principali Potenze occidentali con i Fratelli Musulmani e le forze jihadiste d’ispirazione wahabita e salafita. “Solo oggi quel patto, destinato a favorire la nascita dello Stato Islamico (Isis) a cavallo del confine siriano-iracheno, emerge in tutto il suo folle e sconvolgente autolesionismo” (ivi).

Secondo Micalessin la Cia prima iniziò a collaborare con i jihadisti in Libia, affinché recuperassero gli arsenali bellici di Gheddafi e li consegnassero ai ribelli siriani, facendole transitare dalla Turchia, ma l’11 settembre del 2011 a Bengasi in Libia venne ucciso l’ambasciatore americano, Christopher Stevens, che era stato incaricato dal Dipartimento di Stato americano di collaborare alla traslazione delle armi dalla Libia in Siria. Dopo l’uccisione dell’ambasciatore i trasferimenti di armi dalla Libia vennero bloccati, ma chiusa l’arteria di Bengasi la Cia aprì sùbito la “via dei Balcani”, in cui da Zagabria le armi (ammassate nel tempo della guerra dell’ex Jugoslavia) arrivavano in Siria tramite i sauditi con il beneplacito della Cia.

Nel dicembre del 2013 Obama decide di fornire armi letali ai ribelli siriani e così gli Usa girano ai sauditi 15 mila missili anticarro Tow. “La distribuzione di quei missili, a partire dal 2014, ribalta gli assetti sul terreno e trasforma i ribelli in un vero e proprio esercito capace di combattere alla pari i carri armati siriani. Anche questa volta le armi americane, movimentate dai sauditi finiscono prevalentemente nelle mani dei gruppi oltranzisti. Gli americani dopo la strage dell’11 settembre del 2001 [che sarebbe stata organizzata da al-Qaeda, ndr] non muovono un dito per impedire che le ‘loro’ armi [rubate al povero Gheddafi, ndr] finiscano in mano a gruppi apertamente legati ad al-Qaeda. Non si tratta di una svista, i funzionari statunitensi sanno che le armi finiscono in mano dei gruppi estremisti dell’islam jihadista e di al-Nusra, la costola siriana di al-Qaeda. Ciò provoca l’indebolimento dei gruppi siriani moderati che ruotano attorno all’Esercito Siriano Libero. L’intelligence del Pentagono non solo è al corrente, sin dal 2012, della possibile nascita di uno Stato Islamico in Siria, ma arriva a considerarlo uno sviluppo favorevole nell’ottica di isolare il regime siriano e far cadere Bashar al-Assad” (pp. 73-74). I cristiani di Siria vengono dimenticati e traditi non solo dagli Usa, ma anche dall’Italia…

L’Italia e i cristiani di Siria

Nell’autunno del 2012 la deputata Maria Saadeh sta per venire in Italia per raccontare la verità sulla situazione siriana. Alla direzione del governo italiano in quel tempo c’era Mario Monti. La Saadeh stava per ottenere il visto per sbarcare in Italia, ma Giulio Terzi, il Ministro degli Esteri, intervenne personalmente per annullarlo e per raccomandare a tutte le ambasciate italiane di bloccare in futuro qualsiasi visto a rappresentanti del governo siriano. Inoltre il ministro Terzi, intervenendo al tavolo Interministeriale sulla Siria, il 3 settembre 2016, parlò di “transizione siriana”, ossia di passaggio del potere da Bashar ad altri e non nominò neppure una sola volta le comunità cristiane di Siria. Inoltre “non pago di scommettere su un’imminente caduta di Bashar al-Assad il ministro arriva persino a sostenere la causa di Mohamed Morsi il Presidente egiziano, espressione dei Fratelli Musulmani, che in quei mesi stava trascinando l’Egitto sulla strada della sharia e del radicalismo musulmano. Insomma, l’Italia non paga di soggiacere alle linee di politica internazionale dettate da Washington e Bruxelles, si allinea anche a quelle dei Fratelli Musulmani ed arriva persino ad ipotizzare un intervento militare per garantire la vittoria dei ribelli jihadisti. Infine Terzi, scrupolosissimo nel tener lontano dall’Italia una deputata cristiana, non esita a ricevere alla Farnesina rappresentanti della ribellione siriana conosciuti per le loro visioni radicali ed estremiste” (p. 77).

