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Iudaea capta (2)
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Traiano, Adriano, Bar-Kokebà, la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e la distruzione della Giudea

I prodromi di una nuova catastrofe

La mentalità messianico/apocalittica giudaica, di fronte a tanto sfacelo, lungi dallo spegnersi si rafforzò vieppiù. Secondo i talmudisti “la catastrofe del 70 era stata l’ultima e la suprema prova, che Jaweh aveva voluto dalla sua nazione; ma, superata oramai la prova, non poteva mancare il trionfo. Anzi, la grandezza massima della prova e della sciagura era un indizio che si avvicinava il trionfo di grandezza massima, quello del Messia militante” (G. Ricciotti, Storia di Israele, Torino, SEI, 1933, 2° vol., p. 524).

La nuova rivolta si andava preparando… molto spesso i Giudei, nel corso della storia, a causa di questa mentalità messianico/apocalittica, hanno sfidato potenze più grandi di loro e sono stati sonoramente sconfitti, ma hanno sempre ricominciato a rivoltarsi. Per esempio, oggi Israele (bene armato, ma piccolo geograficamente) sta sfidando la Russia, reputandosi “eletto”, per la presenza non gradita a lei dell’Iran in Siria, nonostante gli avvertimenti di Putin, con il rischio di trascinare tutto il globo in una guerra nucleare mondiale.

Traiano (53-117)

Circa 40 anni dopo la distruzione del Tempio, nel 97, l’Imperatore Nerva  adottò Traiano e lo associò a sé alla guida dell’Impero; Traiano, quindi, condusse le sue campagne belliche e vittoriose (anni 114-116) contro gli eterni nemici di Roma, i Parti: un popolo nomade di probabile origine scitica ossia iranico/russa, stanziatosi in Persia nel III secolo a. C. ove crearono un Impero indipendente retto dagli Arsacidi (250 a. C. – 224 d. C.), esteso dall’Eufrate alla Siria, che fu il più potente antagonista di Roma. Infatti essi batterono Crasso (53 a. C.), Antonio (36 a. C.), ma furono sconfitti da Traiano (117 d. C.), tuttavia senza effetto durevole per Roma. Nel 224 furono sconfitti da Artaserse e soppiantati dai Sasanidi, che nel 636 vennero sopraffatti dagli Arabi maomettani.

Traiano si era inoltrato al di là del Tigri nel 116 ed ecco che i Giudei della Mesopotamia si rivoltarono contro Roma, aiutati dai correligionari di Palestina e dell’Africa mediterranea, ancora frementi per lo scacco del 70 e convinti di avere la meglio perché protetti dal Messia militante prossimo venturo. Essi “anelavano alla ricostruzione messianica della loro nazione” (G. Ricciotti, cit., p. 525) e non cessano ancora dall’anelarla, sempre pronti a ricostruire il Tempio (cfr. G. Ricciotti, L’Imperatore Giuliano l’Apostata, Milano, Mondadori, 1956; M. Blondet, I fanatici dell’Apocalisse, Rimini, Il Cerchio, 1992).

La misteriosa internazionale ebraica all’opera

I Giudei di Alessandria d’Egitto e quelli di Cirene (l’attuale Libia), “si sollevarono con somma violenza contro i loro compaesani non-giudei” (Eusebio da Cesarea, Storia Ecclesiastica, IV, 2). Il motivo principale della rivolta fu “il fermento messianico” (G. Ricciotti, ivi).

Questa sollevazione, iniziatasi nel 115, raggiunse il massimo grado nel 116. I Paesi del basso Mediterraneo o dell’Africa bianca erano rimasti sguarniti di truppe romane, impiegate nella guerra contro i temibili Parti. Quindi i Giudei di Libia e di Egitto cercarono di dettar legge a Roma e di prendersi la rivincita per quanto avvenuto loro nel 70. Monsignor Piercarlo Landucci mi disse che nel 1960 si trovava in Terra Santa e una guida israeliana si lanciò in una severa Filippica contro Roma. Landucci pensò che si riferisse alle Leggi Razziali del 1938, ma la guida, interrogata, precisò che si riferiva alla distruzione del Tempio…

