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L’euro è il nostro veleno: ecco la prova
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Repetita juvant: ecco un confronto, che dobbiamo all’Economist, sulla situazione del Regno Unito e della Spagna. Due Paesi con lo stesso livello d’indebitamento: 86% del Pil per Londra, 80% per Madrid (a fine 2012). Quasi identico deficit di bilancio: 7,9% del Pil per Londra, 7,4 per Madrid.

Ebbene: quando i due Paesi chiedono prestiti sui mercati, la differenza è enorme. La Gran Bretagna vende i suoi titoli di debito decennali all’1,82%; la Spagna, deve venderli al 5,26%.

Perché questa differenza, che schiaccia il governo di Madrid? In parte, bisogna dire che il governo Cameron ha preso misure ultra-neo-liberiste che piacciono ai cosiddetti mercati: ha ridotto l’aliquota marginale dell’imposta sul reddito dal 50 al 45%, e un ribasso dell’imposta sulle società dal 26 al 24, poi ancora al 22%. Insomma ha abbassato le tasse ai ricchissimi, e alle multinazionali. Ma è stata decisiva la massiccia monetizzazione (leggi: stampa di moneta) operata dalla Bank of England: la quale, per sua ammissione, ha iniettato nel sistema 374 miliardi di sterline per un debito totale netto di 1060 miliardi, (lordo di 1340) e un Pil di 1565 miliardi.

La differenza si chiama «sovranità monetaria». La speculazione non attacca, né gli investitori sono ansiosi che il Paese non ripagherà il suo debito, avendo esso la capacità di creare moneta. La Banca d’Inghilterra ha monetizzato il 28% del debito pubblico lordo (e il 35% del netto). Siccome, secondo i dati ufficiali britannici, gli interessi sul debito ammontano a 50 miliardi, questo rappresenta un minor costo fra i 14 e i 17,5 miliardi di sterline, ossia sull’1% del Pil. Il debito inglese ha scadenza molto lunga (14% a meno di 3 anni, 18% a 7, 17% a 7-15, 27 a più di 15 anni, 23% su indici agganciati all’inflazione), si valuta che se Londra ha preso in prestito fra i 500 e i 700 miliardi di sterline negli ultimi quattro anni, e che la smonetizzazione le ha fatto risparmiare 100-200 punti-base (ossia 1-2%) sui tassi d’interesse, ciò equivale ad un risparmio annuale fra i 5 e i 14 miliardi.

Miliardi che avrebbe speso in più, se fosse entrata nell’euro. Miliardi che la Spagna deve pagare in più, perché nell’euro c’è. Complessivamente, Londra economizza da 19 a 31 miliardi di sterline l’anno in tassi d’interesse (1,2 – 2% del Pil) per il suo rifiuto di integrarsi nella moneta unica. Se fosse entrata nell’euro, mancando queste economie, il suo deficit pubblico sarebbe sul 9% del Pil: più di quello greco, che è al 7%; ciò avrebbe provocato la viva inquietudine dei «mercati», i quali dunque avrebbero imposto un costo del debito molto superiore, unito ai noti programmi di austerità, sicché la Gran Bretagna sarebbe oggi in una recessione pari alla Grecia.

E si noti che la Spagna, contrariamente all’Italia aggravata dai suoi parassiti politici, era considerata fino a ieri un Paese modello di buona gestione e secondo i criteri di Maastricht. Nel 2007, il suo debito era ancora il 40% del Pil (ed aveva avuto tre anni di eccedenti di bilancio), mentre quello italiano era già al 100%. Proprio questa buona gestione maastrichtiana ha attratto le banche tedesche, strapiene di soldi (dei surplus commerciali germanici), le quali sono andate ad offrire alla Spagna fiumi di liquidità a basso tasso: ciò che ha provocato l’enorme bolla immobiliare spagnola.

La Spagna ha dunque sofferto due volte a causa dell’euro: prima per il credito «facile» tedesco, poi per il rincaro generale del debito sui Paesi marginali, e della «cura» di austerità imposta da Bruxelles, Berlino e Fondo Monetario, che naturalmente ha aggravato il male. Certo, i mali del Regno Unito sono più profondi e non sono risolti per sé dalla monetizzazione. Resta il fatto che i Paesi dell’euro con un deficit simile a quello inglese, quando chiedono denaro ai mercati, a 10 anni, devono pagare minimo il 5%. Mentre Londra s’indebita al 2, anzi meno.

