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Sindone: la prova c’è
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«Caro direttore,

vorrei il suo parere sulla Sindone: lei crede davvero che sia autentica? La datazione al C 14, che fa risalire il telo al 1300 circa,  mi ha lasciato un dubbio.  A quell’epoca, circolavano migliaia di reliquie, che erano in realtà pie frodi.

Michele Enna
»

Secondo Pia
   Secondo Pia

Personalmente, non capisco le polemiche e i dubbi, e sa perchè? Perchè la prova dell’autenticità della Sindone esiste già da oltre un secolo. Per la precisione dal 1898: quando per la prima volta il sacro lino fu fotografato dal fotografo torinese Secondo Pia.

Per secoli, quel che i fedeli avevano venerato e visto non era che una vaga impronta rossastra. Solo il negativo fotografico rivelò i dettagli, incredibilmente numerosi, compatibili con il racconto evangelico del Supplizio: la guancia destra gonfiata da una percossa, il setto nasale rotto, i rivoletti di sangue sulla testa (quello a forma di 3 rovesciato corrisponde anatomicamente ad una vena frontale lesionata da una spina), il versamento di siero e sangue dalla ferita del costato, la schiena straziata dal flagello romano (flagrum).



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Ora, l’ipotetico falsario del 1300 avrebbe dovuto non solo creare un dipinto usando sangue umano (gruppo AB) e nessun altro colorante (non ve n’è traccia nella Sindone), ma avrebbe dovuto conoscere con anticipo di sei o sette secoli la tecnica fotografica, e dipingere tutti quei piccoli dettagli che solo il foto-negativo avrebbe rivelato. In tal caso, non dovremmo venerare la Sindone ma il geniale falsario, perchè era un semi-dio.

Si osservi inoltre la ferita del chiodo sulla mano, che non è nel palmo come nelle raffigurazione artistiche del Crocifisso, bensì nel polso, com’è logico attendersi se i carnefici – soldati romani, molto pratici del supplizio della crocifissione – volevano tenere appeso un corpo umano senza che le mani si lacerassero.

Ora, questa ferita perforante del polso sulla Sindone è coerente con un’altra reliquia, «il santo chiodo» conservato nel Duomo di Milano, che persino Sant’Ambrogio dubitava fosse autentica.  Infatti quel «santo chiodo» non somiglia affatto a un chiodo,  ma ad un congegno più complesso, formato essenzialmente da due pezzi di ferro rozzamente forgiati: una è un’asta appiattita dal fabbro a martellate, che ha un’estremità a punta, mentre l’altre termina con un anello. L’altro pezzo è una sorta di staffa o «cavallotto» ad arco, con anelli di ferro ad ogni estremità. Inoltre, nella teca del Duomo che contiene la reliquia, ci sono pezzi di un grosso filo di ferro, che è ferro dolce, facile da piegare.



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Il santo chiodo del Duomo di Milano



Un ingegnere di Milano, Ernesto Brunati, studiando quel «chiodo» che non sembra un chiodo in termini di «carichi» e di «forze» relativi all’appendimento di un corpo umano a un patibulum (il braccio orizzontale della croce), ritiene di aver compreso come veniva usato.  Ecco il suo disegno, più eloquente di ogni spiegazione:



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Disegno dell’ingegner Ernesto Brunati



Intervistai l’ingegner Brunati per Avvenire, che pubblicò l’articolo il 15 gennaio 2002.  Secondo lui, la vittima veniva agganciata al patibulum (che la vittima stessa portava a spalle sul luogo dell’esecuzione) distesa al suolo.

Una volta agganciata nel modo che si vede nel disegno, essa era poi sollevata, appesa al patibolo,  al palo verticale della croce, con una carrucola. Il palo verticale aveva già posizionati appositi ganci, a cui veniva agganciato l’anello del chiodo. Così, tutta l’orribile bisogna poteva venire sbrigata con efficienza e facilità: non c’era bisogno di scale, e forse nemmeno di martello per piantare il chiodo nelle carni (quello del Duomo ha la forma di una rozza lama, poteva essere ficcato fra il radio e l’urna con una robusta pressione).



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Anche la deposizione del cadavere avveniva con la stessa pratica facilità: una volta schiodati i piedi,  il patibulum veniva sganciato e abbassato da una carrucola, senza bisogno di sorreggere il corpo, e nemmeno di toccarlo. Così nè i carnefici romani, nè gli ebrei, si dovettero sporcare di sangue (per gli ebrei causa di impurità).

Tutto fa pensare che il santo chiodo sia un tipico congegno prodotto in una «fabrica», l’officina presente in ogni accampamento permanente di legione romana, per la riparazione delle armi, la costruzione di macchine da guerra e di materiali edili: un’officina di carpenteria metallica, falegnameria, con annessa fornace e forgia.



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