I jihadisti italiani

Micalessin riporta due casi inquietanti. Quello di Haisam Sakhanh, un siriano residente a Cologno Monzese, che assieme a una trentina di militanti schierati contro il governo siriano, il 16 luglio del 2012, assalta con spranghe e bastoni il Bar Millennium, gestito da due siriani cristiani. L’assalto è devastante, nel bar non resta nulla di intatto e uno dei due gestori finisce all’ospedale con gravi ferite alla testa. La Digos comincia a tenere gli occhi su Haisam, che frattanto sfrutta l’entusiasmo occidentale per le “primavere arabe” per presentarsi come paladino di libertà e democrazia e viene addirittura ospitato da Gad Lerner nel novembre del 2011 alla trasmissione da lui condotta (L’Infedele) su “La7”. Addirittura il 10 febbraio del 2012, con una dozzina di militanti integralisti, Haisam fa irruzione nell’ambasciata siriana di Roma e la devasta. La polizia ferma 12 persone, tra cui Haisam individuato come l’organizzatore del blitz. Interrogati, vengono rinviati a giudizio, ma ben presto Haisam torna libero e continua a condurre il gruppo di integralisti islamici basato a Milano e dintorni. Qualche mese dopo Haisam lascia l’Italia e raggiunge la Turchia per entrare in Siria assieme ad altri ribelli. “La sua faccia ricompare in un inquietante video girato nell’aprile del 2012 nella provincia di Idlib e pubblicato nel settembre del 2013. In quel video Haisam Sakhanh è il protagonista, assieme ad altri militanti, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati” (p. 81).

Ancora più inquietante è il caso dell’imam siriano, Bassam Ayachi, e dell’ingegnere francese convertitosi all’islam, Raphael Gendron, i due segnalati come fiancheggiatori del terrorismo islamista e sospetti militanti di al-Qaeda, vengono arrestati l’11 novembre del 2008 al porto di Bari, “nel 2011 arriva la condanna a 8 anni per aver guidato una cellula terroristica pronta ad entrare in azione in Italia, Francia, Belgio e Regno Unito. Incredibilmente nel 2012 il processo di appello si conclude con una sentenza di assoluzione per entrambi gli imputati, sentenza confermata in Cassazione nel 2013. Nel frattempo i due hanno approfittato dell’inattesa liberazione per raggiungere i fronti di al-Qaeda in Siria. Tuttavia mentre Bassam perde un braccio in un attentato, Gendron muore in un combattimento” (p. 83).

La battaglia di Aleppo

La guerra viene portata ad Aleppo dalla Fratellanza Musulmana, foraggiata dal Qatar, mediante la “Brigata del Tawhid”, ispirata al concetto dell’unità e unicità di Dio, caposaldo del pensiero salafita e jihadista, che si trova alla base dell’ideologia dei Fratelli Musulmani, ma anche di quella di al-Qaeda e dell’Isis. Creata per conquistare Aleppo la Brigata si prefigge di creare uno Stato in cui l’islam sia la principale fonte legislativa. “Insomma mentre la stampa occidentale si culla nell’illusione di una rivolta moderata e laica pronta ad entrare in Aleppo, il Qatar, i Fratelli Musulmani e i loro alleati salafiti puntano a creare uno Stato basato sulla sharia. Ma ad Aleppo il fondamentalismo e il radicalismo musulmano mostrano tutta la loro debolezza. Quando il 19 giugno del 2012 i ribelli sotto la guida della Brigata al-Tawhid muovono all’assalto di Aleppo circa il 70% della sua popolazione sta dalla parte del regime: la città sta con Assad” (p. 88).

Micalessin riesce ad avere un colloquio anche con Monsignor Antoine Audo, Vescovo caldeo di Aleppo, che gli confessa. “in tutto questo, ciò che ci fa più paura è la lontananza dell’Europa. Da Roma a Parigi sino a Bruxelles, voi europei sembrate aver dimenticato che la nostra presenza qui è una realtà storica precedente all’arrivo dei musulmani. A volte sembra che ci guardiate come degli intrusi. Oramai tutti i vostri interessi sono concentrati sull’economia e sulla sicurezza, siete sordi e ciechi davanti ai problemi della fede e della cultura. Per noi non è così. Noi da 2000 anni viviamo come esperienza quotidiana la fedeltà a Cristo e al Vangelo. Per noi la fede non è una moda, qualcosa da comprare e poi buttare. Per noi il Cristianesimo e la fede sono ancora una questione di vita e di morte” (p. 103).

