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Gli ebrei piangono sulla Decima Legione?
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Gli ebrei pregano e piangono al Muro del Pianto, comunemente creduto un contrafforte del Tempio ricostruito da Erode il Grande dal 19 al 64 dopo Cristo, distrutto dai romani nel 70 dopo Cristo. Sono convinti che la spianata che sta sopra quel Muro – sulla quale dal 638 dopo Cristo sorgono le più sacre moschee islamiche dopo quella della Mecca (la moschea di Omar, detta Moschea d’Oro e quella di Al Aqsa) ospitasse invece il Tempio ebraico.

E’ noto che i più zelanti e zeloti ebrei (il cui numero cresce di giorno in giorno) aspirano a distruggere quelle moschee per ricostruirvi il Tempio, il terzo della loro storia, e ripetervi il sacrificio – lo sgozzamento dell’agnello – che nelle intenzioni dovrebbe riannodare l’antica Alleanza con YHWH. E' proprio questo è il nucleo feroce dell’avversione e della persecuzione degli ebrei per gli arabi, protettori della zona sacra.

Anni fa, Ariel Sharon volle visitare la spianata delle moschee con mille israeliani armati di scorta, e provocò una nuova intifada (500 morti fra i palestinesi, che difendevano il luogo); e anche mentre scriviamo continuano strani «scavi archeologici» con cunicoli scavati sotto la spianata delle moschee, Haram e-Sharif, che secondo i palestinesi mirano a far crollare le moschee per avere una scusa onde ricostruire il Tempio.

Non c’è dubbio che questa piccla area, di poche centinaia di metri quadri, è la più rovente e contrastara terra del mondo. Se esploderà l’immane tragedia, con la «soluzione finale del problema palestinese», succederà per la spianata. Gli ebrei non possono celebrare il rito che lì, sulla «roccia di Abramo» che spunta dal terreno sotto la moschea d’Oro.

E se non  fosse vero? E’ possibile che il Tempio ebraico sorgesse non sull’attuale spianata delle moschee, bensì un mezzo chilometro più a Sud, sulla antica sorgente di Gihon? E che gli ebrei, convinti di piangere davanti all’ultimo muro rimasto del loro Tempio, piangano in realtà su un contrafforte della Fortezza Antonia, dove – per sommo spregio – fu stanziata la famosa Decima Legione imperiale, detta «Fretensis», che la occupò per 200 anni, dagli ebrei detestata presenza e prova dell’odiato potere di Roma?

D’accordo, la tesi suona a prima vista incredibile e indegna di credito. Ma il dottor Ernest L. Martin, che la espose in un suo saggio dal titolo «The Temple that Jerusalem forgot» (Il Tempio che Gerusalemme ha dimenticato) pubblicato nel 2000, la sostiene in base ad evidenze storiche, archeologiche, bibliche e geografiche che – lo ammetto – mi paiono sorprendentemente ben fondate.

Anzitutto due parole su Ernest Martin, purtroppo deceduto nel 2002 (era nato  nel 1932). Per quarant’anni, da vero credente protestante americano, di formazione scientifica, Martin ha  collaborato agli scavi archeologici sotto la guida di Benjamin Mazar, luminare dell’archeologia ebraica, docente alla Hebrew University e primo escavatore della zona del presunto Tempio tra il 1967 e il 1978. In tutti questi anni, Martin ha affiancato il grande archeologo, non di rado raccogliendo fondi per la continuazione degli scavi, e guidando fino a 450 studenti americani impiegati nelle operazioni.

Da questa esperienza, Martin è stato indotto a rileggere con attenzione uno dei massimi documenti storici della storia di Gerusalemme: «La Guerra Giudaica» di Giuseppe Flavio, il colto ed accorto fariseo che, ben valutata la potenza romana, si arrese per tempo e seguì come interprete l’armata di Tito (il futuro imperatore), assistendo all’assedio di Gerusalemme, alla sua conquista, e all’incendio del Tempio nel 70 dopo Cristo. Giuseppe l’Ebreo si legò alla famiglia di Tito come cliente, tanto da assumere il nomen della «gens Flavia»; visse poi a Roma, tranquillo favorito dei Flavi. Insomma, un testimone oculare  prezioso. Che aveva ben chiaro dove sorgesse il vero Tempio, poi distrutto.

