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Ma quale «change»?
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Appena quattro giorni dopo essersi seduto sulla poltrona di Bush, Barak Hussein Obama ha fatto il Bush: ha ordinato un attacco con i droni porta-missili entro il territorio sovrano del Pakistan per uccidere supposti militanti della supposta Al Qaeda (1). I morti sono almeno 18.

Dopo di che, l’apostolo negro del rinnovamento ha riunito di Consiglio di Sicurezza Nazionale per decidere un rafforzamento delle truppe in Afghanistan (Obama ha già chiesto agli inglesi di contribuire con altri soldati) e per minacciare il governo pakistano: non s’illuda di avere aiuti se non obbedisce meglio agli ordini americani, se non è più zelante nella lotta al «terrorismo». Del resto già nell’agosto 2007 Obama aveva annunciato  la sua ferma intenzione di ordinare «azioni dirette in Pakistan contro potenziali minacce alla sicurezza USA» se le forze pakistane non si mostravano abbastanza attive. In Pakistan, questo è stato interpretato come la solita minaccia di prendere possesso delle bombe atomiche del Paese, caldeggiato dai suggeritori israeliani. Israele vuole togliere le armi alla sola potenza nucleare musulmana che le abbia.

Poi, è vero, Obama si è fatto intervistare da Al-Arabyia, dove – dopo aver detto che gli arabi non s’illudano, con lui Israele verrà sempre per prima nei pensieri americani - ha soavemente teso la mano al mondo islamico.

Ma questa mossa è un tentativo di rispondere  ad un urticante articolo apparso sul Financial Times a firma del principe Turki Al Faisal, già ambasciatore a Londra e uno dei membri più potenti della famiglia reale saudita: «La pazienza araba è agli sgoccioli», diceva il principe, così come le relazioni storiche e strategiche tra Arabia Saudita e USA se non cambia l’atteggiamento americano di servile, cieca adesione alle voglie di Israele. Poi, alla CNN che gli diceva: ma Obama si è dichiarato sinceramente impegnato alla pace fra palestinesi e Sion, il principe ha risposto: «E’ una frase che abbiamo già sentito. Vogliamo vedere i fatti. Vogliamo vedere il cambiamento della retorica» pro-israeliana (2).

Ma c’è stato di peggio. Il principe, considerato un moderato ancorchè potentissimo intimo del cerchio di potere regale saudita, ha detto che la nuova amministrazione ed Israele dovrebbero cominciare a trattare con Hamas. Quando l’intervistatore di CNN gli ha obiettato che Hamas è per gli USA e Israele una organizzazione terrorista, Turki Al-Faisal ha replicato: «Questa è un’altra delle cose che il presidente Obama deve rivedere». Il che è stato una completa sorpresa, perchè l’Arabia Saudita è stata ostile ad Hamas, considerandola una quinta colonna dell’Iran nell’area. Il massacro compiuto dai sionisti a Gaza ha evidentemente cambiato le cose.

Apriamo qui una parentesi importante: anche Sarkozy pensa che sia urgente portare aiuti alla popolazione di Gaza ormai allo stremo e costringere Israele ad aprire i valichi, anche se Hamas è ancora al potere nel territorio devastato. La Francia ha tentato per questo di modificare una dichiarazione finale dei ministri degli Esteri della UE riuniti a Bruxelles, nel senso di invocare la riapertura dei valichi senza porre come condizione che a comandare a Gaza sia Fatah del collaborazionista Abu Mazen; perchè campa cavallo, e intanto la gente muore e i feriti dal crudele attacco passano a miglior vita.

Ma Israele - ci informa Haaretz – grazie «a due giorni di intense pressioni diplomatiche» è riuscita a «silurare» questo tentativo umanitario. Israele ha avuto successo, dice Haaretz, «esercitando notevoli pressioni su importanti ministri della UE: così la repubblica ceka che tiene la presidenza UE, insieme a Germania, Italia e Olanda, hanno insieme lavorato a respingere l’iniziativa francese».

Il nostro ministro israeliano - Frattini, noto antisemita, è stato in prima fila nella ferrea volontà di far morire ancora più palestinesi. Come ebreo, non ha nemmeno bisogno di essere «premuto» dalla lobby.

Torniamo a Obama e al suo «change», applaudito dai nostri progressisti onirici illusi che sia andato al governo un progressista. Obama infatti, hanno proclamato i media, ha «vietato la tortura» da parte dei militari USA e della CIA quando interrogano supposti terroristi. Persino osservatori benevoli hanno notato che non c’è da rallegrarsi di questo «cambiamento»: è normale che uno Stato che si presume di diritto non usi la tortura. Obama dunque, vietando la tortura,  ha decretato una ovvietà, tanto più che Bush ha sempre affermato che «gli USA non torturano». Se Obama ha scoperto, guarda caso, che invece gli USA torturano eccome, la sola legittima decisione che doveva prendere era incriminare Bush, Cheney e i suoi suggeritori per aver violato un principio del diritto universale riconosciuto anche in USA.