Ad Aleppo l’Autore e la sua guida incontrano anche un’italiana, nata a Portomaggiore in provincia di Ferrara, di nome Caterina, la quale confessa: “Dov’è questa terribile dittatura? Io sono cristiana, ma posso pregare il Dio che amo, appendermi una croce al collo e girare senza che nessuno mi dica niente. I vostri amici, gli amici dell’Europa, vanno in giro a sgozzare la gente in nome di Dio” (p. 104).

Poi Micalessin incontra padre Ignace Dick, vicario generale di Aleppo, il quale dice: “Molti di quelli che chiamate ribelli non sono neanche siriani. Sono libici, sauditi, maghrebini… è gente che arriva un po’ da tutte le parti e lo fa per soldi. Noi cristiani non siamo certo d’accordo col regime siriano in tutto, ma per il momento questo regime è una diga contro il terrorismo e l’islamismo intransigente. I Paesi occidentali non possono imporci un cambio di regime. Non sono affari loro!” (p. 106).

Ritorno in Siria

Nel frattempo Micalessin torna in Italia e mentre sta presentando un documentario sulla persecuzione dei cristiani in Siria, il 21 agosto del 2013, la redazione del quotidiano su cui scrive (Il Giornale) lo informa che a Damasco c’è stato un attacco chimico, non si sa ancora chi sia stato, ma occorre approfondire. Le immagini che può vedere via internet sono strane. I medici intervengono senza maschere e guanti di protezione, ma ancor di più strano è il fatto che i due attacchi chimici sono stati fatti con due missili che disperdono circa 500 litri di gas sarin su due città (in mano ai ribelli) vicinissime a Damasco (in mano al governo). Ora il gas facilmente sarebbe arrivato dalle due città colpite a Damasco, spinto dal vento. Inoltre a Damasco è presente proprio in quei giorni una delegazione di osservatori delle Nazioni Unite incaricati esattamente di accertare il possibile uso di armi chimiche da parte del governo…

“La Siria possiede enormi quantità di armi chimiche. Fin dai primi mesi della guerra è stata avvisata di non utilizzare quelle armi. L’avvertimento più specifico l’ha formulato, il 20 agosto 2012, Barack Obama, spiegando che non ha nessuna intenzione di intervenire sul suolo siriano… a meno che Bashar al-Assad impieghi le terribili armi di distruzione di massa. La chiarezza dell’enunciato di Obama è un monito alla Siria per farle capire che gli Usa potrebbero entrare in guerra contro lei, se usasse le armi non convenzionali, ma nello stesso tempo sono un elemento altamente provocatorio e destabilizzante. L’esistenza di quel monito spinge da quel momento i ribelli a far di tutto per dimostrare, fondatamente o meno, che il governo siriano lo ha violato. “Non a caso dopo l’intervento di Obama si moltiplicano le segnalazioni sull’utilizzo di armi chimiche da parte del regime. L’arrivo a Damasco della Delegazione di Osservatori delle Nazioni Unite, tre giorni prima del duplice attacco, è legato alle indagini su un precedente, presunto utilizzo di armi chimiche avvenuto il 19 marzo 2013 a Khan al-Asal, un villaggio controllato dal governo a 12 chilometri da Aleppo. Un mese dopo il magistrato svizzero Carla Del Ponte annuncia la presenza di prove che assolvono il regime e dimostrano l’impiego di armi chimiche da parte degli insorti” (p. 136).

Tutto questo insieme di fatti rende Micalessin molto cauto sulle accuse che piovono su Bashar al-Assad sin dalle prime ore del dopo-attentato. Egli si reca a Damasco e chiama sùbito la sua fedele guida, Samaan, il quale abita a Damasco a un paio di chilometri in linea d’aria dalle zone in cui son piovuti i missili. Samaan gli dice immediatamente: “Gian, a me sembra molto strano. Hai visto quei bambini morti? Sembravano messi lì apposta, tutti allineati perfettamente e non si conosce neppure il nome delle loro famiglie. Ma soprattutto mi chiedo quale generale o uomo politico si assumerebbe il rischio di usare i gas in una zona così vicina ai nostri quartieri. Bastava che girasse il vento e quei gas sarebbero arrivati sulle case nostre e, prima ancora, sulle linee del nostro esercito impegnato a bloccare i ribelli. Temiamo sia una trappola per spingere l’America a bombardarci” (p. 132).