Traiano aveva vinto il primo periodo della campagna contro i Parti ed era tornato a svernare ad Antiochia quando, il 13 dicembre del 115, un terribile terremoto distrusse completamente la città siriana. Traiano si salvò per miracolo e solo tre persone si salvarono da tanto cataclisma. I messianisti/apocalittici presero il terremoto per un segno della protezione di Jaweh, che manifestava loro l’avvicinarsi dell’era messianica. Occorreva “aiutare” Jaweh ad affrettare i tempi, rivoltandosi contro l’odiato Romano, che aveva distrutto, 40 anni prima, il Tempio di Gerusalemme ove, prima del deicidio, nel Santo dei Santi, sino a che non si scisse in due il Velo del Santuario, c’era la presenza di Jaweh o la Shekinah.

“La sollevazione si propagò su larghissima zona e con impeto irrefrenabile. In Egitto essa apparve come una vera minaccia contro l’Impero; il Prefetto d’Egitto, Rutilio Lupo, non riuscì a fronteggiarla. Gli Egiziani non-giudei furono sconfitti e si rifugiarono in Alessandria: dentro la città i Pagani ripresero il sopravvento, dettero la caccia ai Giudei e ne fecero strage. La città ne sofferse moltissimo e fu dovuta restaurare più tardi da Adriano. Ma ad occidente i Giudei di Cirene vendicarono la strage di Alessandria col massacro dei loro compaesani non-giudei. Secondo Dione Cassio (Storia Romana, LXVIII, 32) le vittime furono 220. 000, e in tale massacro i Giudei si comportarono da veri cannibali, mangiando la carne dei loro nemici, bagnandosi nel loro sangue, ravvolgendosi con le loro viscere, e simili enormità” (G. Ricciotti, cit., p. 526).

Traiano inviò Marcio Turbone, con forti truppe, nel 116 stesso, a domare la rivolta. In questa repressione, che non fu facile, moltissimi Giudei di Cirenaica e anche d’Egitto (venuti in soccorso ai correligionari di Cirene) morirono di spada.

L’insurrezione giudaica si era propagata anche a Cipro, si parla di 240. 000 pagani uccisi dai Giudei. Inoltre, mentre Traiano si trovava a Ctesifonte (la capitale dei Parti) i Giudei di Mesopotamia cominciarono a diventare minacciosi. Traiano, vicino a Ctesifonte ne fu molto preoccupato, trovandosi impegnatissimo nella guerra contro i Parti. Quindi mandò Lusio Quieto a domarla con severità. Molte città della Mesopotamia vennero distrutte col ferro e col fuoco e le regioni mesopotamiche rimasero quasi senza Giudei.

La repressione della grande insurrezione giudaica terminò poco dopo il 117, ma la calma ottenuta era solo apparente, soprattutto in Palestina…

La ricostruzione del Tempio di Gerusalemme sotto Traiano

L’Abate Giuseppe Ricciotti (cit., p. 530, nota 1), riportando le tesi di alcuni “studiosi moderni” e della Encyclopaedia Judaica (Berlino, 1931, vol. VII, voce Hadrian), pone una eventuale, ma non certa ricostruzione del Tempio sotto il regno di Adriano e precisamente al principio del suo governo (117), però egli non dà a questa ipotesi alcun peso storico, poiché la ritiene fondata solo su una leggenda midrascica di nessun valore scientifico/storico, contenuta nel Talmud di Babilonia (Trattato Bereshith rabba, 64), siccome il Talmud babilonese risale al V/VI secolo d. C., secondo il Ricciotti potrebbe trattarsi della ricostruzione tentata da Giuliano l’Apostata nel 363.

