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Altro genocidio d’Israele: di ebrei neri
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Il tasso di natalità dei Falascià, i presunti ebrei etiopici che lo Stato ebraico ha trasportato in Israele in ben pubblicizzate «aliyah», è crollato tragicamente: meno 50% negli ultimi dieci anni. Il fatto ha incuriosito una giornalista della Israeli Educational Television di nome Gal Gabai. La quale ha condotto un’inchiesta.

Gal Gabai ha intervistato decine di donne falascià, ed ha saputo da queste che avevano ricevuto iniezioni di Depo Provera (un anticoncezionale alla progestina efficace per tre mesi dopo una sola puntura) contro la loro volontà. Alcune non avevano capito a cosa servisse l’iniezione; altre però hanno riferito di essere state sottoposte a pressione e minacce, tipicamente questa: se ti ribelli alla puntura, non ti lasciamo entrare in Israele. Le iniezioni di Depo Provera sono state loro somministrate nel campo-profughi di Gondar, nel campo di transito di Addis Abeba, e ancora dopo il loro arrivo in Israele. Ad eseguire il trattamento forzato sono stati i medici e infermieri del Joint Distribution Committee (JDC), la storica organizzazione «umanitaria» ebraico-americana, celebre per le raccolte di fondi intese, negli anni dello stalinismo, a nutrire i poveri ebrei dell’URSS minacciati dalle carestie staliniane, e che ha cliniche ed ambulatori in Etiopia per i falascià. Come vanta nel suo sito, il JDC è «dedito a migliorare la salute e il benessere dei (falascià) abitanti nella regione di Gondar». Invece fa parte di un progetto volto a ridurre demograficamente i falascià, in evidente coordinamento con il servizio sanitario israeliano. (www.jdc.org)

Le poche volte in cui si degnavano di dare qualche spiegazione alle donne che chiedevano i motivi dell’iniezione, i medici e infermieri dicevano loro che, se avessero messo al mondo troppi figli, avrebbero avuto vita difficile in Israele. Ad alcune, è stato detto che le pillole contraccettive non erano adatte a loro, perché non sarebbero state capaci di ricordarsi di prenderle regolarmente. Una telecamera nascosta su una etiope trattata in un ambulatorio in Etiopia ha confermato che, mentre la donna riceveva la puntura, il personale israeliano le dava appunto questa spiegazione. Una ginecologa intervistata dalla giornalista è rimasta stupita e sgomenta quando ha saputo la cosa: il Depo-Provera è prescritto raramente, e solo a donne ricoverate in manicomio o handicappate mentali. È precisamente l’idea che non solo i medici, ma il pubblico israeliano ha dei «fratelli» falascià: degli arretrati mentalmente inferiori, sub umani. Molti dei più «religiosi» non li considerano nemmeno ebrei e quindi impuri; anni fa nacque uno scandalo quando si scoprì che il sangue di donatori falascià veniva buttato via nei WC degli ospedali, perché nessuno voleva essere perfuso col sangue «dei negri». (Tainted Blood: The Ambivalence of Ethnic Migration in Israel, Japan, Korea, Germany and the United States)

Essi subiscono continue e pesanti discriminazioni quando di tratta di affittare una casa, di scegliere la scuola per i figli, durante la ricerca di lavoro, nel servizio militare. Una buona metà di loro, di conseguenza, è ridotta in miserabili ghetti «negri», emarginati da una società sempre più paranoicamente razzista. E adesso, le loro donne subiscono la sterilizzazione forzata, in quanto non appartenenti alla razza eletta. Difatti, fa notare l’inchiesta della Gabai, esistono altre minoranze socialmente sfavorite in Israele, «ma non vengono assoggettate a piani forzati di riduzione delle nascite». Tipicamente, gli Haredim hanno 8 figli per famiglia, ma i medici israeliani non danno alle loro donne di nascosto delle iniezioni contraccettive. È puro e semplice razzismo quello che anima il programma «generazione perduta» per i falascià.