Ebbene: nel libro VII (8,6) della sua Guerra  Giudaica, Giuseppe Flavio parla di Eleazar, il ribelle ebreo irriducibile che comanderà l’ultima ridotta della rivolta a Masada, dove si darà la morte con gli ultimi difensori nell’anno 73 dopo Cristo. E ad un certo punto, Eleazar (secondo Flavio) pronuncia questo lamento: «Dov’è la città che fu creduto ospitare Dio stesso, abitante tra le sue mura? Oggi è demolita tutta fin dalle fondamenta, e non ne è rimasto nient’altro se non il monumento preservato, ossia l’accampamento di coloro che l’hanno distrutta, e che ancora abitano sulle sue rovine».

E’ chiaro che Eleazaro allude alla Decima Legione, che distrusse il Tempio, e che ora si accampava a Gerusalemme. E’ anche abbastanza evidente che Eleazaro non parla qui di un accampamento di tende, di un campo romano provvisorio. Parla di un monumento, l’ultimo monumento rimasto da una distruzione che non  ha lasciato «pietra su pietra». Un monumento in muratura.

Non c’è dubbio che qui si parli della Fortezza Antonia, la formidabile fortificazione che Erode il Grande costruì per le sue truppe nel cuore di Gerusalemme, per la sicurezza sua (come Asmoneo, non discendente da David, Erode non era considerato un legittimo re dai giudei), e che chiamò «Antonia» in onore (o per servilismo) verso Marco Antonio (l’alleato e poi nemico di Cesare, amante di Cleopatra), di cui era vassallo e protetto.

E’ storicamente accertato che nella fortezza Antonia prese poi stanza la «X Legio» romana, presidio permanente della insubordinata  e ribollente provincia di Giudea.

Secondo Ernest Martin, la fortezza Antonia si stendeva proprio sulla spianata dove oggi sorgono le moschee di Omar e di Al-Aqsa. Giuseppe Flavio descrive la fortezza come «grande quanto una città, capace di ospitare una intera legione» (5 mila uomini, senza contare gli ausiliari e i servizi di supporto), e ben rifornita d’acqua da una sorgente e da un condotto sotterraneo. I romani la occupavano già dal 6 dopo Cristo. Non avevano alcuna ragione di distruggerla dopo la guerra, tanto più che i suoi alloggiamenti in pietra e  le sue ottime fortificazioni (probabilmente dovute a genieri di Roma) offrivano una protezione già pronta.

Giuseppe Flavio attesta che la fortezza Antonia era costruita attorno a una «roccia», la cui cima sporgeva ben visibile nel centro del cortile interno del forte. Martin dimostra, citando la testimonianza di padri della Chiesa e pellegrini cristiani del quarto e sesto secolo, che questi pii visitatori, a Gerusalemme, identificavano in quella roccia il pretorio, dove Pilato interrogò Gesù, o anche il «litostroto» (la spianata di pietra) di cui dice Giovanni evangelista (19;13). Su quella roccia, nel 692, il sesto califfo Abn el-Malik elevò la moschea oggi detta di Omar. E secoli dopo, al tempo delle Crociate, i cronisti di corte del Saladino scrivevano che la roccia sotto la cupola d’oro recava impresse le orme di Gesù, a ricordo di quando fu processato da Pilato nel pretorio: un’eco della tradizione cristiana, ma anche la conferma che ancora a quel tempo si comprendeva che la spianata delle moschee era il sito dell’antica fortezza Antonia, e non del Tempio ebraico.

Ma allora, dove si trovava il vero Tempio?

Ancora Giuseppe Flavio scrive che il Tempio sorgeva su un terrapieno di pianta perfettamente quadrata, con i quattro lati di 600 piedi (la Fortezza Antonia era rettangolare). Attesta inoltre che il muro dell’angolo sud-orientale del Tempio saliva a strapiombo dalla vallata del fiume Kidron, elevandosi dal livello del torrente per 300 cubiti, ossia come un palazzo di 40 piani.