Tuttavia a partire dal 1978 sino ad oggi alcuni storici contemporanei (cfr. Miriam Pucci Ben Zeev, Il movimento insurrezionale in Giudea, 117-118 d. C., in “Scripta Classica Israelica”, n. 4, 1978, pp. 63-76; Id., Qualche osservazione sulla rivolta ebraica al tempo di Traiano, in “Rivista storica dell’Antichità”, n. 9, 1979, pp. 61-67; Id., La rivolta ebraica al tempo di Traiano, Pisa, Giardini, 1981; Id., Diaspora Judaism in Turmoil, 116/117, Leuven, Peeters, 2005; G. Firpo, Le rivolte giudaiche, Bari, Laterza, 1999; W. Horbury, Jewish War under Trajan and Hadrian, Cambridge, Cambridge University Press, 2014; L. Capponi, Il mistero del Tempio. La rivolta ebraica sotto Traiano, Roma, Salerno Editrice, 2018) hanno affermato che il permesso di ricostruire il Tempio sarebbe stato dato da Traiano (97-117) ai Giudei attorno al 115 per garantirsi la riuscita della sua campagna militare contro i Parti (115-117), ma col 116, dopo aver conquistato la capitale dei Parti (Ctesifonte) ed averli sconfitti, Traiano avrebbe rinunciato al suo primitivo progetto o lo avrebbe modificato in senso paganeggiante ed ellenizzante come una integrazione del Tempio di Gerusalemme nel Panteon romano secondo i criteri architettonici/religiosi dei Romani, scatenando così la rivolta transnazionale giudaica di Libia, Egitto, Cipro, Giudea e Mesopotamia, durante la quale tutti i territori conquistati da poco da Traiano si ribellarono contemporaneamente e uccisero quasi tutti i legionari romani (formando un’unica grande rivolta ebraica di stampo religioso/messianistico, che fece parlare il filosofo ebreo Filone di Alessandria nella sua opera Commento allegorico sulle Sante Leggi, 214-217, di “un’imbattibile unione ebraica mondiale”) e costringendo Traiano a lasciare in pace i Parti e a tornare a Roma (morendo l’8 agosto 117 lungo la strada del ritorno). L’11 agosto 117 Adriano fu nominato Imperatore e portò a termine (nel 132-135) la repressione finale della rivolta giudaica, che aveva mostrato la “grande coesione del Giudaismo in quel periodo, la rapidità di comunicazione tra le varie comunità ebraiche, la condivisione e la mobilità dei capi” (cfr. M. Pucci Ben Zeev, La rivolta ebraica al tempo di Traiano, cit., p. 85 ss.).

Giuliano l’Apostata cerca di ricostruire il Tempio (362)

Nel pensiero di Giuliano le antiche prescrizioni della Vecchia Legge cerimoniale mosaica avrebbero dovuto riprendere pieno vigore e con esse avrebbe dovuto essere ricostruito il Tempio di Gerusalemme, distrutto nel 70 d. C. da Tito, per inficiare la profezia di Gesù, Il quale aveva predetto con quaranta anni d’anticipo che del Tempio “non sarebbe rimasta pietra su pietra” (Mt., XXIV, 2), e dimostrare, così, che il Cristianesimo era una falsa religione.

Per svariati anni, a partire dal 135, gli Imperatori romani avevano proibito ai Giudei di avvicinarsi ai ruderi del Tempio e di entrare in Gerusalemme, sotto pena di morte.

Giuliano attorno al 360, dopo aver deciso la ricostruzione del Tempio, ne affidò l’esecuzione a Alipio suo uomo di fiducia e governatore della Britannia. Giuliano stanziò somme enormi per l’impresa e si iniziò il lavoro.

«Sennonché, cominciati i lavori con grande impegno, venne ad estendersi sulla Palestina un fenomeno tellurico […] già sullo scorcio dell’anno 362. Lungo il litorale palestinese ed in vari luoghi della Siria erano avvenuti movimenti sismici violenti da cui erano rovinate varie città. […] Anche Gerusalemme risentì di queste vaste convulsioni sismiche. […] Talvolta i lavori di sgombero compiuti poco prima nell’area del Tempio erano annullati da frane prodotte dalle scosse sismiche; una volta una scossa più potente abbatté un portico sotto cui si erano ricoverati molti operai e ne uccise parecchi. […] Nonostante tutto, la tenacia dei lavoranti proseguì nell’impresa; e qui bisogna lasciare la parola  al testimonio neutrale Ammiano [storico pagano, ndr]: “Mentre Alipio portava avanti i lavori, formidabili globi di fiamme, erompendo con frequenti ondate presso le fondamenta, resero il posto inaccessibile, dopo aver bruciato talvolta gli operai, perciò, siccome gli elementi naturali respingevano ostinatamente l’impresa di ricostruzione, questa cessò”» (GIUSEPPE RICCIOTTI, L’Imperatore Giuliano l’Apostata, Milano, Mondadori, 1956, pp. 285-286).