È persino incomprensibile come mai il regime israeliano abbia voluto in Israele i falascià: la leggenda ufficiale, che li vuole elementi delle «tribù perdute di Israele» o ebrei yemeniti o egiziani riparati in Etiopia, è palesemente infondata. Ancor più fantasiosa la loro pretesa discendenza dagli amori fra re Salomone e la Regina di Saba. Quasi si tratta di antichi cristiani copti etiopici che, per via di un totale e secolare isolamento e della compenetrazione nelle narrative dell’Antico Testamento, hanno cominciato a credersi ebrei e a praticare culti ebraici e pratiche giudaiche (per esempio la circoncisione, il culto di un’arca dell’alleanza made in Ethiopia…) come descritti nella Bibbia, forse attorno al 15mo secolo (1). Ma parlavano aramaico, ed avevano una propria casta sacerdotale (di origine copta), che una volta giunta in Israele sono stati costretti a sostituire con i rabbini, di cui nulla sapevano. E molti dei quali non li credono giudei, ma animali parlanti.

Le autorità israeliane li hanno trattati come bestiame persino quando ne «salvavano» migliaia, nella molto propagandata Operazione Salomone del 1991, quando li portarono via dall’Etiopia di Menghistu: caricati su aerei da carico svuotati dei sedili, privati di ogni bagaglio, spogliati per fare meno peso di scarpe e abiti, ad ognuno di loro fu applicato sulla fronte un adesivo di plastica con un numero. Alle donne era impedito di tenere con sé i neonati; nonostante ciò, alcune riuscirono a nascondere i loro figlioletti sotto la veste, e furono identificati e censiti solo all’arrivo: finalmente israeliani, ossia cittadini di serie C nella sola democrazia razziale del mondo. E nonostante tutto, anche oggi Netanyahu organizza «rientri» di questi presunti ebrei: nei prossimi 3 anni, 7.864 etiopi saranno accolti in Israele. Si pensa che questa ostinazione ufficiale abbia a che fare con la volontà di contrastare la crescita demografica palestinese con l’arrivo di israeliani da tutto il mondo; ma allora che senso ha la sterilizzazione delle donne «negre»? (Gli ultimi ebrei d'Etiopia ammessi in Israele)

  
Forse bisognerebbe interrogare le profonde psico-patologie, i misteriosi «conflitti interiori» del subconscio giudaico che si traducono in atti contradditori. Quello che soffrono i falascià non è il primo genocidio di ebrei tentato dallo Stato ebraico: nel 1951, quando il Paese era sotto la guida di Ben Gurion il padre della patria, centomila bambini sefarditi immigrati dal Marocco (o meglio, le cui famiglie erano state indotte ad immigrare dalle agenzie ebraiche) furono sottoposti a radiazioni alla testa: 35 mila volte le radiazioni massime consentite. I macchinari radianti a raggi X erano forniti dall’esercito USA; proprio nel ‘51 erano state bandite le sperimentazioni nucleari su esseri umani in America, e il Pentagono aveva bisogno di cavie. Ai sefarditi irradiati fu detto che era un trattamento per liberarli dalla tigna (tricofitosi: tipica malattia da sporcizia); il governo israeliano, dominato totalmente dagli askenaziti, per questo esperimento ricevettero un grosso finanziamento americano: 12 volte il bilancio della Sanità israeliana di allora.

I piccoli sefarditi marocchini venivano prelevati dalle scuole elementari e caricati su pullman per «gite scolastiche»; invece erano trasportati in laboratori dove subivano l’irradiazione. Seimila di questi bambini morirono quasi immediatamente, altri negli anni seguenti, molti per tumori; i sopravvissuti, ormai vecchi, presentano gravissimi disturbi cerebrali e della pelle. Ne abbiamo parlato in un articolo del 2009 (Ricordiamo l'olocausto anche noi).

Sicché gli askenaziti al potere in Israele, gente venuta dall’Europa, discendente dai turco-mongoli Khazari e quasi sicuramente senza una goccia di sangue veramente ebraico nelle vene, eliminarono migliaia di veri ebrei, sefarditi, in quanto «inferiori». Continuando l’opera di cui accusano i nazisti.