Dice anche che la fortezza Antonia era molto più vasta del Tempio, così vasta che con la sua massiccia incombenza oscurava l’intero quadrato del Tempio da nord.

Dice infine che l’angolo nord-occidentale del tempio ebraico era stato da Erode collegato alla fortezza Antonia da due colonnati gemelli di 600 piedi.

Da queste descrizioni, Martin ha ricavato un disegno, che dà un’idea delle proporzioni e delle posizioni dei due complessi.



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Il Tempio è a sinistra, la fortezza Antonia è il grandioso complesso a destra, con le caserme all’interno, il cortile di pietra (il litostroto?) e collegato al tempio da due percorsi a colonne.

Si noti come la mole Antonia facesse ombra al primo cortile del Tempio, più basso. Un contrafforte inclinato di pietra circondava la fortezza ad Est.

La muraglia verticale sopra questa fortificazione inclinata sarebbe quella, sull’altro lato, che i giudei prendono per l’ultimo resto del Tempio (o meglio il contrafforte che ne reggeva il terrapieno), e chiamano Muro del Pianto.

Qui sotto la ricostruzione dettagliata fatta da Martin dove abbiamo indicato in rosso il Muro del Pianto che - come evidenziato - sarebbe in realtà un resto della roccaforte Antonia.



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Ma c’è di più. La Bibbia attesta che sia il primo tabernacolo di re David, sia il tempio di Salomone, erano situati sopra «la fonte di Gihon» («Samuele, 6:17; primo libro dei Re, 1: 38-39), essendo l’acqua corrente necessaria per le purificazioni rituali: «acqua viva», come insistono i salmi 46 e 87).

Effettivamente, un viaggiatore egiziano di nome Aristea, che visitò Gerusalemme nel 285 avanti Cristo, ha lasciato scritto che il Tempio era situato sopra una fonte inesauribile, che sgorgava nell’interno. Quanto a Tacito, scrisse verso il 100 dopo Cristo che il Tempio di Gerusalemme «aveva entro il suo recinto una sorgente naturale».

Ora, nessuna sorgente naturale è stata mai trovata entro la spianata delle moschee (Haram e-Sharif, o «Monte del Tempio» secondo gli ebrei) che secondo Martin era l’antica fortezza Antonia, ma solo cisterne per la raccolta dell’acqua. Quella di Gihon è la sola sorgente che si trova nel raggio di cinque chilometri da Mazar-E-Sharif.

Che gli ebrei non abbiano mai identificato, per secoli, l’attuale Haram e-Sharif con il luogo dove sorgeva il Tempio, si ricava da varie testimonianze che Martin ha cura di elencare. Nel settimo secolo, durante il regno di Omar, il secondo califfo, settanta famiglie ebraiche di Tiberiade chiesero al califfo il permesso di stabilirsi a Gerusalemme. Dove volete abitare?, chiese il sovrano. Ed essi (secondo una lettera della cosiddetta biblioteca di Geniza in Egitto, oggi conservata all’università di Cambridge) risposero: nella parte meridionale della città, «onde stare vicino al sito del Tempio e delle sue entrate, e alle acque di Siloe (Gihon), da usare per le immersioni»: Il permesso fu accordato: e Omar – che in quel tempio faceva costruire la moschea d’Oro sulla spianata, che porta il suo nome – non avrebbe certo permesso agli ebrei di stabilirsi proprio lì.

temple_mount_fort_antonia_5.jpgDel resto, gli ebrei imploranti non manifestarono allora alcun interesse per la supposta «roccia» della spianata, oggi contenuta nella moschea d’Oro; erano interessati solo ad abitare più a sud delle moschee, anzi ancora più a sud dei vasti palazzi governativi ommiadi, situati presso la muraglia della spianata,  che furono scoperti negli anni ‘70 dall’archeologo Mazar, a fianco del quale Martin lavorava. Un secolo dopo, ebrei karaiti si stabilirono a Gerusalemme, ed anch’essi scelsero di stare in quell’area meridionale che era il sito originario della città di Davide, lungo il torrente Kidron. Quei primi ebrei dunque sapevano bene quale fosse il sito del Tempio distrutto.