Adriano (76-138)

Traiano morì l’8 agosto del 117 e gli successe Publio Elio Adriano, che cessò ogni ostilità contro i Parti, riportò i confini dell’Impero sull’Eufrate e iniziò la politica elio-adrianea di ricostruzione delle città devastate dalla guerra, tanto è vero che venne chiamato Restitutor.

Ora in Giudea la grande città rovinata era Gerusalemme. Adriano dette ordine di ricostruirla totalmente e di chiamarla, in onore del suo nome Elio e di Giove Capitolino, Colonia Aelia Capitolina. Essa fu ricostruita secondo i canoni architettonici ellenistici, con un Tempio di Giove al posto del Tempio di Jaweh. Inoltre Adriano emanò un decreto con cui proibiva la circoncisione. “È facile immaginare che impressione facesse sull’animo dei Giudei questo sacrilego progetto” (G. Ricciotti, cit., p., 529). Adriano venne visto come un novello Antioco Epifane.

Dione Cassio (Storia Romana, LXIX, 12) asserisce che la costruzione del Tempio di Giove sopra le rovine del Tempio di Gerusalemme spinse i Giudei alla successiva insurrezione (132-135); mentre Sparziano (Vita di Adriano, 14) afferma che la spinta alla rivolta venne dalla proibizione della circoncisione. Secondo Ricciotti tutte e due le misure ebbero la loro parte nella rivolta, ma occorre tenere a mente anche “lo stato d’animo degli insorgenti. Infatti i Giudei palestinesi, dopo la catastrofe del 70 e il fallimento dell’insurrezione del 115-117 sotto Traiano, erano entrati in uno stato di esaltazione addirittura febbrile. Oramai “il calice dell’ira di Jaweh” (Isaia) era stato tracannato sino alla feccia e non si poteva aspettare oltre. Dopo aver bevuto l’amaro calice sarebbe venuta la consolazione di Jaweh. Siccome l’umiliazione inflitta a Israele da Roma era stata la più grave, essa - secondo i Giudei apocalittici/messianisti - avrebbe dovuto essere l’ultima. Il Messia militante era oramai alle porte. Si viveva solo nell’aspettativa del trionfo finale, dopo tante sventure. I segni della venuta del Messia erano la costruzione di Aelia Capitolina e la proibizione della circoncisione. Allora (132) scoppiò la conflagrazione totale, la ribellione dei disperati” (cit., pp. 531-532).

Bar-Kokebà

Quando Adriano partì dalla Siria e dall’Egitto per recarsi in Grecia, nel 132, la rivolta dei Giudei di Palestina, con l’aiuto di quelli della diaspora, cominciò. Essa forse fu ancora più cruenta di quella del 66-70.

Il capo della rivolta si chiamava Simone Principe (“Shimon Nasì”) d’Israele o Bar-Kokebà, ossia “Figlio della stella”, e si attribuiva una dignità messianica.

“Il battagliero e vittorioso Re-Messia, aspettato con desiderio spasmodico dai Giudei, finalmente era apparso” (G. Ricciotti, cit., p. 533). S. Girolamo scrive (Contro Rufino, III, 31) che per apparire taumaturgo e capace di operare miracoli, Bar-Kokebà, si metteva in bocca della stoppa accesa e così sputava fiamme e fuoco. Inoltre mise a morte molti Cristiani palestinesi perché non rinnegavano, come narrano Giustino (Apologia, I, 31) ed Eusebio da Cesarea (Cronache, II, 168; Storia Ecclesiastica, IV, 6, 2), la messianità di Gesù Cristo e non si univano a lui per combattere i Romani. Egli avverò, così, la profezia di Gesù (Mt., XXIV, 24): “Sorgeranno falsi Cristi e falsi Profeti”.

Gli insorti si stanziarono nella steppa palestinese, fortificando le rocce, i dirupi e le caverne -  ivi abbondanti - aprendo anche gallerie, che collegavano le caverne tra di loro. Essi si prepararono ad una vera e propria guerriglia di trincea, pensando di vanificare così la potenza delle Legioni romane, che invece erano imbattibili nella guerra in campo aperto.

