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Stalin e Pinochet
La finanza cerca un «free-market Stalin»
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Giorni orsono dicevamo che il problema dell’Occidente, e in modo più acuto dell’Italia, è la «democrazia», ossia del potere parassitario che ci dissangua coi suoi fasti, e si è impadronito di  questo nome, legittimandosene.

Adesso però occorre un caveat: il sistema finanziario e gli altri poteri forti del capitalismo terminale, a modo loro, sono già arrivati alla stessa conclusione. E studiano un’alternativa alla «democrazia», ovviamente a loro vantaggio.

Ne dà la prova  il numero del 2 luglio dell’Economist - la rivista dei Rotschild britannici - che dedica un potente rapporto (come sempre, splendidamente argomentato) sul debito che soffoca il mondo e sulla necessità che i debitori - privati, aziende, Stati se ne pentano. «Repent at leisure» è infatti il titolo del rapporto. Qualche frase-chiave:

«Prendere a prestito è stata la risposta a tutti i guai economici negli ultimi 25 anni. Ora è il debito in sè ad essere diventato il problema». Tutti devono cambiare registro: i consumatori occidentali, abituati a compensare la perdita di potere d’acquisto dei salari con l’uso ed abuso delle carte di credito e dei mutui, sicchè oggi devono smaltire «una sbornia di 3 trilioni di dollari di debiti». Gli imprenditori che «hanno caricato le loro imprese di debiti giocandosi il paregggio di bilancio». Gli Stati nazionali, oggi sull’orlo della bancarotta essendosi indebitati per salvare le banche, e i cui governi «si trovano davanti alla difficile scelta fra irritare i mercati o irritare i loro elettori», e dovranno fare «i tagli più duri».

Tutti i debitori devono pentirsi, tranne la banche e il sistema finanziario che li hanno indebitati oltre ogni limite razionale e morale. Anzi, l’Economist dà per scontato che, nonostante la depressione economica più spaventosa della storia provocata dal sistema del liberismo globale senza freni, è il sistema che va salvato. Ossia: i debiti vanno pagati tutti, fino all’ultimo centesimo.

L’Economist ricorda con nostalgia i bei tempi  in cui non pagare i debiti «era una vergogna», in cui «il mutuo era l’ultima cosa su cui la gente decideva di fallire», mentre adesso, in USA, si abbandonano, senza sensi di colpa, le case gravate da un mutuo che ne supera il valore (crollato).

L’Economist deplora le leggi sul fallimento che a poco a poco hanno finito «per favorire il debitore contro il creditore», rendendo la bancarotta meno tragica per le aziende e i consumatori, e ne esige una «riforma» - forse il ritorno alle epoche d’oro della galera per debiti.

E qui arriva la conclusione-chiave (o la direttiva), che traduco integralmente, perchè altrimenti il lettore può non credermi:

«Dani Rodrik, economista di Harvard, ha parlato del trilemma per cui i Paesi che aspirano a realizzare la più profonda integrazione economica col resto del mondo, la sovranità nazionale e la democrazia politica, possono raggiungere due di questi fini, ma non tutti e tre.

Lasciati a se stessi, gli elettori resisteranno ai sacrifici richiesti per restare competitivi in un sistema di integrazione economica globale, e gli Stati nazionali alzano continuamente barriere (doganali) al commercio internazionale.

Un metodo per eliminare questa barriere sarebbe un governo federale mondiale.

Laltro metodo sarebbe di mettere al potere uno Stalin del libero mercato- una figura sul modello del cileno Augusto Pinochet - che costringa i cittadini del suo Paese ad accettare le costrizioni del mercato globale, fra cui il ripagamento del debito».

Proprio così. L’Economist dei Rotschild auspica un «free-market Stalin». O, se lo Stalin liberista non si trova, una figura come Pinochet, che in Cile impose il liberismo affidandosi alla scuola economica di Chicago. I «Chicago Boys» del monetarista Milton Friedman fecero del Cile il laboratorio delle loro teorie ultraliberiste; quel Paese ne aveva effettivamente bisogno dopo lo statalismo marxista di Allende, e che risvegliò le energie imprenditoriali soppresse.

Se mai, è da notare il fatto singolare che la Gran Bretagna dei Rotschild arrestò il generale Pinochet, dimessosi dopo aver perso le elezioni, mentre era in visita a Londra, senza rispettarne lo status diplomatico: non ultimo esempio dell’ipocrisia inglese.