Il grande filosofo ebreo Maimonide, che visitò Gerusalmme al tempo delle Crociate, attesta che il Tempio era ancora «in totale rovina», e non poteva certo riferirsi alla spianata delle moschee, che non era affatto in rovina, ma anzi densa di edifici bizantini e musulmani. Ancor più preciso fu rabbi David Kimchi (detto Radaq nel Talmud), che si trasferì a Gerusalemme nel 1160 fino al 1235: egli attesta che il luogo del Tempio continuava ad essere in rovina, e che «nel sito non è stato costruito nulla dalle nazioni»: insomma nè i romani, nè i bizantini nè gli islamici avevano elevato alcuna costruzione sul sito originale del Tempio. Era un’area derelitta, dove si gettavano i rifiuti.

Solo al tempo di Beniamino di Tudela alcuni ebrei cominciarono a visitare la moschea di Omar credendola il Tempio, per il fatto che nella collina occidentale della spianata era stata trovata una tomba, che essi credevano (erroneamente) il sepolcro di Davide. E solo dal sedicesimo secolo, al tempo del sultano turco Selim e di suo figlio Solimano il Magnifico, gli ebrei cominciarono a pregare davanti all’attuale Muro del Pianto, inchinandosi e battendo le teste sulla muraglia della fortezza Antonia, che essi credono l’ultimo resto del  loro tempio. Gli accenni ad un «muro occidentale» nelle testimonianze ebraiche prima del sedicesimo secolo, come documenta Martin, si riferirebbero non all’attuale Muro del Pianto, bensì ai resti di due tentativi di ricostruire il Tempio, intrapresi nel 313-324 (sotto Costantino) e nel 362 sotto l’imperatore Giuliano; tentativi entrambi falliti.

Effettivamente, durante l’epoca moderna anche gli studiosi biblici hanno sempre ritenuto che l’originale città di Davide sorgesse nella zona sud-orientale di Gerusalemme, dove Martin situa il Tempio. L’opinione prevalente cambiò quando, a metà dell’Ottocento, si scoprì la cosiddetta «condotta di Ezechia», una galleria scavata nella roccia ai tempi del re biblico Ezechia (700 avanti Cristo), lunga 533 metri, che portava l’acqua della sorgente di Gihon alla piscina di Siloe, per rifornire d’acqua la rocca di Gerusalemme durante l’assedio degli Assiri: la rocca era stata potentemente fortificata, ma aveva dovuto lasciar fuori la fonte di Gihon.

Questa scoperta portò ad un ripensamento di tutta la pianta dell’antica Gerusalemme. Dimenticando però – secondoMartin – che la geografia di Gerusalemme era stata completamente cambiata un secolo e mezzo prima della nascita di Cristo: quando Simone l’Asmoneo, visto che la rocca antica (Akra, il «Monte Sion») era diventata del tutto indifendibile, intraprese imponenti lavori di  riadattamento: in tre anni il Monte Sion, che guardava il Tempio dall’alto, fu letteralmente spianato, e una nuova Gerualemme fu costruita sulla collina occidentale, a parte il Tempio che fu lasciato dov’era. Ciò, secondo Martin, ha indotto gli archeologi in errori e confusioni. E nell’attuale erronea identificazione del sito del Tempio con Haram e-Sharif. Ma se l’antico Tempio fosse stato situato lì, fa notare Martin, sarebbe così in alto che nessuno, dal monte degli Olivi, avrebbe potuto  guardare dentro i suoi cortili, com’è attestato dai vangeli e anche da Giuseppe.

Naturalmente, le teorie di Martin sono state ferocemente contrastate da biblisti ebrei e protestanti, affezionati all’idea che la Roccia di Abramo si trovi sotto la moschea d’Oro, e dunque all’idea di doverla strappare con la forza ai palestinesi: se verificata, la tesi di Martin toglie ogni scusa in questo senso.