Ma non basta. Il Wall Street Journal (non proprio un giornale filo-arabo) ha notato nel giro di parole con cui Obama ha vietato la tortura già vietata, delle «porte posteriori», dei trabocchetti avvocateschi che invece la consentono ancora (3). Obama ha creato anche un comitato che deve studiare se il «Field Manual», il manuale militare di guerra (che vieta la tortura negli interrogatori) «non ponga eccessive limitazioni quando adottato da dipartimenti o agenzie non-militari».

Insomma si pongono le basi per cui le «agenzie non-militari», CIA ed altri 16 o 17 enti di intelligence, possono continuare a torturare.

I nostri progressisti si contentano di poco. Obama ha fatto «qualcosa di sinistra» con aperture sull’aborto, consentendo le sperimentazioni genetiche più spericolate, e riaprendo i finanziamenti pubblici ai programmi anti-natalità, da sempre voluti e gestiti dalla famiglia Rockefeller; questo è il «progressismo» in USA, come da noi.

Inoltre ha fatto promesse di creare dal nulla una fantastica industria «verde»», non-inquinante e contro il fantomatico effetto-serra. Ma in bellicismo, non fa che continuare la strada tracciata da Bush per conto di Sion.

Esattamente come il suo predecessore, Obama vuole sganciare altri 800 e passa miliardi di dollari (che l’America dovrà chiedere a prestito) per un ulteriore «stimolo» all’economia, in realtà alle banche non ancora fallite e alle sorpassate industrie automobilistiche patrie. Una misura di cui tutti gli analisti additano l’inutilità; l’economia americana sta precipitando, si restinge al ritmo del -6% annuo, un crollo simile non si vedeva dal 1933 (-6,4%) il fondo più nero della Grande Depressione. Ma stavolta, la rapidità del crollo è superiore.

Non stupisce che, meno di una settimana dopo essersi seduto alla poltrona di Bush, Olbama ha perso già 15 punti nei sondaggi Gallup (4). Dal fantastico 83%, il tasso di approvazione degli americani per il presidente del «change» è sceso al 68%. Ancora alto, certo. Ma a questo ritmo, fra sei mesi Obama avrà raggiunto il tasso di approvazione di Bush, 25%.

Contrariamente ai nostri progressisti sognanti, gli americani hanno già capito che «no, he can’t». Non può.

Mentre l’economia gli crolla sotto i piedi, Obama ha già annunciato un aumento delle truppe in Afghanistan. Il britannico Guardian ha scritto: «Il vice-presidente Joe Biden ha detto ieri che le forze USA saranno impegnate in molte più operazioni, tutto che che occorre per attaccare i suoi nemici della regione. L’amministrazione Obama raddoppierà le truppe USA in Afghanistan, portandole a 60 mila. Quando a Biden è stato chiesto in un’intervista TV se ci si devono aspettare più caduti americani, Biden ha risposto: «Detesto dirlo, ma sì. Ci sarà un aumento».

Sicchè già si parla dell’Afghanistan come dell’«Obama’s Vietnam». Come cambiamento, non c’è male. Sarebbe un déjà vu risalente agli anni ‘70.

E’ da tener d’occhio se ci sarà un cambiamento di attitudini verso la Russia. Anche qui, le cose non sembrano buttare bene. Il generale David Petraeus - lo yes-man di Bush che Obama non ha «cambiato», resta il comandante di tutte le mega-operazioni in Afghanistan, Pakistan e dintorni asiatici - ha recentemente dichiarato di aver fatto un accordo con Mosca per far passare i rifornimenti alle truppe impegnate in Afghanistan dal nord, attraverso la Russia, anzichè come ora dal Pakistan, attraverso una linea logistica lunghissima e sempre meno sicura.

Dichiarazione incauta. Dmitri Rogozin, ambasciatore di Mosca presso la NATO ha risposto da Bruxelles: «Non sappiamo niente di un presunto accordo di transito militare in Russia concesso ad americani o alla NATO. Ci sono stati suggerimenti in questo senso, ma non sono stati formalizzati». Poi, certo, Rogozin ha aggiunto che la vittoria americana in Afghanistan è nell’interesse della Russia, perchè se vincono, i talebani dilagano in Tagikistan, in Uzbekistan e in Kazakstan…

Da quanto si capisce, i russi non offrono il loro aiuto gratis: vogliono che l’America riconosca che l’area è di legittimo interesse per Mosca, e più in generale per lo SCO, lo Shangai Cooperation Organisation. che insomma, questo è il cortile di casa di Mosca, Pechino e degli altri membri dello SCO, e gli USA lì sono ospiti.

Una concessione che Washington non sembra pronta a fare. Mosca, per far pressione, ha proposto una conferenza dello SCO sull’Afghanistan, da tenersi a febbraio, con la partecipazione di Karzai, il fantoccio americano che governa su Kabul.

