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Come diventammo civili
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Ma davvero i cosiddetti «primitivi» sono in realtà dei degenerati?
I resti ultimi di antichissime civiltà scomparse?
Una mia breve allusione nell’articolo «Come si diventa selvaggi» ha suscitato la curiosità
di parecchi lettori.
Alcuni mi chiedono i libri, le fonti che illustrano questa tesi.
Mi scuso: ciò che ho scritto è il risultato di letture ed esperienze stratificate - strati geologici -
nella coscienza; ricostruire la bibliografia sarebbe una fatica improba.
Dirò alcune cose che ho visto, e che tutti potete andare a vedere.
La civiltà megalitica, per esempio.
Una «cultura» preistorica che ha abitato l’Europa, anzi il mondo per migliaia di anni,
e che ha lasciato monumenti enigmatici e straordinari.
Una cultura unitaria (in qualche modo, precedente alla «confusione delle lingue») perché è unitario il «linguaggio» quei suoi monumenti: i dolmen, per esempio.
Uguali dalla Siberia all’America Latina, espressioni di una stessa cultura.
O di uno stesso culto.

Stonehenge, in Gran Bretagna.
E’ appurato ormai da anni che la cerchia megalitica di Stonehenge, con i suoi colossali monoliti appena sbozzati, all’apparenza così «primitivi», era un apparecchio per la determinazione
degli equinozi e dei solstizi, e per la previsione delle eclissi.
Ma non si tratta di un apparato scientifico, nel senso moderno.
Si tratta di un manufatto che va inserito nell’ambito di una visione «religiosa» (anche il termine religione va usato qui solo come metafora) che implicava l’adorazione della «luce diurna».
Di questo culto restano segni nella cultura vedica e anche acheo-dorica: Zeus si chiamò, all’origine, Dyaus-piter, «padre della luce del giorno».
E questa luce era, nella visione preistorica, non la luce astronomico-materiale del «sole»: era «anche» (perché la mente preistorica era metafisica, e dunque «analogica»: capace di vedere
il senso che univa nei simboli cose diverse) la luce che illumina la mente dell’uomo «risvegliato». Adorare quella luce implicava il rifiuto della «tenebra», dell’inconscio, del lato biologico-femminile dell’uomo?
Possiamo solo ipotizzarlo, indovinarlo.
Ma nella mitologia greca c’è il senso di un tale rifiuto.
Diventare civili era rifiutare la «tenebra femminile».
Ma il discorso ci porterebbe lontano.

Torniamo a quelle pietre megalitiche.
Appena sbozzate.
Naturalmente si è detto: quegli esseri preistorici non erano in grado di levigare i loro megaliti. Davvero?
Erano in grado di trasportare da decine di chilometri quelle colonne di roccia pesanti centinaia
di tonnellate; sapevano elevarle in verticale, senza gru e motori.
E non sapevano squadrarle meglio?
La vera ragione che indoviniamo è un’altra.
Quelle pietre «piacevano» così.
Se vogliamo, la loro brutale apparenza primitiva era il loro «stile».
Una questione di «gusto», potremmo dire.
Ma sbaglieremmo ancora: qui, c’era un motivo «religioso» per non squadrare i megaliti.
O meglio, doveva esistere tutta una simbologia metafisica della pietra - questa sostanza così dura, così massiccia, densa e indifferenziata - come metafora della «materia prima universalis» (1).

Come lo sappiamo?
Dalle amigdale.
Da quelle pietre che uomini preistorici sbozzarono a forma di mandorla, di amigdala.
Se ne trovano a migliaia, in tutto il mondo e specialmente in Europa.
In genere, vengono interpretate come «asce a mano».
Il guaio è che se ne trovano di piccolissime (allora le si definiscono «punte di frecce») o alte dieci metri (e allora le chiamano «dolmen»).
Forse sono state anche armi; certo è che sono oggetti di culto.
Le amigdale, di qualunque dimensione siano, sono perfettamente inscrivibili nella forma
delle cosiddette «Veneri grasse» preistoriche: statuette di donne incinte con enormi seni,
e senza arti, a forma di mandorla.
E però, palesemente, le pietre amigdale sono anche semi.
Donne-semi, fertilità; e nello stesso tempo forse davvero asce, perché l’ascia da guerra che uccide
si intride di sangue, come la donna per generare deve versare sangue (mestruale).
Vita-morte: entrambe nascono nel sangue, la morte è un’altra nascita.
Il più arcaico mito greco parla di Deucalione e Pirra, la coppia superstite dal diluvio,
che generò la nuova umanità seminando pietre: erano amigdale, sementi.
I contadini europei, quando trovavano queste pietre preistoriche nell’arare i campì, le hanno sempre chiamate «pietre di fulmine»: ricordo della loro origine celeste, cultuale.