Tuttavia l’interpretazione comune e politicamente corretta data dai media e dai politici occidentali ritiene Bashar colpevole di aver utilizzato le armi chimiche. Ma, come osserva Micalessin, “solo un pazzo ordinerebbe un attacco chimico contro una postazione insignificante e vicina alle proprie postazioni. E poi perché? Per quale motivo? Per rischiare un intervento americano e fare la fine di Saddam Hussein? Non c’è logica” (p. 138).

Sembrerebbe che oramai l’America e l’Europa marcino inesorabilmente verso la guerra contro la Siria.

La tragedia di Maalula

Maalula è un villaggio cristiano a 50 chilometri da Damasco. Il 5 settembre 2013 molti cristiani hanno abbandonato Maalula a causa dei colpi di mortaio dei miliziani qaedisti, ma la battaglia infuria ancora. Un commerciante di questo antico villaggio aramaico cristiano, che incontra Micalessin e la sua guida racconta loro che “il nostro errore è incominciato anni fa, quando abbiamo dato il permesso a quei musulmani di vivere assieme a noi. A quel tempo nessuno pensava che sarebbero diventati i nostri carnefici” (p. 155). Queste considerazioni dovrebbero far riflettere anche noi, che accogliamo senza criterio e discernimento centinaia di migliaia di islamisti nei nostri Paesi una volta cristiani.

Intanto a Maalula i cristiani si organizzano, si armano e si preparano a difendere il loro villaggio. Micalessin vede un miliziano al suo fianco baciare un crocifisso e urlare: “La Croce ci protegge, siamo pronti a morire per Maalula!”.

Il sindaco di Maalula, Nashi Wahba, dice sconsolato: “La cosa più folle è che al-Qaeda sta distruggendo il nostro villaggio mentre Obama, il presidente di un’America vittima dell’11 settembre, cerca una scusa per attaccarci anziché difenderci. In Occidente mi sembrate tutti impazziti” (p. 158).

La battaglia infuria, i miliziani islamisti sembrano avere la meglio. Un abitante di Maalula dice a Micalessin: “A voi cristiani d’Europa andrà peggio. In fondo noi cristiani di Siria conosciamo il nostro destino. Alla fine dovremo abbandonare le nostre case o farci uccidere tutti. Ma a voi non andrà meglio. È solo questione di tempo… prima o poi assalteranno anche le vostre case e le vostre città, incominceranno ad uccidere i cristiani anche in Europa. Ma i più fortunati siamo noi, che sappiamo chi sono i nostri assassini e perché lo fanno. Voi, perduti nella vostra indifferenza, verrete conquistati e uccisi senza neppure sapere perché” (p. 170). Il 13 novembre del 2015, 2 anni dopo la vicenda di Maalula, a Parigi gli integralisti musulmani compiono un grave attentato che sciocca tutta l’Europa…

Il Patriarca Gregorio, del monastero di S. Tecla in Damasco, dice a sua volta: “Non so se voi in Italia e in Europa riuscite a capirlo… qui ci stanno buttando fuori dalle nostre case, ci stanno ammazzando soltanto perché non accettiamo il loro credo. E voi che fate? Non solo restate a guardare, ma li difendete. Incominciò così anche a Baghdad nel 2003 quando i cristiani, vissuti in pace sotto il regime di Saddam Hussein, incominciarono a fare i conti con la piaga dei sequestri seguìti poi dagli attacchi alle chiese” (p. 172).

Maalula è l’episodio più conosciuto, ma vi sono stati anche molti altri massacri ignorati volutamente. Per esempio a Sadad, il 21 ottobre 2013, si compie “uno dei peggiori massacri di cristiani messo a segno dai ribelli jihadisti durante tutto il conflitto siriano” (p. 174). 45 civili innocenti, tra cui molte donne e bambini, sono stati martirizzati senza alcuna ragione e gettati in fosse comuni. “I media europei e quelli americani ignorano platealmente il massacro dei cristiani di Sadad. E altrettanto fanno i politici dalla Casa Bianca a Bruxelles sino alle singole cancellerie europee. A questo silenzio s’adegua purtroppo anche la S. Sede da cui non escono né una riga, né una parola di condanna per il massacro” (p. 176).