La ragione è una sola: Londra ha ancora la sua moneta, al contrario di noi «periferici», e non ha bisogno di obbedire a Berlino. Noi abbiamo l’euro, quella moneta unica che, ci ripetevano i suoi gran sacerdoti finanziari e i loro accoliti mediatici, «ci aveva protetto dalla crisi» venuta dagli Usa coi subprime. Ora sono gli stessi che si rallegrano della calma dei mercati finanziari che «ha fatto calare lo spread», come se l’euro avesse superato la sua crisi; la calma è solo temporanea, la crisi si aggrava, come mostra la crescita travolgente della disoccupazione. In Paesi che prima dell’euro, ancorché mal sgovernati come l’Italia, avevano una potenza economica reale notevole. Che stanno distruggendo con l’austerità.

E adesso, i cervelloni del Fondo Monetario – passino alla storia i loro nomi, Olivier Blanchard e Daniel Leigh – vengono a dire candidamente che avevano sbagliato i calcoli: l’austerità da loro imposta agli europei «periferici» ha prodotto a catena una recessione più grave di quanto credevano. Avevano applicato parametri sbagliati. (L’austérité pour les nuls ou le FMI au piquet)

Ecco come funziona il «consensus» a cui Monti si adegua ciecamente: due teorici, due tecnici dei miei stivali si fidano solo dei loro parametri, da loro inventati. Non gliene frega niente che persone di buon senso, e due premi Nobel, Stiglitz e Krugman, gli vadano dicendo da anni che l’austerità aggrava le recessioni, come è sempre avvenuto nella storia, e le peggiora in grandi depressioni. Loro, vanno avanti. Provocano milioni di disoccupati e la de-industrializzazione Spagna e Italia, Portogallo e Irlanda; condannano a morte la popolazione greca, senza un’esitazione e un ripensamento.

Poi, ci vengono a dire: pardon, ci siamo sbagliati. E vanno avanti come niente. Mica vengono cacciati a calci, ridotti alla mendicità, alla disoccupazione cui loro hanno condannato milioni di colpevoli lavoratori. La «flessibilità del lavoro», per Blanchard e Leigh, non si applica. Chiaramente, non sono «competitivi», eppure non scontano alcuna pena per la loro mala «produttività».

E adesso, cari italiani, continuate a confidare a chi vi dice che bisogna ad ogni costo restare nell’euro, pagare il debito col vostro sangue, perché non c’è alternativa. Continuate a credere a Monti, a Prodi, ai Bersani, ai Draghi, ai Napolitano. Non credete ai blogger, che mica sono laureati ad Harvard o alla Bocconi. Credete solo a quel che vi dice il potere costituito. Buon pro vi faccia.

Quanto a questo liberismo e alla sua razionalità, un ulteriore esempio viene dagli Stati Uniti. Qualcuno ricorderà la AIG, il colosso delle assicurazioni americane, ridotto alla bancarotta dall’emissione di CDS (credit default swaps), ossia di derivati che pretendevano di assicurare contro il rischio di fallimenti di debitori vari: quando i debitori han cominciato effettivamente a fallire, la AIG non aveva i soldi per assicurare alcunché. Da qui il suo collasso. Che minacciava di trascinare nel suo gorgo banche americane ed europee in una sorta di reazione nucleare a catena, imprevedibile. È intervenuto lo Stato. Gli Usa, nel 2008, hanno cacciato fuori 182 miliardi di dollari dei contribuenti per salvare la AIG.

Adesso gli azionisti privati storici della AIG (primo della fila il suo ex-primo azionista e dunque proprietario, Hank Greenberg), fanno causa al governo e vogliono un risarcimento da 25 miliardi di dollari. Ciò, perché si stimano lesi nei loro interessi in ragione dei profitti realizzati dalla Federal Reserve e dal tesoro Usa, che nel risanamento e a forza di buona gestione, vendendo a poco a poco i titoli del colosso disastrato, hanno effettivamente fatto profitti: 17,7 la Fed, 5 il Tesoro. Ora i privati che hanno rovinato l’azienda dicono: quei soldi sono nostri. Ripresi i loro posti nel consiglio d’amministrazione, gli azionisti grossi della AIG discutono seriamente di far causa allo Stato, mentre contemporaneamente hanno decretato la spesa di una campagna pubblicitaria che riempie pagine di giornali con una grande inserzione, in cui si legge: «Grazie America!». Chiamatela Chutzpah: il termine ebraico non è casuale.

È il bello del capitalismo di rapina, ragazzi. I mercati non attaccano mai questi pescecani, non esigono da loro alcuna «austerità», né «flessibilità», né competitività. (Almeno i pescecani Usa ringraziano; Monti e Draghi, vogliono invece essere da noi ringraziati).



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