Infatti anche l’Economist sospira: nè l’una né l’altra scelta sono «seducenti». Ma aggiunge con tono improvvisamente minaccioso, «i cittadini europei devono rendersi conto che il debito trasferisce il potere dal debitore al creditore». E il creditore collettivo per conto di cui parla l’Economist ha già risolto il trilemma: se non si possono avere le tre cose insieme, butta a mare le sovranità nazionale e la democrazia politica, per salvare il «mercato globale» e le sue «costrizioni».

Non mancano altri sintomi che i poteri forti sono entrati in un certo ordine di idee.

«La condizione di fatica democratica e di erosione delle istituzioni democratiche in Europa» viene sottolineata in un articolo di Herfied Munkler, un influente analista politico berlinese del Collegio Federale per gli Studi di Sicurezza, che esplora se «esistono riserve di legittimità al di là dello Stato di diritto».

Munkler cita un politologo britannico, Colin Crouch, e il suo recente saggio «Post-Democracy»: il voto ha ancora luogo ma è ridotto a «spettacolo» da esperti di pubbliche relazioni che controllano  strettamente il dibattito pubblico. La sempre più diffusa disaffezione verso il sistema democratico  dà «una certa seduzione ad un flirt con le dittature».

Non solo Mumkler è tedesco, ed affronta con tale agio un tema che in Germania è (era) tabù. Lo scrive su «Internationale Politik», che è la rivista del German Council on Foreign Relations (DGAP), che è la filiazione germanica del Council on Foreign Relations (CFR) americano, lo storico think-tank fondato e finanziato dai Rockefeller, che ha elaborato le strategie mondialiste dell’ultimo secolo, e formato segretari di Stato come Henry Kissinger, consiglieri di sicurezza nazionale come Zbigniez Brzezinski, e il teorico dello scontro di civiltà Samuel Huntington.

Nell’editoriale, la rivista si chiede se «i sistemi autoritari tornino a brillare» dal momento che «il successo economico di autocrazie come Cina e Russia» ha mostrato che «sono più rapide a decidere, rispetto alle appesantite democrazie».

Naturalmente, si brucia il grano d’incenso al politicamente corretto, assicurando che  «lo splendore delle dittature è posticcio», e che «nonostante tutte le contraddizioni delle democrazie, le dittature, in tutte le loro varianti sono troppo rischiose».

Tuttavia Munkler, citando Carl Schmitt (un altro tabù violato) distingue fra «dittature sovrane e dittature provvisorie». Mentre le dittature sovrane creano un nuovo ordine politico (e sono dunque bocciate), la dittatura provvisoria «difende un ordine costituzionale con mezzi extra-costituzionali».

E conclude: «Se oggi si parla variamente di poteri e misure dittatoriali, è generalmente nel senso delle dittature che Schmitt definiva provvisorie» (www.german-foreign-policy.com).

Se ne parla, dunque. Dove? Evidentemente, nelle cerchie dell’Establishment a cui il Council on Foreign Relations si rivolge.

La sola cosa a cui si sono impegnati i governanti occidentali riuniti al G-8 e poi al G-20, dopo aver rigettato ogni minima idea di introdurre la tassa Tobin sulla speculazione e qualunque riforma del sistema bancario (e non parliamo di nazionalizzazione), è stato di dimezzare i loro deficit pubblici in un anno e mezzo, per «rassicurare i mercati»: in pratica l’estensione al globo del patto di stabilità europeo, che in Europa è stato infranto per l’impossibilità di rispettarlo, e che per funzionare nel mondo richiederebbe poteri dittatoriali.

Gli europei hanno esibito ai «mercati» la grossezza dei rispettivi piani d’austerità (la mia austerità è più grossa della tua), tagli sociali e delle pensioni, aumenti della pressione tributaria su cittadinanze impoverite e un’economia in regressione velocissima. Ma si tratta di organizzare la Grande Regressione del lavoro e dei salari euro-americani, già da anni in calo per la concorrenza della dittatura cinese, per «ridiventare competitivi», ed estrarne ancora quel tanto in tasse che renda di nuovo solvibili gli Stati.

La Banca Mondiale l’ha prescritto il 3 giugno, prima del G-20:

«I Paesi ricchi possono aiutare il ritorno della crescita delle loro economie sviluppate tagliando rapidamente le spese pubbliche o aumentando le imposte».