Invece i cristiani di Siria sanno riflettere, capire e reagire. A Maalula si forma una milizia cristiana di 250 soldati capitanata da Toni Houri, che prima faceva il meccanico. Egli dice: “Ho imbracciato il fucile a settembre quando quelli di al-Qaeda sono entrati nel villaggio. Prima non credevo nelle armi ora però ho cambiato idea. Noi cristiani dobbiamo imparare a difenderci da soli altrimenti non avremo speranze. Un tempo m’illudevo, credevo persino che i musulmani del villaggio facessero da mediatori con i ribelli. Solo dopo mi sono accorto che erano tutti d’accordo. Fingevano di mediare e invece passavano ai ribelli tutte le notizie delle posizioni dell’esercito governativo. Avevamo i traditori in mezzo a noi. Per i musulmani non ci sarà più spazio in questa vallata. Né ora, né quando la guerra finirà. Non li vogliamo più qua. Se ne vadano dove vogliono, ma non s’illudano di poter tornare a vivere in mezzo a noi. Noi credevamo nella convivenza, ma a Maalula ci siamo resi conto  a nostre spese che era solo un inganno. Quelli convivono solo fino a quando son pronti a tagliarti la gola” (p. 184). Speriamo che anche gli europei aprano gli occhi.

Il Vescovo di Aleppo

Monsignor Georges Abu Khazen, Vescovo di Aleppo, è un francescano di origine libanese e non si fa problemi a denunciare l’indifferenza dell’Occidente: “L’Isis può bombardarci a noi cristiani senza che nessuno al mondo si degni di proferire una parola in nostra difesa. I nostri fedeli sono molto stupiti dal vostro atteggiamento, dal vostro disinteresse. In Europa avete dimenticato l’esistenza di comunità cristiane antiche di migliaia d’anni. In Italia vi preoccupate molto per gli orsi e le specie in via d’estinzione, ma non fate niente per evitare lo sterminio di queste comunità costrette a scavarsi la fossa” (p. 213).

Verso una terza guerra mondiale?

La Siria viene paragonata a una Danzica mediorientale, in cui le mire sunnite, con Arabia Saudita, Qatar e Turchia in testa, si contrappongono a quelle dell’Iran alleato di ferro di Assad e portabandiera delle aspirazioni degli sciiti dell’Iraq e di quelli libanesi di Hezbollah.

In Siria lottano per aumentare la loro sfera d’influenza sulla Russia di Putin e l’America di Obama e poi di Trump. Per Mosca la base navale siriana di Tartus è l’ultima base per le navi russe in transito nel Mediterraneo. La Siria per Putin è la piattaforma su cui scommettere per garantire il ritorno della potenza russa in Medio Oriente. Anche l’America - che ha fallito in Iraq, Libia ed Egitto - la Siria è un’occasione molto importante. Israele si muove anch’esso sulla scacchiera siriana. “Per lo Stato ebraico la Siria di Assad difesa dai miliziani di Hezbollah e dai pasdaran di Teheran è l’alter ego dell’Iran, ovvero di un avversario considerato per potenza militare, capacità politiche e scaltrezza strategica il proprio nemico esistenziale. Non a caso Israele manda periodicamente i propri aerei a bombardare i convogli di armi e missili destinati a Hezbollah in transito sul territorio siriano. E non si fa problemi a garantire soccorso e cure mediche nei propri ospedali ai militanti islamisti radicali, feriti negli scontri con l’esercito siriano” (p. 256).