Leen Ritmeyer, architetto di formazione, che nel 1973-78 contribuì agli scavi archeologici al di sotto dei contrafforti meridionali della spianata, autore del saggio «Secrets of Jerusalem’s Temple Mount»  (Biblical Archaeological Society, 1998), ha così  risposto e cercato di smontare la tesi di Martin: la si può leggere qui, insieme alle contro-repliche di Martin stesso.

A dire il vero, le repliche mi paiono molto più convincenti delle smentite di Ritmeyer. Basti dire che tra «le prove archeologiche ritrovate sul Monte del Tempio (Haram e-Sharif)» che accusa Martin di ignorare, adduce una «piattaforma della tromba», effettivamente trovata nell’angolo sud-occidentale della spianata: una elevazione in pietra con un’iscrizione in ebraico, che la indica come «il luogo dove si suona la tromba». Per Ritmeyer, era il piedistallo dal quale veniva suonato lo «shofar», l’ebraica tromba che annunciava i riti del sabato. Martin ha facile gioco nell’opporre che anche la fortezza Antonia aveva sicuramente un piedistallo dove si suonava la tromba, come in tutte le fortezze militari nella storia; e che la scritta in ebraico non ha nulla di strano, dato che l’aveva fatta costruire Erode il Grande per le sue milizie, prima che diventasse sede della Decima Legione romana.

Nell’insieme, le critiche di Ritmeyer sono accuse ad personam, che non discutono la tesi di Martin, ma si limitano a sottolineare che Martin è, come archeologo, un dilettante. Il che può essere un argomento, ma solo a patto di dimenticare che fu un dilettante a fare la più grande scoperta archeologica di tutti i tempi: si chiamava Schliemann e, adottando l’Iliade come guida veridica laddove tutti la credevano una raccolta di miti e favole, scoprì l’antica Troia.

Naturalmente le teorie di Ernest Martin non hanno alcuna possibilità di cambiare l’ostinazione degli zeloti ebraici a distruggere le sacre moschee di Gerusalemme, per ricostruire il terzo Tempio proprio lì. Esse toglierebbero loro un motivo di contesa; potrebbero costruire il loro Tempio circa cinquecento metri più a Sud del Muro del Pianto, senza dissacrare la zona islamica, ma evidentemente a questo punto uno dei fondamenti del sionismo – la guerra perpetua, l’inimicizia inestinguibile – non avrebbe più ragione di essere, e Gerusalemme potrebbe diventare la città pacificamente condivisa di ebrei e musulmani (e cristiani).

Oltretutto, se verificata, la teoria di Martin sarebbe la conferma della profezia che Gesù pronuncia ben quattro volte nei Vangeli: del Tempio «non resterà pietra sopra pietra che non sia divelta». Effettivamente tutti gli scavi tendenziosi ebraici non hanno trovato pietra su pietra del loro secondo Tempio, e i pochi reperti e resti che esibiscono sono dubbi o sicuramente falsi.



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Modello in scala del secondo Tempio esposto al museo di Gerusalemme. E’ una ricostruzione fantastica. Si sono «dimenticati» la fortezza Antonia




Eppure, sarebbe  nel loro stesso interesse provare a vedere se Martin non avesse per caso ragione. Non solo perchè sarebbe strano scoprire che per qualche secolo hanno invocato il loro Tempio inchinandosi in realtà  davanti alle caserme della X Legio Fretensis, quella stessa che distrusse il Tempio nella guerra giudaica, e poi ancora stroncò la rivolta del falso messia Bar Kokba nel 138 dopo Cristo.

Soprattutto, c’è un motivo teologico per non sbagliare nel sito del nuovo Tempio: perchè il rito sia valido, esso deve avvenire sulla vera roccia di Abramo. Sgozzare l’agnello pasquale sopra l’antico pretorio, dove Gesù fu portato in catene davanti a Pilato, renderebbe il rito inefficace. La vecchia Alleanza non sarebbe riannodata, e il Regno di Sion Eterno, col conseguente dominio sui goym, sarebbe rimandato sine die.



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