E siete mai stati a Malta?
Avete mai visto gli incredibili templi megalitici che vi restano?
Stesso linguaggio stilistico di Stonehenge (2), e stesso sforzo tecnico.
Sono precedenti a Stonehenge di almeno un migliaio d’anni, parliamo del 3 mila avanti Cristo. Allora, a Malta, vivevano ancora elefanti nani e qualche leone.
Ma c’era una civiltà raffinatissima.
Nel museo locale, fa impressione vedere dei bottoni preistorici.
Bottoncini di madreperla con quattro buchini perfetti, identici a quelli delle nostre camicie. Sembrano prodotti industriali.
Evidentemente, i maltesi di 5 mila anni fa usavano abiti «cuciti», il che deve significare qualcosa. Perché la toga romana e il sari indù non sono abiti cuciti; sono un solo pezzo di stoffa uscito
dal telaio - e in India resiste tutta una metafisica del telaio, le donne tessitrici vedono il loro mestiere come un analogo della «tessitura» del mondo, lavoro del «tessitore» supremo.
L’abito non cucito, dunque, è un abito cultuale, con forte significato sacrale: ricordate la tunica «inconsutile» di Gesù, un pezzo solo, non cucito, sicuramente tessuto dalla Vergine?

L’abito fatto di pezzi tagliati e cuciti è più «moderno», e nello stesso tempo un indizio di sottile secolarizzazione.
Il valore essenziale diventa la praticità.
I maltesi erano così?
Nei loro templi megalitici celebravano il culto della dea madre, una donna grassa amigdaloide,
e del suo figlio-amante divino.
E’ il segno di una caduta dalla civiltà preistorica e metafisica del dio-luce?
Domanda da lasciare sospesa.
Certo è che si vedono anche lì enormi massi.
Appena sbozzati, eppure lavorati in modo da combaciare alla perfezione; come quelli delle civiltà pre-incaiche.
Stesso linguaggio, stessa perizia e «primitività» stilistica.
Si potrebbero fare altri esempi.
In Australia, dove gli aborigeni sono da poco non più considerati «selvaggi», ma depositari
di antichi mitici saperi.
Recenti scoperte hanno consentito di trovare i segni dei primi australiani: coppelle scavate
nella roccia (le coppelle si trovano in tutto l’ambito delle civiltà megalitiche), colorate di ocra rossa come quelle dei Camuni, come gli scheletri nelle sepolture di Neanderthal e Cro-Magnon. Risalgono a 300 mila anni fa.

Dobbiamo immaginare che uomini «erecti», stupidi, idioti scimmioni, abbiano navigato
fino all’Australia.
Come si fa, essendo stupidi scimmioni?
In Australia non si arriva navigando a vista, su tronchi scavati; anche dalle isole più vicine,
il continente resta sotto la curva dell’orizzonte, invisibile.
Occorrono navi adeguate, una perizia straordinaria, una capacità di orientarsi sulle costellazioni.
Ma l’erectus era stupido, ci dicono.
Ciò che colpisce, di queste «civiltà» preistoriche, è la durata immensa.
Ad Atapuerca in Spagna, lo stesso luogo dove sono stati trovati i resti di un uomo perfettamente moderno di 780 mila anni fa (imbarazzati, i paleontologi l’hanno chiamato «Antecessor», perché viene prima dei suoi supposti progenitori, Erectus e Neanderthal), si trova un luogo di sepoltura
con centinaia di scheletri, la Dolina de los Huesos.
E non è un cimitero.
Tutti gli scheletri appartengono a giovani che sono stati «sacrificati».
E per quanto tempo hanno fatto gli stessi sacrifici umani nello stesso luogo?
Per 200 mila anni, diconsi duecentomila.
Senza interruzione.

Una civiltà unitaria di durata inimmaginabile: basti dire che la grande civiltà egizia, anch’essa
di durata incredibile, è durata «solo» sui 5 mila anni; l’impero romano meno di mille.
Era una civiltà spaventosa: 200 mila anni di sacrifici umani e forse cannibalismo.
Ma certo, per uno scopo religioso.
E’ impossibile giudicare, sappiamo troppo poco di quella cultura.
Forse, una chiave la offre un induista italiano contemporaneo, Lanza del Vasto, quando scrive:
«il solo sacrificio che Dio gradisce è il sacrificio umano».
Vi scandalizza?
Ma è proprio quello che il Dio cristiano chiede ancora: morire a se stessi.
«Non sono più io che vivo, ma Dio che vive in me», dice san Paolo: il sacrificio dell’uomo mortale, la dura ascesi dei santi, è solo questo.
Ci sono stati tempi in cui ciò veniva inteso alla lettera.
Per giudicare, bisognerebbe conoscere lo spirito con cui i preistorici iberici sacrificavano
i loro giovani, quasi sicuramente consenzienti.
Valga qui il detto: «omnia munda mundis», tutto è puro per chi agisce in purezza.
Come sapere fino a che punto l’aldilà fosse, per quegli uomini, tanto più importante dell’aldiquà
da meritare il sacrificio umano?