La guerriglia si propagò in tutta la Palestina, accolta sùbito con esaltazione messianica dalle masse locali, la Giudea divenne un immenso campo di trincee, con l’aiuto economico dei Giudei della diaspora. Il Legato romano, Tineio Rufo, fece grandi stragi di combattenti (Eusebio da Cesarea, Storia Ecclesiastica, IV, 6, 1), ma la guerriglia crescente lo costrinse a ritirarsi poco a poco dalla regione insorta. Gerusalemme fu conquistata dai Giudei e Bar-Kokebà fece battere monete con la dicitura: “Anno I o II della Redenzione di Israele”. Il Sommo Sacerdote nominato da Kokebà era a lui sottomesso poiché, secondo gli Zeloti, era giunta “la pienezza dei tempi” e l’autorità del Sommo Sacerdote, pur essendo grande, era inferiore a quella del Messia militante. Kokebà iniziò anche la ricostruzione del Tempio, ma fu un fuoco di paglia come quello che sarà tentato nel 362 da Giuliano l’Apostata.

Roma doma!

Tuttavia il successo del “Messia” militante fu effimero, violento ma non duraturo. L’esaltazione mistica, passato il primo momento, non resse di fronte alla ferrea disciplina e organizzazione bellica di Roma. Adriano chiamò dalla Britannia il miglior generale che aveva, Giulio Severo, la repressione fu difficile, la difesa degli Zeloti (che significa zelatori o zelanti) fu accanita. Non vi furono grandi battaglie a campo aperto, ma soltanto una serie di scaramucce, di guerriglie, assedi, espugnazioni, che demolirono poco a poco le fortificazioni di Kokebà. Gerusalemme, oramai indebolita e smantellata, fu conquistata da Giulio Severo in poco tempo. Alla fine Kokebà si rinchiuse nell’ultima fortezza non ancora espugnata dai Romani, quella di Bethar (da cui il nome “Bethar” ripreso dal partito di estrema destra israeliana di Jabotinsky nel 1948, come si vede c’è un filo conduttore tra la Guerra Giudaica del 132 e il Sionismo del Novecento), a 12 chilometri da Gerusalemme. Ivi, nella prima metà del 135 fu assediato, espugnato e poi ucciso. L’ultima insurrezione giudaica era durata circa 3 anni (132-135).

Dione Cassio (Storia Romana, LXIX, 13-14) scrive che la guerriglia costò ai Romani perdite abbastanza gravi, ma per i Giudei fu un vero “sterminio”, molto peggio che ai tempi di Tito. Quasi tutta la Giudea divenne un “deserto”, molte fortezze e città furono distrutte, 580. 000 Giudei furono uccisi, molti di più morirono di stenti durante la guerra, i Giudei venduti come schiavi non si contarono (G. Ricciotti, cit., p. 537).

Dopo la “catastrofe” e lo “sterminio” dei Giudei del 135, Adriano riprese il suo progetto di edificazione, sulle rovine di Gerusalemme, di Aelia Capitolina, che fu costruita in maniera da essere la negazione della Gerusalemme antica. Infatti fu una città ellenizzata, con bagni, teatro, un’enorme scultura di un maiale (per l’ironia della sorte il cinghiale, o maiale selvatico, era l’emblema della Legione romana stanziata allora a Gerusalemme), il Tempio di Giove con la sua statua sopra le rovine del vecchio Tempio di Jaweh, il Tempio ad Afrotide sul Golgota… religiosamente Aelia Capitolina risultò una città pagana e anti-jawistica per esplicito disegno di Adriano. Gli abitanti della nuova “Gerusalemme” furono tutti di origine non-giudaica, mentre dopo il 70 alcuni Giudei vi erano rimasti, altri vi erano tornati alla chetichella ed erano tollerati da Roma. Ai Giudei superstiti fu proibito sotto pena di morte di rimettere piede sull’area della vecchia Gerusalemme. Anche i Giudei convertiti al Cristianesimo non potevano ritornarvi, mentre i Cristiani provenienti dal Paganesimo sì. Cosicché, come scrisse Tertulliano, “ai Giudei fu permesso soltanto di guardarla da lontano” (Contro i Giudei, 13). Si invertirono, quindi, le condizioni: al Pagano che prima del 70 veniva a Gerusalemme, era proibito sotto pena di morte di entrare nel Tempio, che poteva solo guardare da lontano, ossia dal Cortile dei Gentili. Col 135, ai Giudei venne proibito, sotto pena di morte, di entrare in quella che era stata la loro Città Santa, ma che era divenuta la Città deicida. Da quell’anno i Giudei hanno avuto per Patria il mondo intero e per Tempio la propria nostalgia. Per un ritorno giudaico in massa in Palestina o Terra Santa occorrerà attendere il 1948, essa venne allora chiamata (per la sua metà occupata dai Sionisti) Israele, dopo circa 2. 000 anni di assenza ebraica.