«Gli americani non vogliono che Karzai riconosca un ruolo allo SCO nel problema afghano», dice Asia Today (5); ma Karzai, quasi sicuro che Washington lo voglia far fuori (accadde anche in Vietnam: i fantocci messi al potere dagli USA nel Sud finirono ammazzati, perchè non piacevano più al padrone) ha accolto con entusiasmo questa implicita protezione russa. Diventare membro dello SCO può essere, per il cosiddetto governo afghano, un’ancora di salvezza non da poco.

La riunione dello SCO vedrà come partecipanti l’India (questo «alleato di Washington» ha chiesto di esserci, come osservatore) e, nella stessa posizione di osservatore, l’Iran. Insomma si sta formando un  quadro diplomatico-strategico che ostacola di fatto l’unilateralismo americano.

La cosa sicuramente non è piaciuta al Pentagono, dove il «change» è consistito nella riconferma del ministro di Bush, il solito Gates; e dove Obama ha solo promesso di «parlare» con Iran, Russia e Cina e gli altri già considerano l’Iran un interlocutore rispettabile. E infatti, Washington minaccia di aprire, per i rifornimenti alle sue truppe, una nuova via trans-caucasica, attraverso la solita Georgia e poi la Turchia.

E’ una contromossa velenosa per Mosca: è la stessa via lungo cui scorre l’oleodotto – in parte già in funzione, in parte in costruzione – che porta il petrolio del Caspio in Turchia, lasciando fuori la Russia. Un atto di ostilità ulteriore, da parte di Washington. Nessun «change» rispetto a prima.

Ma tutto sta a vedere se Wahington, in piena crisi economica, militare e strategica, possa permettersi questa ostilità.

L’intelligence russa ha fatto la stupefacente scoperta che «quasi la metà dei rifornimenti USA che passano per il Pakistan è rubato da militanti, ricettatori e ladri (il termine inglese è «pilferage» che indica l’insieme dei piccoli furti di merci nei porti, piccoli ma che nell’insieme raggiungono una percentuale rilevante di perdite) L’esercito USA viene derubato in pieno giorno e non può farci niente. Quasi l’80% di tutte le forniture logistiche per le truppe in Afghanistan passano per il Pakistan. Il bazar di Peshawar sta facendo affari d’oro rivendendo le merci militari USA rubacchiate. Questo volume d’affari registrerà un aumento incredibile quando il numero delle truppe americane in Afghanistan raddoppierà, fino a 60 mila uomini. Le guerre sono tragedia, ma non mancano di un elemento comico», conclude Asia Times.

L’immagine della pesantissima logistica americana come un enorme verme steso per le lunghissime strade che salgono dal Pakistan a Kabul, semi-immobile, e depredato da miriadi di piccoli parassiti asiatici, non è solo comica: anche questa ricorda molto quel che accadde in Vietnam, e alla logistica americana nel Sud-Est asiatico.

La strada attraverso la Russia diventa un imperativo. Mosca può aspettare. E’ dubbio che Obama possa, se non si sbriga a «cambiare».




1)
Patrick Martin, «Obama’s new foreign policy team prepares escalated bloodletting in Afghanistan and Pakistan», WSW, 24 gennaio 2009.
2) «Arab’s patience running out», Khaalei Times, 27 gennaio 2009. Editoriale.
3) Ali Frick, «Is Obama Leaving a Loophole for a 'Jack Bauer Exception' to His Torture Ban?», Alternet, 23 gennaio 2009. The Center for Constitutional Rights has expressed concern that President Obama's executive order banning torture may contain a loophole. But no president has any right to declare torture legal or illegal, with or without loopholes. And if we accept that presidents have such powers, even if our new president does good with them, then loopholes will be the least of our worries. Torture is, and has long been, illegal in every case, without exception. It is banned by our Bill of Rights, the Universal Declaration of Human Rights, the Geneva Convention relative to the Treatment of Prisoners of War, the International Covenant on Civil and Political Rights, the Convention Against Torture and Other Cruel Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, and Title 18, U.S. Code, Section 2340A. Nothing any president can do can change this or unchange it, weaken it or strengthen it in any way. Preventing torture does not require new legislation from Congress or new orders from a new president. It requires enforcing existing laws. In fact, adherence to the Convention Against Torture, which under Article VI of our Constitution is the supreme law of the land, requires the criminal prosecution of torturers and anyone complicit in torture. Most of the seemingly noble steps taken by Congress in recent years and by President Obama in his first week have served to disguise the fact that torture always was, still is, and shall continue to be illegal.
4) David Gardner, «After less than a week in office, Barack Obama's approval rating plunges 15 points», Daily Mail, 26 gennaio 2009.
5) M. K. Bhadrakumar, «Russia stops US on road to Afghanistan», Asia Times, 27 gennaio 2009.


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