Per averne un’idea, si può guardare all’Egitto, ancora una volta.
Tutti gli immensi resti dell’architettura egizia, le immense statue, le grandi colonne,
sono monumenti funerari.
Gli egiziani, da vivi, continuavano ad abitare in capanne di canne; per la morte - o la vita superiore - destinavano il granito, e gli sforzi per elevare colonne in granito.
Difficile giudicare.
Può essere però che l’orrendo mito primordiale su Kronos che divora i suoi figli, alludesse
a quel culto tremendo, e alla sua abolizione.
Zeus, Dyaus, il «dio del giorno», si sottrae al pasto cannibalico e inaugura una nuova «religione» (3).
Così i greci intraprendono il cammino verso la civiltà, e la luce.
Sotto la guida di Zeus e di Pallade nata dalla testa di Zeus, imparano la fatica della civiltà. Cominciano a ridurre le Erinni - le dee della faida mediterranea, che vogliono la vendetta: chi ha versato sangue abbia il suo sangue versato - ad Eumenidi, ossia a «benevole»: Zeus e Pallade ordinano alle Furie: d’ora in poi non vi occupate più della giustizia, perché essa è sotto il segno
di Zeus; il vostro compito è la tenerezza, l’indulgenza materna.
Ma basta che la giustizia virile di Zeus venga meno e le Eumenidi tornano Erinni: ricominciano
a chiedere vendette a catena, sangue che chiama sangue.
E’ quel che accade oggi, nella nostra post-modernità, e lo vediamo in Iraq, e in Palestina.
Tornano i sacrifici umani, nella forma del massacro secolarizzato.
Così loro diventarono civili: salendo su quella strada di luce; noi ridiscendiamo la strada
in senso inverso.
Se l’argomento interessa, posso continuare.



1) Ancora una volta: dimenticare la concezione scientifica moderna di «materia». Per gli antichi, e anche per san Tommaso d’Aquino, la materia è la passività, la non-intelleggibilità oscura. Per la scienza moderna, vale l’opposizione materia-energia; per la metafisica primordiale, la «materia» era l’opposto di «forma» (o di sostanza ed essenza), l’opera di un «artefice» (umano o divino) che dà alla materia la sua «forma», la sua intelleggibilità. Un coltello, per esempio, può essere fabbricato con qualunque sostanza dura, ossidiana, rame o acciaio: ma ciò che lo rende «coltello», ossia che gli dà il suo «nome» (la sua essenza, la sua finalità) è l’intelligenza dell’artigiano, o del Creatore, l’artigiano assoluto. Per questo la materia era anche chiamata Ancilla Domini: perché passivamente, fedelmente («sia fatta la tua volontà», disse Maria), accoglieva la «forma intelleggibile» (il Logos) in sé. Ma per altro verso, come disse Dante, la materia è anche «sorda» all’intelligenza dell’artefice; tutto ciò che appare come materia è anche imperfetto, perché la materia resiste ad esprimere completamente il Logos nell’aldiquà. In questo aspetto, la materia è «oscura», tremenda e «femminile»: la scatenata dea Kalì, che danza sopra i cadaveri. Da qui l’aspetto sessuale sottolineato dagli indù: Shiva e Kali in coito eterno sono il segno dell’essenza che si unisce alla sostanza primordiale per generare il mondo.
2) Un esempio di questa «riunificazione delle lingue» in epoca storica è il romanico. In tutta Europa, l’alto Medioevo costruì chiese che, nonostante le diverse «inflessioni» nazionali e dialettali (spagnolo, lombardo, pugliese…) parlano la stessa lingua architettonica. Opera di sapienti mistici architetti, prova - per chi sa vedere - che il verbo di Cristo aveva in qualche modo superato la «confusione delle lingue» di Babele. Almeno per l’Europa.
3) Anche Roma, che sulla religione dei popoli soggetti di solito non s’impicciava, vietò regolarmente due pratiche ai vinti: il sacrificio umano, e la castrazione dei bambini. Anzi anche la circoncisione, che era ritenuta una forma di castrazione: c’era la pena capitale per il medico che praticasse l’una o l’altra. Tra gli ebrei, la circoncisione (che era un ricordo del sacrificio del figlio primogenito, tipico delle culture semitiche) era un obbligo. Già allora la lobby ebraica poté far sentire le sue ragioni presso la corte imperiale, e ottenne che per la comunità giudaica si facesse un’eccezione. Insieme allo status di «religio licita», dato da Antonino Pio. Che fu esaltato come «Pio» appunto dai giudei.
 
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