Conclusione

Il Tempio di Erode il Grande, costruito (tra il 19 a. C. e il 9. a. C., sebbene i lavori di rifinitura si siano prolungati sino al 62 d. C.) sulle rovine del più antico Tempio di Salomone (961 a. C. – 954 a. C.), inglobava il Santo dei Santi, il Tabernacolo ove era realmente presente Dio. Questo Tabernacolo nell’Antico Testamento era unico: esso era il cuore della Religione mosaica, la prova della sua verità (G. RICCIOTTI, Storia d’Israele, Torino, SEI, 1° vol., 1932, pp. 354-364; 2° vol., 1933, pp. 108-120).

La presenza reale di Dio nel “Santo dei Santi” garantiva l’indistruttibilità del Tempio e della città di Gerusalemme che l’ospitava. Se il popolo d’Israele avesse rispettato i patti, nessuna potenza umana lo avrebbe travolto. Ma tale protezione, tale patto tra Dio ed il suo popolo era condizionato alla sua fedeltà alla Volontà di Dio. E tale patto fu rotto non da Dio, ma dal popolo ebraico (“Deus non deserit nisi prius deseratur. / Dio abbandona solo se prima viene abbandonato”).

Il Tempio rappresentava l’intero popolo d’Israele (cfr. V. MESSORI, Patì sotto Ponzio Pilato, SEI, Torino, 1992). La sua rovina significò la rovina della Nazione, il passaggio dall’Ebraismo mosaico al Giudaismo talmudico, la scomparsa della classe sacerdotale e del Sacrificio. Infatti lì, nel Tempio, nella Sancta Sanctorum, dove solo il Sommo Sacerdote poteva entrare una volta l’anno, era lo sgabello di Jaweh, il trono ove abitava la sua Presenza gloriosa o “Shekinah”.

San Luca ci tramanda questa predizione di Gesù: “Gerusalemme sarà calpestata dai Pagani, finché i tempi dei Pagani non siano compiuti” (Lc.,  XXI, 24).

I tempi dei Pagani sono questi nostri, sono il periodo che va dalla morte di Nostro Signore sino al Suo ritorno, quando vi sarà, come insegna S. Paolo, l’ingresso nella Chiesa del popolo ebraico in massa ( Rm., XI, 25).

Calpestare Gerusalemme, secondo il testo di Luca, significa calpestare il suolo del Tempio; ed è singolare come, fino ad ora, per più di millenovecento anni, la profezia appaia esattamente compiuta.

Gesù ai Farisei che lo invitavano a rimproverare i discepoli quando, la Domenica delle Palme, alla sua entrata in Gerusalemme fu osannato dalla folla al grido di “Benedetto Colui che viene nel nome del Signore” esclamò: “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre” (Lc., XIX, 37-40). Le pietre che avrebbero gridato sono quelle del Tempio: lo testimoniano le lacrime di Gesù che, subito dopo, piange sulla sorte terribile che incombe su Gerusalemme e ritorna col pensiero alle “pietre”: “Abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai conosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Lc., XIX, 44). C’è dunque un legame assai stretto tra il riconoscimento della messianicità di Gesù e quelle pietre del Tempio distrutto!

Aggeo aveva profetizzato che il Tempio di Erode (costruito tra il 19 a. C. e il 9 a. C., sebbene i lavori di rifinitura siano durati sino al 62 d. C., fu distrutto nel 70 d. C.) “sarà più glorioso del precedente [Tempio di Salomone, costruito in 7 anni tra il 961 a. C. e il 954 a. C., ndr] perché vedrà l’era messianica” (Ag., II, 4-9). Quel Tempio, perciò, non poteva essere distrutto prima dell’avvento del Messia, e proprio ciò avrebbe dovuto costituire per gli Ebrei di ogni epoca la prova inequivocabile che il Messia era già venuto!

