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Denunciamo chi infanga Forza Italia
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Mia figlia Araceli ha 20 anni, fa il secondo anno di giurisprudenza a Torino e vuole fare l’avvocato penalista. Forse perché fin da piccola si è appassionata alle mie perizie in campo criminologico e psichiatrico forense, o forse ancor di più perché, diversamente da molti suoi compagni di corso, che vogliono fare i pubblici ministeri, è affascinata più dall’etica del dubbio e dalla ricerca critica della verità, che dalle certezze di chi vuole raddrizzare, con il manganello giustiziere, le gambe alla storia e agli uomini.

L’anno scorso si è candidata alle provinciali per il Pdl, nonostante il mio scetticismo, nel collegio di Mirafiori. Nella zona di quel collegio rosso in cui nel 1994 io fui eletto alle prime elezioni in cui Forza Italia, appena nata, si presentava al popolo. Quella Forza Italia che oggi sento accusata di essere stata poco più che un braccio organizzativo di Cosa Nostra. Sentendomi chiamato in causa, e volendo continuare a guardarmi allo specchio, oltre che nello sguardo di mia figlia e dei miei giovani allievi, ho dato mandato all’avvocato Burdese, dello studio Chiusano, di querelare in sede civile e penale il signor Ciancimino, per poter devolvere l’eventuale risarcimento alle comunità terapeutiche in cui ogni giorno lavoriamo per recuperare le vittime del principale business della mafia: il narcotraffico. Ma vale la pena di evocare qualche ricordo sulla nascita di Forza Italia in quel tragico passaggio della storia della Repubblica.

Nel 1993 iniziarono ad arrestare molti dei miei amici socialisti e democristiani. Mi pareva un incubo, anche perché effettivamente gran parte di loro fu scagionata. Capisco che si stava facendo una specie di rivoluzione. Era caduto il Muro di Berlino e la storia comunista, di cui anch’io ero stato parte, aveva perso il suo appuntamento con la Storia. Proprio per questo, il principale obiettivo era quello di annientare due grandi partiti popolari - la DC e il PSI - e consegnare l’Italia ad un PCI disanimato e svuotato, ormai abitato da visitors come Scalfari e De Benedetti, e tanti altri simili, per consegnare l’Italia a delle oligarchie a cui serviva fare le privatizzazioni a basso costo. Cioè svendere ENI, ENEL, eccetera.

Insomma, l’immenso patrimonio del parastato svenduto a quattro soldi a quella che, giustamente, un libro memorabile di Blondet, giornalista dell’Avvenire, descrisse come un’Oligarchia Esoterica della Globalizzazione. Era l’annientamento dell’Italia popolare da parte di una serie di lobby e salotti, che si sono serviti della magistratura, legata all’obbligatorietà dell’azione penale, e di un post-PCI che, dopo vent’anni, non ha ancora stabilizzato oggi la propria identità. E’ il peccato originale della Seconda Repubblica, con enormi zone opache come le recenti e torbide vicende dipietriste dimostrano.

Si prevedeva l’annientamento, dopo la morte di Berlinguer, di gente che si chiamava Giulio Andreotti, Bettino Craxi, di partiti democratici storici, in un’operazione che a me parve obbrobriosa e ipocrita. Non solo in quanto ero amico dei socialisti, bensì perché mi pareva di capire a fondo quello che stava accadendo. Questa finta rivoluzione giudiziaria in realtà apriva una ferita che ancora adesso non si è completamente rimarginata. C’era qualcosa di mostruoso in quello che vedevo, perché il 90% di quelli che vedevo arrestare e distruggere erano persone innocenti e oneste, alcune delle quali pagarono con la vita, come Moroni, altri con malattie gravissime. E tanti altri con un annientamento immotivato. Quindi, quando nel 1993 si affacciò Forza Italia, io, che ero un uomo della sinistra, essendo stato comunista, socialista, libertario, radicale anche negli anni della campagna del divorzio, mi ritrovai a fare una scelta che mi sembrava quasi doverosa.

Quando mi proposero un’impossibile candidatura a Mirafiori sud, territorio in cui ero stimato primario socialista di psichiatria, sempre in mezzo alla gente, contro Chiamparino, allora segretario regionale del Pds, accettai per spirito di bandiera. Intanto perché conoscevo i leader socialisti del territorio, che erano uomini del sud, calabresi e lucani, persone che lottavano da sempre concretamente con il popolo. Poi perché pensavo che quello che stava avvenendo fosse mostruoso. Conoscevo bene Chiamparino perché lo avevo avuto segretario della sezione universitaria del PCI quando io ero segretario del circolo universitario della FGCI negli anni ‘70. Di Berlusconi pensavo che fosse soprattutto un geniale imprenditore, e amico di Bettino Craxi. Mi sembrava che fondamentalmente la sua battaglia proseguisse quella del PSI che io avevo conosciuto dal di dentro ed amato. Feci questa campagna elettorale molto convinto. Casa per casa, casa popolare per casa popolare, via per via, mercato per mercato. Naturalmente Chiamparino pensava di aver già vinto, con un distacco percentuale teorico di venti punti.

Nella lista che mi sosteneva non c’era neanche AN, che aveva un suo candidato. Non c’era neppure un’aggregazione di quello che ora è il Pdl. Ero candidato solo di Forza Italia, che ancora, tutto sommato, non esisteva, e della Lega, che pure era appena nata. Mentre Chiamparino era l’uomo di tutta la potentissima sinistra torinese che aveva in mano ogni cosa: amministrazioni, giornali, cultura, banche, scuole, sindacati e salotti, e aveva annientato anche i suoi concorrenti interni socialisti. Lo battei per 700 voti. Mi impressionò il fatto che, tra i voti del collegio uninominale e la quota proporzionale, con i voti dati ai partiti, c’era una sfasatura di migliaia di voti. Vuol dire che qualcuno aveva votato a sinistra nel proporzionale, ma per me nel maggioritario.

Fu la mia soddisfazione più grande. Anche questa piccola cosa è rimasta nei libri di cronaca - storia. Rimasi stupito io stesso, ma fino a un certo punto. Conoscevo il territorio palmo a palmo. Le famiglie che mi votavano mi avevano conosciuto per cinque anni come quello che era andato a raccattare nei giardini pubblici i loro figli con un ago nelle vene, o che aveva ricoverato i loro familiari mentre buttavano la nonna dal balcone. Fu quindi una vittoria conquistata sul campo. Ebbi la sensazione che anche le parrocchie mi avessero votato: fu la mia consolazione più grande. Oggi mi considero, fino a prova contraria, un galantuomo e non un ex parlamentare mafioso neppure in concorso esterno.

E neppure un cretino circonvenuto in un oscuro disegno. Per questo chiedo in difesa del mio onore, della mia famiglia e delle mie migliaia di lettori, di punire e risarcire la calunnia e la diffamazione, anche a futura memoria. Chi vorrà unirsi tra coloro che hanno partecipato all’esordio di quella straordinaria avventura di Forza Italia, potrà partecipare a una sorta di class action contro parole vacue scagliate come pietre o come proiettili, o, per meglio dire, frecce avvelenate di una strisciante guerra civile che intossica il Paese da circa un ventennio.

Alessandro Meluzzi

Fonte >
Il giornale | 10 febbraio

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