Anche questo orrendo caso è stato oggetto di un’inchiesta televisiva che è andata in onda in Israele: «100.000 Radiations», prodotto nel 2003 dalla Dimona Productions Ltd. (Dimona è il luogo delle installazioni atomiche giudaiche), registi Asher Khamias e David Balrosen, produttore Dudi Bergman. Il 14 agosto 2006 l’ha trasmesso la TV israeliana Canale 10.

Non sanno cosa rischiano i 60 mila africani, sudanesi, eritrei, sub-sahariani, che hanno cercato riparo in Israele dai loro regimi, dalla miseria e dalla fame. E sono costretti a vivere come clandestini illegali, in abietta povertà, sfruttati e maltrattati senza alcun diritto nella unica democrazia razziale. Non è nemmeno il caso di parlare di diritto d’asilo, o di avanzare richieste d’asilo: l’unica democrazia bla bla non lo riconosce. La popolazione odia i «negri», e i politici hanno un facile successo scagliandosi contro di loro. Sempre più spesso hanno luogo aggressioni, devastazioni dei loro locali di ritrovo e incendi dei loro miseri appartamenti. Il 23 maggio scorso, nel sobborgo di Hatikva (Tel Aviv) è avvenuto un vero e proprio pogrom organizzato contro i negri e i loro locali. I loro poveri beni sono stati bruciati in piazza durante una festa notturna con sventolio di bandiere israeliane, che ricordava da vicino i falò di arte degenerata del Terzo Reich. Si vedano fatti e foto nel rapporto qui segnalato: (Cancer in our body)

Nel 2007, quando ancora gli immigrati africani erano pochi, una ventina di sudanesi del Darfur aveva trovato lavoro ed alloggio in una moshav (fattoria agricola) presso la cittadina di Hadera – a fare i lavori che gli ebrei non vogliono più. Il sindaco di Hadera, Chaim Avitam, emanò un decreto d’espulsione: durante la notte mandò forze di sicurezza nei dormitori, che distrussero tutti i documenti dei sudanesi li caricarono nei bus e li sbatterono fuori dalla città. «Hadera non è il bidone della spazzatura del paese», disse il sindaco. (Complaint filed against Hadera mayor for expelling refugees)

Nel luglio 2010, 25 rabbini di Tel Aviv hanno emanato un editto religioso (come si dice «fatwa» in ebraico?) che vieta agli ebrei di affittare appartamenti agli africani, con ampie citazioni delle Scritture bibliche sul dovere di ripulire etnicamente la sacra terra di Israele da ogni straniero. Immediatamente, dozzine di rabbini in tutto il Paese hanno imitato l’editto di Tel Aviv. Il promotore dell’iniziativa, l’uomo che ha fatto fisicamente contattato i rabbini per raccogliere le loro firme, è un consigliere comunale di Tel Aviv di nome Benjamin Babayof, che chiama la presenza dei «negri» in Terrasanta «abominazione». Nel febbraio 2012, Babayof ha fatto appello al ministero dei Trasporti, chiedendo linee di bus separati per i negri, o il divieto di lasciarli salire sui mezzi, «perché puzzano».

Ma già mesi prima dell’editto rabbinico, il rabbino Yaakov Asher, che è anche sindaco di Bnei Brak, cittadina ai confini di Tel Aviv, ha sbattuto fuori di casa decine di africani immigrati, con misura immediata, adducendo irregolarità edilizie (una scusa adottata da sempre contro i palestinesi). Che avevano affittato legalmente; ma quando alcuni di loro sui sono recati al municipio con i loro contratti legali in mano, chiedendo in base a quale norma erano stati sfrattati, si sono sentiti rispondere: «Perché non siete ebrei». Ma la maggior parte di loro non aveva nemmeno ricevuto l’avviso di sfratto; gli era stata tolta di botto l’acqua e la luce, senza spiegazione.