Tito nel 70 rase al suolo il Tempio, Adriano nel 132 fece innalzare sulla sua spianata un Tempio dedicato a Giove con statue di Dei pagani. Nell’ottavo secolo gli Arabi invasero Gerusalemme e fecero della spianata uno dei luoghi più sacri dell’Islamismo, costruendovi la moschea di Omar. Ma il 15 luglio del 1099 irruppero i Crociati che trasformano per ottantotto anni, fino al 1187, la moschea in chiesa. Ritiratisi però i Cristiani, le costruzioni tornarono al culto musulmano, al quale ancora adesso appartengono.

Quando nel 1967 gli Ebrei ritornarono militarmente in possesso anche di questa parte della città, il generale Moshé Dajan - a nome del governo di Israele - rassicurò gli Islamici sul libero ed esclusivo godimento della spianata, soprattutto per ragioni religiose tutte ebraiche. Gli Ebrei ortodossi infatti, non essendo in grado di stabilire dove era ubicata la Sancta Sanctorum, non entrano tuttora nella spianata, poiché temono di calpestare il luogo che nessuno può varcare da quando non vi è più un Sommo Sacerdote, che, unico, una volta l’anno, poteva lasciare lì le sue impronte.

Tutto ciò conferma mirabilmente la profezia di Gesù Cristo, secondo la quale “fino alla fine dei tempi solo i non-ebrei calpesteranno il suolo del Tempio”.

Gerusalemme, Gerusalemme - dice Nostro Signore - che uccidi i Profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto. Ecco la vostra casa vi sarà lasciata deserta. Vi dico, infatti, che non mi vedrete più finché non direte: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore” (Mt., XXXVII, 9).

La vostra casa vi sarà lasciata deserta” è una citazione di Geremia ed Ezechiele, proprio quei Profeti che avevano annunziato che Dio avrebbe abbandonato il Tempio. Ora è un fatto innegabile ed evidente che oggi, al posto del Grande Tempio, vediamo una spianata sulla quale sorge una moschea. Ebbene questo fatto corrisponde alla profezia di Gesù Cristo. Quelle rovine sono un segno muto ed eloquente della messianicità del Galileo: “Se questi taceranno, grideranno le pietre” e le pietre della Moschea che ha rimpiazzato il Tempio non cessano di gridarlo.

I Giudei non avevano conosciuto il giorno della loro visitazione e, ripudiando il vero Messia, avevano cessato di essere il popolo di Dio. Quindi furono colpiti (dal 40 al 135) da tutti i mali che i Profeti dell’Antico Testamento e Gesù medesimo avevano loro preannunziato come castigo per la loro incredulità o perfidia (da “per-fidem, fede deviata”). Dal Venerdì Santo la storia del popolo ebraico segna una catena ininterrotta di oppressioni sempre crescenti da parte dei Governatori romani. Infatti i Giudei avevano proclamato Cesare loro Re ed avevano invocato su di sé e i loro figli il Sangue di Gesù. Inoltre credettero a qualsiasi falso “Messia”, avendo rigettato l’unico vero. I “Falsi Profeti e Falsi Messia”, predetti dal Vangelo, abbondarono in quegli anni successivi al deicidio e attirarono i Giudei nel deserto per abbandonarli, poi, nelle rudi mani delle Legioni romane, che dal 66 al 70, in soli 4 anni arrivarono a distruggere totalmente il Tempio e Gerusalemme e poi, nel 132-135, in soli 2 anni giunsero a distruggere tutta la Giudea e ad uccidere l’ultimo falso “Messia” Bar-Kokebà. Giuseppe Flavio, il sacerdote ebreo Comandante supremo dei Giudei di Galilea, divenuto poi lo storico ufficiale di Vespasiano e di Tito scrisse: “Le sventure di tutti i popoli di tutti i tempi paragonate con quelle che hanno colpito i Giudei durante la guerra del 66-70 sono state superate infinitamente” (Guerra Giudaica, VI, 2, 1).