La corsa al gas

Nel devastante conflitto siriano occorre vedere anche uno scontro determinato dalla corsa al gas, la risorsa pulita destinata a diventare la fonte energetica per eccellenza del XXI secolo. Un conflitto che si allarga ai corridoi che ne garantiscono il trasporto. Il 1° gennaio 2001, pochi mesi prima dell’inizio della guerra in Siria, i tre maggiori produttori di gas del mondo sono la Russia, l’Iran e il Qatar, tre nazioni che ritroviamo implicate nel conflitto siriano. Una parte consistente delle risorse di gas si trovano in un giacimento sito tra i confini marittimi dell’Iran e del Qatar. Da questo sito si divaricano interessi assolutamente contrastanti, data l’inimicizia esistente tra Qatar e Iran, che però hanno come obiettivo comune l’Unione Europea, uno dei più grandi acquirenti mondiali di gas sul quale la Russia esercita, grazie a Gazprom e ai suoi gasdotti, un autentico monopolio. Il Qatar, privo di condutture capaci di collegare i suoi pozzi con l’Europa, deve ricorrere alle esportazioni di gas liquido. L’unico modo per invadere il mercato europeo è di competere con Gazprom, avviando la costruzione di un gasdotto che passi attraverso l’Arabia Saudita, la Giordania e la … Siria per poi arrivare in Turchia e puntare sull’Europa. Questo disegno è ben visto dalle multinazionali americane del petrolio vicine al Qatar, che sono decise a ridimensionare il ruolo di Gazprom, ed anche dall’Amministrazione statunitense, che come la Francia e la GB vuol contenere l’espansione della Russia. In quest’ottica “il Qatar, nel 2009, propone a Bashar al-Assad un progetto di gasdotto destinato ad attraversare la Siria per raggiungere la Turchia. Il risultato è un secco rifiuto. Dietro al no di Assad si cela un piano analogo di Iran, Iraq e Siria. Pochi mesi dopo scoppia la guerra siriana. Allora le tre nazioni suddette si accordano per la realizzazione di un gasdotto destinato a collegare il giacimento iraniano alla Siria, attraverso il territorio iracheno. Questo gasdotto sarebbe destinato anche a convogliare verso l’Europa il gas scoperto sia in acque israeliane che sotto le acque territoriali del Libano. Ciò garantirebbe alle tre nazioni sciite (Iran, Siria e Iraq) una potenza economica che preoccupa Israele ed anche gli Usa e le multinazionali del petrolio vicine al Qatar. È anche per questo che il Qatar ha investito nel conflitto siriano finanziando i jihadisti. In Turchia i gasdotti sono pronti a ricevere il gas, ma di mezzo c’è Assad. Il Qatar d’accordo con i turchi vuol rimuovere Assad e installare al suo posto la costola siriana dei Fratelli Musulmani” (pp. 257-258). In fondo è una questione di “affari”… che son costati 450 mila vittime.

L’intervento russo

Il 30 settembre del 2015 scatta l’intervento di Mosca e in meno di un anno ribalta la situazione bellica siriana, che volgeva al peggio per Assad e ad una sicura vittoria dei fondamentalisti, finanziati e armati da Usa, Arabia Saudita, Qatar e Turchia (p. 282).

La mossa di Putin risolleva le speranze del regime siriano ed evita un maggior coinvolgimento dell’Iran in Siria, che rischierebbe di innescare un intervento di Israele. Infatti “per salvaguardare la Siria l’Iran non esiterebbe, in assenza di un intervento russo, a mandare uomini e armi sul territorio siriano. Ma la mossa provocherebbe la reazione di Israele, scatenando un conflitto di proporzioni inimmaginabili. Quindi, puntellando il regime di Assad, Putin evita l’intervento iraniano e una rischiosissima risposta israeliana” (p. 284).

Il Vescovo latino di Aleppo, Monsignor Georges Abu Khazen, osserva: “Nel periodo in cui potevamo contare solo sull’intervento americano, lo Stato Islamico si è addirittura allargato arrivando ad occupare il 50% dei territori siriani. L’intervento russo alla fine ha smascherato quella commedia… con l’intervento russo l’Isis, al-Qaeda e al-Nusra hanno perso buona parte dei loro territori. E quindi noi cristiani con chi dovremmo stare?...” (p. 285).

d. Curzio Nitoglia



 

Bibliografia

Sulla guerra siriana si possono consultare con profitto:

Ibrahim Alsabagh, Un istante prima dell’alba. Siria. Cronache di guerra e di speranza da Aleppo, Milano, Edizioni Terra Santa, 2016.

Alexandre Del Valle – Randa Kassis, Comprendere il caos siriano, Crotone, D’Ettoris Editori, 2017.

Domenico Quirico – Pierre Piccinin da Prata, Il Paese del male. 152 giorni ostaggio in Siria, Vicenza, Neri Pozza, 2015.

Patrick Seale, Il leone di Damasco. Viaggio nel “Pianeta Siria” attraverso la biografia del presidente Hafez al-Assad, Roma, Gamberetti Editrice, 1995.

Joby Warrick, Bandiere nere. La nascita dell’Isis, Milano, La nave di Teseo, 2016.

 

 
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