Nel gennaio 2011, Meir Ytzhak Halevi, sindaco di Eilat, ha sferrato una vera campagna contro gli immigrati, stampando a spese del municipio dei manifesti contro di loro. Ha vietato ai figli degli africani di frequentare le scuole elementari, fino a quando è stato costretto a farlo da una sentenza dell’alta corte israeliana.

Amnon Yitzhak
  Amnon Yitzhak
Da segnalare la luminosa figura di Amnon Yitzhak, un popolarissimo predicatore che (sul modello dei telepredicatori USA) viaggia in lungo e in largo per Israele a convertire gli ebrei secolarizzati allo stretto giudaismo fondamentalista. Eilat è una tradizionale fortezza del secolarismo, ma Ytzhak è riuscito a conquistare molti cuori atei inzuppando il suo messaggio religioso nel razzismo anti-negri. Nel febbraio 2012, nel corso di una riunione di conversione in massa, ha spiegato che la pelle nera dei sudanesi «è una punizione di YHVH» perché i loro capostipiti, della stirpe di Cham, ebbero rapporti sessuali mentre erano nell’arca di Noè, «benché ciò fosse proibito». Ha detto che se una donna ebrea va a letto con un sudanese, «finirà in Africa ad arrampicarsi sugli alberi e a mangiare banane» perché, ha sottolineato, costoro sono come scimmie. Adesso il telepredicatore talmudico ha fondato un suo partito politico, il cui nome suona come «Forza per Influire», che concorre alle prossime elezioni.

Ben Dror Yemini, il direttore ed opinionista del quotidiano Maariv, ha inaugurato l’uso sistematico di termini offensivi e insultanti (tipo «sporco ebreo», pardon, «sporco negro») verso questi immigrati; usanza immediatamente adottata dai giornalisti in genere. Normalmente, i rifugiati vengono bollati come «infiltrati» invasori, gente che porta malattie, che violenta le nostre donne; e inoltre «un cancro», calamità nazionale, e «pericolo esistenziale per Israele»: fatale concetto, dopo il quale di solito il piccolo popolo minacciato nella sua stessa esistenza procede alle stragi. E già molte voci nella Knesset si sono levate chiedendo di concentrare questi poveri immigrati in un campo di concentramento nazionale.

Post Scriptum. Magari è opportuna una segnalazione a quegli ebrei d’Italia «orgogliosi di Israele», da Gad Lerner a Paolo Mieli, che nascondono nei loro mezzi mediatici il razzismo israeliano, ma bollano il «razzismo» degli italiani contro gli zingari, e invitano all’accoglienza e all’integrazione degli immigrati senza distinzione. E al sindaco di Milano Pisapia che ha regalato 8 mila euro dei contribuenti, mentre prepara le case per loro, ad ogni famiglia di zingari accampati in città, e dà del razzista a chi obietta che magari ci sono altri milanesi più bisognosi di 8 mila, per esempio i pensionati minimi. Per i rom, la giunta Pisapia ha stanziato 5 milioni di euro. Per i pensionati, niente. Non a caso gli zingari a Milano sono aumentati, accorrono a frotte. Oggi sono almeno 2.500.

Impari Pisapia dall’unica democrazia del Medio Oriente.





1) Ecco cosa succede a giudaizzare troppo. Come noto, il ministro Andrea Riccardi, gran guru della «cattolica» Sant’Egidio, segue le teorie del rabbino Elia Benamozegh (Livorno 1823 – 1900) il quale, «riteneva possibile una riforma della cristianità attraverso un vero e proprio percorso di teshuvah» ¬il termine significa «pentimento», «ritorno al nuovo inizio» ¬«compiuto il quale il cristianesimo si spoglierà di tutto ciò che ha di contrario all'ebraismo, deporrà le vesti prese in prestito, i brandelli di paganesimo, che lo hanno reso irriconoscibile ai suoi genitori, che lo fecero espellere dalla casa paterna» (L’origine dei dogmi cristiani). Questa evoluzione pare assai favorita nelle alte sfere vaticane. Il nostro destino dunque, per Riccardi, è diventare i falascià di Sion.


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