I Cristiani, memori della profezia di Gesù (Mt., XXIV, 15), nel 66, allo scoppiare della guerra, lasciarono Gerusalemme col loro Vescovo Simeone (succeduto a S. Giacomo il Minore, martirizzato in Gerusalemme nel 62[1]) e si fermarono  a Pella, al di là del Giordano, a oltre 100 chilometri da Gerusalemme. Gerusalemme venne distrutta, di lei non “rimase pietra su pietra” come aveva predetto Gesù. Infatti Tito fece rimuovere le macerie della città e del Tempio e fece arare il terreno su cui sorgevano (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VII, 1, 1). I Cristiani che erano fuggiti ritornarono a Gerusalemme dopo il 70 con il loro Vescovo Simeone, anche alcuni Giudei vi ritornarono colla speranza di ricostruire il Tempio, ma quando Adriano nel 130 visitò la Palestina e cominciò a ricostruire la città secondo i canoni pagani, i Giudei si sollevarono ancora contro Roma nel 132 e vennero definitivamente sconfitti nel 135. La Giudea intera divenne un deserto e tutti i Giudei furono espulsi dalla loro Patria. Con Costantino (313) Gerusalemme venne ricostruita e la Terra Santa venne arricchita di magnifiche chiese cristiane.

La distruzione del Tempio e di Gerusalemme (70 d. C.) e il tentativo di ricostruire il Tempio (115, 132, 362 e 1967-2019) hanno una portata teologica immensa: la fine della religione giudaica infedele al Messia, che ha perso il Tempio, il Sacerdozio ed il Sacrificio, è la prova della divinità di Gesù Cristo, che aveva predetto tutto ciò verso il 30 d. C.

La veracità del Cristianesimo che perfeziona la Vecchia Alleanza è provata anche storicamente ed archeologicamente. La riprovazione del popolo deicida pure.

Nonostante tutto ciò, a partire dagli anni Sessanta ci si ostina a parlare di giudeo-cristianesimo, di dialogo ebraico-cristiano, di Ebraismo “Figlio maggiore e prediletto”.

Ma, anche se gli uomini di oggi tacciono, come ha predetto Gesù, le pietre del ‘Muro del pianto’, misero avanzo del recinto esterno al Tempio (e non del Tempio stesso, come si dice erroneamente), continuano a gridarlo! (Lc., XIX, 40), e lo gridano tuttora tranquillissimamente. “Chi ha orecchie per intendere, intenda!”.

Fine

d. Curzio Nitoglia



1) Quando S. Pietro, nel 42/44 circa, lasciò Gerusalemme per andare a Roma, gli successe, come Vescovo della città santa, S. Giacomo il Maggiore (il fratello di S. Giovanni l’Evangelista), che venne fatto uccidere “di spada”, da Erode Agrippa I, nel 42/44 circa (Atti, XII, 1 ss.); allora S. Giacomo il Minore (un “cugino di Gesù” e fratello di S. Giuda Taddeo, il protettore dei “casi impossibili e disperati”) lo rimpiazzò e resse la Diocesi gerosolomitana sino al 62, quando fu fatto martirizzare dal Sommo Sacerdote (Anano il giovane). I Giudei, istigati da Anano e profittando dell’assenza del Procuratore romano, al quale soltanto spettava il potere di infliggere la pena di morte, lo gettarono dal pinnacolo del Tempio e, caduto a terra, lo lapidarono, non essendo ancora morto, quindi, lo finirono a bastonate. Nel 62 S. Simeone divenne Vescovo di Gerusalemme (cfr. Eusebio da Cesarea, Storia Ecclesiastica, III, 11 e 32). Sulla sua identità non vi è un accordo pieno tra gli storici. La tesi comunemente insegnata è che egli fosse l’Apostolo Simone (festeggiato il 28 ottobre, assieme a S. Giuda Taddeo), detto il Cananeo (Lc., VI, 15; Mt., X, 4; Mc., III, 18; Atti, I, 13),  non dalla città di Cana, ma dall’aramaico “cananaìos, da qan’- anà”, che significa “zelatore” della Legge o Zelota, egli era un “cugino di Gesù” e con il suo gregge, nel 66 allo scoppiare della Guerra Giudaica, si trasferì da Gerusalemme a Pella seguendo il consiglio di Gesù (“allora chi è in Giudea fugga sui monti”, Mt., XXIV, 16), morì a 120 anni nel 107, probabilmente crocifisso sotto Traiano.


 
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