E’ in realtà la ricetta per lo strangolamento dell’economia reale. Naturalmente «non è pensabile» trovare i fondi non pagando gli azionisti delle banche predatrici, nè aumentare le tasse sulle grandi fortune. Dal punto di vista delle banche, di Wall Street, della FED e della BCE e di Mario Draghi, tutto il «problema economico» si riduce a come mantenere solvibili le banche commerciali e le altre entità finanziarie dopo lo scoppio della bolla. Così, i debiti «devono» essere pagati, anche se sono cresciuti al di là della capacità di rimborso dei debitori, famiglie, imprese e Stati.

Lasciate ai banchieri la scelta fra gestire le banche per promuovere l’economia o fra manovrare l’economia a profitto delle banche, e loro sceglieranno la seconda.

Poichè ciò di cui parlano l’Economist e il Council on Foreign Relations non sono chiacchiere ma direttive, si può giurare che sono già in corso le selezioni per trovare i personaggi capaci di «difendere l’ordine costituzionale con mezzi extra-costituzionali». I candidati già si fanno avanti, e per l’Italia, la promozione di Gianfranco Fini (cooptato nella filiale europea del Council on Foreign Relations, e infaticabile adempitore dei desideri del suo governo, l’israeliano) dovrebbe già suggerire qualcosa. Ma s’è proposto anche Alemanno, ed anche il ministro Alfano ha voluto farsi vedere e fotografare in Israele a stringere con il suo collega in yarmulka una collaborazione rafforzata «contro il terrorismo», ossia anti-islamica. Sembra che il governo Berlusconi, nella sua fase terminale, non possa fare altro che identificarsi con Sion.

Vediamo se basterà. Dopotutto, i personaggi che si stanno agitando per la post-democrazia sono ancora personaggi della Casta e della «politica» che si autonomina «democrazia», e i poteri forti cercano un «free-market Stalin» o un Pinochet per fargli gestire la grande regressione dei livelli di vita, delle libertà politiche (1),  dello Stato sociale, dei salari e delle speranze collettive e individuali. E la revulsione delle popolazioni contro la «democrazia» è tale, che saluteranno con sollievo la «dictatorship» promossa dall’alto, come se fosse nata da volontà popolare.

Lorsignori hanno imparato la lezione degli anni '20-'30, e non ripeteranno l’errore. Si tratta di prevenire e cavalcare i furori sociali contro le tasse e i lussi e sprechi dell’oligarchia «democratica», e dare al «popolo ciò che vuole».

Naturalmente, la prossima sarà una autocrazia «provvisoria». Perchè quelle degli anni '30, «sovrane» e creatrici di un nuovo ordine politico, anzitutto nazionalizzarono le banche per farle servire all’economia reale. Il pericolo da scongiurare.

Ma il discorso richiede una prossima puntata.




1) Le libertà di stampa, di riunione, d’informazione, di scelta dei propri politici con vere elezioni. Ovviamente ci lasceranno liberi di sposarci tra gay, di promuovere la droga in TV, di fare l’eutanasia al nonno. La campagna Nirenstein per la chiusura dei siti «antisemiti» si inserisce nella Grande Repressione in corso. Essa è parte di una campagna mondiale. In USA, è il senatore ebreo Joe Lieberman ad aver elaborato la legge «Protecting Cyberspace as a National Asset», già di fatto approvata, che dà al presidente il potere insindacabile di chiudere  siti internet per ragioni di «sicurezza». Il motivo l’ha detto lo stesso Lieberman: sul web corre «una disinformazione totale», e «cè gente che spaccia informazioni sbagliate» per così dire «porta a porta», al di fuori del controllo della lobby. «In Cina, il governo può scollegare intere parti di internet in caso di guerra; abbiamo bisogno di questo per proteggere il nostro Paese», ha detto il senatore di Sion. Il controllo del regime cinese (vero «free-market Stalin») sulla libertà in internet è preso come modello dalla grande «democrazia». In Tibet l’accesso a internet è severamente ristretto. Durante i disordini nello Xinjang da parte della popolazione musulmana e turcofona, nell’estate 2009, internet fu accecato per giorni. Oggi, la legge cinese esige che chiunque apra un nuovo sito si faccia registrare preventivamente; anche chi posta un commento dovrà fornire la sua vera identità. L’abolizione dell’anonimato serve a soffocare le libere critiche contro il regime e lo Stato, e la diffusione di informazioni sgradite al free-market Stalin

 

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